‘Never Trust The Algorithm’ | Traccia Per Traccia Dentro Al Nuovo Album Dei Technoir

di Celine Angbeletchy - Pubblicato il 05/11/2020
Technoir - Foto di Giacomo Carlini - Courtesy Technoir

Molto prima che il mondo finisse in totale balia del caos e degli eventi, Jennifer Villa e Alexandros Finizio, in arte Technoir, avevano già preso la decisione di avventurarsi in territori—almeno sonicamente—inesplorati.

Never Trust The Algorithm è il loro nuovo disco e, uscito lo scorso 30 Ottobre sulla loro etichetta Kengah Records, “non è figlio del lockdown, ma è figlio dei suoi tempi” confessano. A tre anni di distanza dal loro acclamatissimo disco di debutto NeMui (New Ecosystem Musically Improved), i Technoir si spingono fuori dalla loro comfort zone e ci portano nella loro sfera intima con undici tracce inedite che racchiudono gli ultimi due anni della loro vita artistica e personale, la loro realtà quotidiana, i loro idoli, i loro film, racconti e fumetti preferiti, i loro sentimenti e sensazioni in questi tempi bui, ma anche il rapporto con le loro radici, la loro poliedricità artistica e resilienza in un’industria musicale non sempre facile da navigare.

Attraversando un ampio spettro di generi, dall’elettronica al trip hop, al blues, al rock con flessioni industrial, e attingendo alle influenze che più hanno malleato il loro gusto musicale, dai Nine Inch Nails, David Bowie e Thom Yorke, a Beyoncé, Alabama Shakes, Brittany Howard, e Massive Attack, con Never Trust The Algorithm il duo genovese lancia un messaggio molto forte e diretto, invitando gli ascoltatori ad essere curiosi, consapevoli, a non lasciarsi ingannare dai potenti e invisibili ingranaggi di un sistema contro i quali si sta sviluppando una sempre più radicale forma di resistenza nel mondo della musica.

“Siamo davvero in controllo di noi stessi e delle nostre vite in un mondo dominato dai social media e dalla tecnologia, in cui gli algoritmi, favorendo pochi privilegiati, sono diventati gli strumenti per monopolizzare l’arte, la cultura, la vita delle persone?” si chiedono e ci chiedono i Technoir che, abbracciando a pieno l’approccio DYI, per questo nuovo lavoro si sono dedicati anche alla creazione dell’estetica visuale dell’album, dei singoli e dei video.

Lasciandosi trasportare dalle sperimentazioni sonore che sono poi diventate la base dei brani dell’album, il duo ha preso nuove direzioni anche nel processo di composizione dei testi e dell’arrangiamento degli strumenti, optando per meno tecnicismi in favore del ricreare tutte le sfumature dei paesaggi sonori che avevano in mente. “Essere meno tecnici ci serviva per ricreare e al meglio queste atmosfere più cupe ispirate a fumetti come Watchmen, V per Vendetta, Sin City; per esprimere questo immaginario distopico che ha fatto da filo rosso ed ha unito tutti i pezzi era necessario un suono più essenziale,” mi spiegano. “Il primo disco era ispirato alle influenze che per prime ci hanno spinto a creare il gruppo e prendere questa strada: i beat maker di Los Angeles, Flying Lotus, Hiatus Kaiyote, Thundercat. Il nostro core è sempre quello — come anche la black music intesa a livello generale, Prince, Erika Badu — però abbiamo cercato di evolverci in una direzione più personale, di inserire altre influenze che negli ultimi anni avevamo un po’ lasciato perdere, come ad esempio i Nine Inch Nails e Trent Reznor. Ultimamente ci siamo messi ad ascoltare le sue colonne sonore, come quella di Watchmen; oppure i Massive Attack, soprattutto il loro disco Heligoland che abbiamo riscoperto di recente, o anche il loro ultimo EP che ci ha ispirato molto per i pezzi più dark.”

In questa nuova ottica di esplorazione sonora ed evoluzione artistica, i Technoir vogliono anche smarcarsi dall’idea di essere visti come un duo composto da chitarrista/producer e voce. “In realtà proviamo a mescolare molto, Jennifer ha suonato molte parti strumentali soprattutto in fase compositiva e anche dal vivo inizierà a suonare la tastiera, i campionatori. Vogliamo pensarci come l’unione di noi due come artisti, senza avere ruoli ben precisi come forse era prima.”

Impazienti di saperne di più e curiosi di conoscere i retroscena del loro processo creativo e addentrarci ancora di più nel loro immaginario e nell’universo sonico di Never Trust The Algorithm, abbiamo ripercorso il disco traccia per traccia insieme ai Technoir.

GRIOT: Cause and Effect apre l’album, ma è già uno statement di per sé. Il vibe trip hop di questa traccia mi ha fatto tornare alla fine degli anni ‘90, anche grazie al rap di Jennifer. Parlatemene.

Alexandros: Questo pezzo ha avuto una genesi molto strana perché è nato come la coda di The Dreamer, il brano successivo, ma poi è diventato l’intro dell’album. Giocando con vari tipi di beat ho pensato: ‘Perché non proviamo a far(ti) rappare Jennifer?’ Una sorta di via di mezzo tra rap e parlato sussurrato simile ai pezzi di Tricky con Martina Topley-Bird dei Massive Attack. Penso che con la voce che ha lei sia molto brava a fare questo, e quindi è nato così. Inoltre, visto che The Dreamer era uno dei pezzi più chitarristici del disco, in Cause and Effect ho praticamente tolto la chitarra nello spirito dell’essere essenziali.

Jennifer: Era la prima volta che provavo a usare la mia voce in questo modo, quindi mi sentivo nuda a fare questa cosa.

Alexandros: Anche questo rientrava nel discorso di uscire dalla nostra comfort zone, sia per me con la chitarra che per Jennifer facendo cose vocali diverse dalla sua specificità. Liricamente invece l’idea è venuta pensando a come i social monopolizzano le nostre vite quasi più di quello che ci succede nella vita reale. Sono fisici, non si può più dire che siano una realtà virtuale, però sembra che sul web si possa insultare chiunque o scrivere qualsiasi cosa razzista o omofoba senza che ci sia nessun tipo di ripercussione, ma non è così.

Dopo l’enigma emotivo in cui aveva lasciato l’intro, arriva il fantastico riff di chitarra di The Dreamer che rincuora e rinfranca. Dove ci portate in questo pezzo?

Alexandros: In questo pezzo abbiamo enfatizzato l’aspetto un po’ più rock e pop. Jennifer ha avuto l’idea di mettere quel campionamento di archi nel pre-chorus che richiama il brit pop, nella nostra testa era un richiamo ai pezzi dei Blur o dei Gorillaz. Invece il testo lo abbiamo scritto a metà, è una canzone d’amore che parla anche del nostro rapporto visto che in quest’ultimo periodo ci solleviamo molto a vicenda, al di là del fatto che siamo una coppia nella vita. Era bello inserire un raggio di sole in un album dark.

Jennifer: Ci piaceva il fatto di non pensare ‘adesso scriviamo di questo e poi arriviamo lì’, ma semplicemente al fatto che in un accordo o melodia ci stesse bene una determinata parola. Anche nella parte di Alexandros le parole sono venute così. Mi piace che certi artisti – per esempio Beyoncé in Lemonade – non pensino tanto al testo, ma più alla musicalità delle parole, che però poi ci stanno perfettamente. Uno dei migliori esempi è Thom Yorke, che ho iniziato ad ascoltare molto di più ultimamente, e se vai a leggere i testi, la musicalità è tutto.

Parlando di icone, Thom Yorke, Beyoncé, si arriva al terzo brano a Icons, in cui avete creato un soundscape elettronico con dei richiami rock e blues molto interessanti che fanno sentire l’ascoltatore in un deserto desolato.

Alexandros: Questo brano è nato ascoltando Wood in My Blood dei Massive Attack, abbiamo ripreso l’idea di fare un pezzo su un ritmo percussivo, attraverso il beat e l’incedere meccanico del sintetizzatore. Ho ripreso atmosfere industrial puntando più che su suoni dell’elettronica soul morbida, su sonorità più discordanti e acide, in un certo senso, dissonanti.

Jennifer: Nella strofa c’è sempre una parola che torna, ci piaceva che ci fosse una specie di risposta, di simbolo. Anche se non c’è un senso compiuto, si entra sempre in un mondo nuovo  che ognuno vede a proprio modo nella parola che si ripete; come essere in una sorta di cerchio e ripetere una cosa insieme.

Alexandros: Ci siamo immaginati di essere una palude texana, come i racconti di Lansdale che sono ambientati nel Texas di quest’America molto rurale e cupa. Abbiamo pensato ai principi dei canti blues e gospel, infatti nelle strofe esce questa idea e sboccia nei ritornelli.

Con Haters Hate invece tornate al vostro signature sound ed il brano è accompagnato da un video fantastico che ha anticipato l’uscita dell’album. Siete usciti dalla vostra comfort zone sia musicalmente che dal punto di vista visuale. Raccontatemi il processo creativo per entrambi.

Jennifer: Sì, come hai detto è il pezzo più Technoir. Volevamo fare un video animato sin dall’album precedente, ma per diversi motivi non era capitato e visto che eravamo in pieno lockdown, ci siamo detti: ‘Perché non proviamo noi a fare un video animato?’ Così abbiamo comprato una tavoletta grafica, abbiamo visto dei tutorial e abbiamo iniziato ad animare. Come facciamo sempre, ci siamo divisi i compiti: io mi sono occupata del rotoscoping — abbiamo fatto dei video che poi ho ricalcato su Photoshop per dare un movimento più naturale a determinate scene — mentre Alessandro ha colorato e disegnato le parti a mano libera. È stato bello perché in una situazione in cui si ha troppo tempo per pensare, fare qualcos’altro, anche solo mettersi lì con la tavoletta ed ascoltare della musica mentre mi focalizzavo su un frame, è stato molto rilassante. Molte cose che abbiamo fatto negli anni sono nate dalla necessità, perché comunque proviamo ad essere più sostenibili possibile.

Alexandros: Inoltre, abbiamo cercato di rifarci al concept grafico della copertina del disco che ho realizzato io. L’idea era di riprendere l’immaginario dei fumetti, Alan Moore, Sin City, o Andrea Pazienza. La cover del disco è una rappresentazione del titolo: un essere umano che affoga in un mare digitale. Ma sarebbe bello che ognuno ci veda quella che vuole, ma per me il significato era quello, ad esempio secondo Jennifer l’essere umano affiora. In generale, ci è sempre interessato esplorare l’aspetto multimediale di tutto ciò che sta intorno a un disco e al nostro mezzo di espressione principale che è la musica, secondo me è imprescindibile, ed è stata proprio una nuova sfida per noi. Adesso che sappiamo che ci è piaciuto farlo, credo che ne faremo altri e vorremmo anche creare — per quando poi si potrà — i visuals per il live show. Il brano di per sé è chiaramente ispirato al neo soul, perché secondo noi ci stava a fare da ponte con i lavori precedenti.

Jennifer: Poi, come il titolo fa intendere, parla delle situazioni che abbiamo affrontato durante questi anni, perché abbiamo trovato tantissime persone ottime, ma anche un sacco di persone che non ti aiutano e che se possono ti affossano. Era divertente fare un pezzo più ironico, e molto più soul con il nostro collaboratore Lucio Massimi, al sax, che era presente anche nell’altro disco.

Hayami/Bitter Awakening è un altro vostro tributo alla cultura dei fumetti e anime. In questo pezzo, avete collaborato con Veezo, giusto?

Alexandros: Questa è l’ultima collaborazione “face to face” che abbiamo fatto prima del lockdown. L’idea di riprendere l’immaginario dei fumetti in chiave manga e liricamente è uno stile completamente diverso rispetto agli altri brani. L’abbiamo pensata come se fosse una sigla di un anime immaginario, che magari potremmo pensare di produrre prima o poi. Parla di questa super eroina, una guerriera del medioevo giapponese.

Jennifer: Sì ,esistevano le samurai donne e ci piaceva questa storia, quindi nella prima parte, in cui il  beat è più veloce, è rappresentata lei che combatte, mentre verso la fine c’è un momento riflessivo in cui invece lei pensa, ma è rimane comunque aperto a interpretazione. Volevamo avere Veezo, Fabio Visocchi, perché lo stimiamo molto ed una delle cose che ci piace particolarmente di lui è che quando c’è, senti la sua presenza.

Alexandros: Con Fabio siamo riusciti a realizzare un’altra idea che avevamo da tempo che era di inserire i synth modulari. Lui ha un modo di lavorare più analogico rispetto al nostro che è più digitale e volevamo che si sentisse questa influenza nel brano.

Parliamo de Il Male. Penso sia la prima volta che sento Jennifer cantare in Italiano? Come mai questa decisione? Vi chiedo: “È mai nato qualcosa dal male?” 

Alexandros: Questo brano ha influenze più trap, electro e non è nato come brano Technoir. Abbiamo iniziato a fare musica sotto un’altro nome per syncronizzazioni, ma anche colonne sonore, che di recente ascoltiamo molto, e per questo motivo il brano è nato interamente in Italiano ma poi lo abbiamo reso più Technoir e abbiamo deciso di inserirlo nel disco.

Jennifer: Questa canzone parla di rinascita. Mi sono immaginata questa specie di albero morente, ed è come se io fossi una bambina che guarda questo albero e si domanda: è mai nato qualcosa dal male? Anche questa può essere interpretata in diversi modi perché secondo me, sì, può nascere qualcosa da una cosa brutta, può insegnarti a crescere, a diventare migliore.

Alexandros: Io invece la interpreto al rovescio: è mai nato qualcosa dal male? No. Quindi smettiamo di spargere odio ovunque perché dal male non nasce niente, bisognerebbe piuttosto piantare un seme positivo. In realtà stiamo dicendo la stessa cosa arrivandoci da punti diversi.

The Beauty We’re Losing. Sembra che la bellezza si stia perdendo un po’ in tutto dalla natura, al vivere. Voi di quale bellezza parlate?

Alexandros: Questo brano vuole dare un’impressione che è molto collegata al suono.  Le parole non hanno un senso compiuto di per sé e musicalmente è forse uno dei brani più lontani da quello che abbiamo fatto fino ad ora. Ritorna l’idea di usare la voce di Jennifer in maniera più rap, se vuoi recitata. Ci sono diversi effetti vocali ma è un pezzo molto essenziale, qui abbiamo curato in maniera particolare il sound design inserendo delle percussioni metalliche. Abbiamo anche ripreso l’idea di cantare in due, che è una cosa che divide molto quelli che ci seguono, ma penso vocalmente di evocare un mondo così diverso da quello che evoca Jennifer che è un colore in più, quasi complementare.

E poi si arriva a Nomad che mi ha dato lo stesso sentimento di perdita e spaesamento, con delle reminiscenze psichedeliche, grunge.

Alexandros: Sì, se fino a qui il disco era volutamente schizofrenico, ora si stabilizza su questa cupezza. Rispetto a The Beauty We’re Losing, siamo usciti dal solito beat making neo soul ed è nato un giro di percussioni su cui ho steso queste chitarre che lo hanno reso uno dei brani più grunge. Siamo andati in una direzione nuova con sopra una melodia vocale che riportasse tutto nel nostro mondo. Mentre come testo siamo tornati a una tematica che avevamo affrontato in Nemui, come il titolo fa intuire parla del rapporto con le proprie radici, un discorso che è sempre stato focale per noi, anche perché ci siamo resi conto che l’abbiamo vissuto in maniera opposta: io sono sempre stato in contatto con le mie radici Greche e Italiane, mentre Jennifer no, essendo adottata.

Jennifer: Come voce ho usato un registro molto più profondo rispetto a quello che uso di solito proprio per enfatizzare il sentimento di non sentirsi a casa. Anche qui la questione dell’immagine è stata fondamentale: come lui ha asciugato le chitarre e la produzione, nella parte vocale ho voluto minimizzare, motivo per cui questo pezzo ha questo ritmo un ipnotico. Le mie radici sono una cosa che sto sempre esplorando, quindi questo pezzo lo sento molto personale, senza nulla togliere agli altri brani.

Insomnia è quasi un interludio, c’è un senso di dispiacere nel sentirlo finire. Inoltre, sentiamo Alexandros cantare in solo, come mai? Che cosa volete comunicare con questa traccia?

Alexandros: Il brano nasce proprio come interludio con delle sperimentazioni vocali, perché — proprio nell’ottica di uscire dalla propria comfort zone — sto lavorando sull’usare sempre di più la voce. Alla fine è uscito un pezzo interessante che magari espanderemo nella versione dal vivo, e di cui Jennifer ha curato la produzione della voce.

Jennifer: Sì, è stato molto bello!

Alexandros: Trovo tutto il disco molto notturno, abbiamo fatto molte riflessioni su questo e su quanto effettivamente io sono una persona che fatica molto in questo momento. Ho veramente problemi di insonnia ultimamente, quindi questo condiziona per forza il mio modo di essere e di fare arte. Allora mi è venuta l’idea di inserire nel disco questo piccolo frammento più personale, rispetto alle altre parti che sono più astratte. Come si dice in Inglese questo disco viene da un “dark place,” ma è anche il nostro modo di far fronte a questa energia negativa che ci è stata buttata addosso in questi ultimi tempi.

Jennifer: In generale, ultimamente sembra sia vietato essere tristi, in realtà questo non è un disco pesante, però è un messaggio per dire che tutto è normale. Ci sono ombre e ci sono luci durante la propria esistenza e non è neanche sano far credere che debba sempre essere tutto bellissimo.

Alexandros: Se non ci sono regole, se la situazione è questa, l’unica cosa che ci sentiamo di fare come artisti è essere autentici, fare la cosa più autentica e onesta che possiamo. L’autenticità è l’unica regola secondo noi da applicare a tutte le cose, dalla composizione, alla comunicazione sui social network.

There Was a Time. Come si capisce dal titolo c’è molta malinconia in questo pezzo ed è molto interessante che la parola ‘tempo’ si ripeta nei titoli degli ultimi due brani dell’album. Si ritorna all’elettronica in un certo senso, anche se la dimensione rock è sempre ben presente. Le parole arrivano solo verso la fine e le armonie creano un paesaggio sonoro fantastico.

Alexandros: Sì sono due brani complementari, si può dire, anche se non era l’idea di partenza. There Was a Time introduce un influenza che ancora non si è sentita nel disco che è quella delle colonne sonore. Senza volerlo, è diventata una sorta di tributo a Morricone e quel tipo di colonne sonore (molto prima che morisse), e vuole richiamare quel l’immaginario anni ‘60, Spaghetti Western, tanto che Jenny ha quasi citato un dialogo di uno dei film di Sergio Leone nel testo. Ci ha affascinava l’idea di questo pistolero consumato che parla di un tempo passato, frasi che evocano un mondo remoto che questo personaggio — una sorta di guerriero in decadenza — ricorda con nostalgia. Quindi abbiamo creato una specie di colonna sonora per questo immaginario, infatti c’è proprio un tema da film score che abbiamo ricreato a modo nostro.

Space and Time è il pezzo di chiusura. Jennifer canti: “Do you feel what I feel? Do you see what I see?” Che cosa volete lasciare all’ascoltatore con quest’ultimo brano?

Alexandros: Questo è il brano più futuristico e decostruito. C’è una dicotomia tra questi ultimi due pezzi: il cinema anni ’60 e il cinema moderno. Questa può essere vista come un tributo alle colonne sonore che arrivano da suggestioni del cinema moderno come Interstellar. Quel tipo di fantascienza scientifica ci ha sempre affascinato e questo è un nostro modo di mettere in musica quelle sensazioni.

Jennifer: Interstellar è stato fondamentale perché io non l’avevo mai visto, c’è questo momento quasi soprannaturale che è una gioia per gli occhi e ci ha ispirato molto. Questo è stato anche un modo per chiudere il disco, è proprio il finale e ci siamo accorti che la parola “time” si ripeteva, ma non potevamo separare gli ultimi due brani.

Alexandros:  È come se fossimo noi, ma passati attraverso una sorta di filtro: ci sono tutte le nostre componenti, ma un po’ alienizzate. Il beat non è un vero e proprio beat, ma un ritmo polverizzato, e lo strumento che va sfumando verso la fine che sembra un synth in realtà è una chitarra.  È come se fosse il suono di questi alieni con cui cerchiamo di comunicare, come se fosse la loro voce.

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Sono una persona molto eclettica con un’ossessione per la musica e la sociologia. Nata e cresciuta in Italia, Londra è diventata la mia casa. Qui creo beat, ballo, canto, suono, scrivo, cucino e insegno in una scuola internazionale.