
In #OhJudoKnow—la settima puntata della seconda stagione di She’s Gotta Have It, la serie Netflix diretta da Spike Lee—la protagonista Nola Darling va a Puerto Rico per portare concretamente il proprio aiuto alla popolazione locale e per (ri)scoprire le profonde, spesso sottaciute origini africane della Isla del Encanto, fra musica locale, riti legati alla mitologia Yoruba e apparizioni di Oshún, orisha dell’amore cara ai portoricani ma considerata anche la Patrona di Cuba.
Non è un caso che ieri, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, gli Afro-Cuban All Stars abbiano voluto dedicare un momento del loro bellissimo concerto proprio ai loro vicini di Puerto Rico, nei giorni in cui il territorio (non) incorporato degli Stati Uniti è mosso da ondate di protesta contro il governatore Ricardo Rosselló.
Come si può facilmente evincere dal nome, l’ensemble guidato dal maestro Juan de Marcos Gonzales, ha condotto nel proprio alveo secoli di musica cubana, attuando una vocazione quasi archeologica, nel tentativo riuscitissimo di mantenere in vita e rendere contemporanei quei ritmi che affondano le radici nella diaspora africana verso la Isla Grande dei Caraibi.

Cuban jazz, son, danzón, timba, cha cha, guajira, rumba, mambo: ogni nota eseguita dagli Afro-Cuban All Stars si fa carico di una lunga storia popolare e musicale, in un itinerario immaginario che non fa tappa solo a Santiago, Trinidad o L’Avana, ma guarda anche nei paesi limitrofi e oltreoceano.
Una carriera cominciata nel 1996 con l’album recentemente ristampato A Toda Cuba Le Gusta, realizzato all’epoca in una sola sessione di due settimane negli Egrem Studios di L’Avana, insieme al seminale disco—e film—Buena Vista Social Club, e a Introducing Ruben Gonzalez: l’inizio del successo internazionale della musica cubana, alla scoperta della sua epoca d’oro.
L’esibizione romana del gruppo mi ha fatto rivivere ogni momento del mio viaggio a Cuba di soli pochi mesi fa: un bell’attacco di nostalgia, anche se l’eredità musicale che più mi ha lasciato l’isola è stato il reggaeton, che lì viene addirittura rivendicato con il nome cubaton. Del ritmo dem bow, però, nessuna traccia ieri: solo le mille sfumature di suono che hanno fatto la storia passata e recente di Cuba, sulla scia delle grandi orchestre degli anni Cinquanta.
Sul palco dell’Auditorium tredici elementi, fra cui le due figlie del maestro—Gliceria e Laura—e sua moglie Gliceria Abreu, a cui il maestro dedica romanticamente Ella y yo. Fra un ricordo di Arsenio Rodriguez—il più influente suonatore di son cubano negli anni Cinquanta—e un assolo di congas, gli Afro-Cuban All Stars hanno fatto immergere una Roma fin troppo accaldata in un’atmosfera magica, con un’esecuzione impeccabile e coinvolgente su cui spicca soprattutto l’incredibile voce cristallina di Emilio Suarez.

Certo, non è stata particolarmente felice la scelta di mettere le sedie in platea e di invitare chi si alzava a ballare a farlo nelle retrovie e non sotto palco… D’altronde, resistere al ritmo di Cuba sarebbe davvero un’eresia.
Cresciuto nel sud-est barese, vivo a Roma per colpa di Verdone e Venditti. Giurista per caso, social media manager per acclamazione, scrivo di musica, cultura pop e "cose romane" per Zero, VICE, DLSO e altrove. Mi trovi in giro.