Il Corpo Parla Di Identità Con Sorry, But I Feel Slightly Disidentified…
Attraverso un gioco di movimenti, sguardi e travestimenti il duo artistico formato da Benjamin Kahn e Cherish Menzo racconta il carattere performativo della società contemporanea e l’assiduo bisogno dell’individuǝ di affermare in essa la propria identità, scrive Camilla Giaccio.

Un singolo corpo abita il palco di SPAZIO GRIOT all’ex-Mattatoio di Roma, eppure, molteplici figure emergono e prendono vita per raccontare una storia senza trama, fatta di fuggitivi momenti di esistenza. Privз di alcun tipo di moralità lei, lui – loro –, conquistano lo spazio a ritmo di musica e liquidamente si trasformano in un costante alternarsi di movimenti apparentemente inarrestabili e improvvise manifestazioni di silenzio assoluto.
“La principale speranza di armonia nel nostro tormentato mondo risiede nella pluralità delle nostre identità, che si intrecciano l’una con l’altra […] lungo linee di confine invalicabili a cui non si può opporre resistenza”, scrive Amartya Sen, economista, filosofo e Premio Nobel per l’economia.
La ricerca del sé nella società contemporanea e l’estraniamento dell’individuo dinanzi al confronto con stereotipi culturali deprivati di significato e di valori storici e socio-politici, sono i temi centrali della performance Sorry, but I Feel Slightly Disidentified… ideata dal danzatore e coreografo francese Benjamin Kahn per e interpretata dalla danzatrice performer olandese Cherish Menzo.
I metamorfici movimenti del corpo di Menzo, accompagnati dal susseguirsi di tracce musicali coordinate da Kahn, guidano lo sguardo dellǝ spettatorǝ in un viaggio di ricerca e di decostruzione di quelli che sono i preconcetti storico-culturali di identità contemporanee riconoscibili. Seppur tra loro distanti, le identità stereotipate che emergono in questo lavoro—le figure—risultano magicamente interconnesse da una necessità di auto-affermazione nell’ambiente sociale che le circonda.
Durante la performance, lo sguardo che si posa sul corpo in movimento della danzatrice viene continuamente costruito e decostruito in una caleidoscopica rappresentazione di identità sociali e culturali. I confini tra identità di genere, sessuale, sociale o emozionale sfumano in un collage di maschere che instaurano con lǝ spettatorǝ un rapporto di intesa e allo stesso tempo di repulsione, sorpresa, erotismo ed esotizzazione.
La performance inizia nella piazza esterna del padiglione 9b dell’ex-Mattatoio. Una figura umana dal volto coperto di nero veste abiti di tessuti e decorazioni arabe, indiane e africane che, in un singolo corpo, si confondono, fondendo le loro riconoscibilità culturali. La figura acquista un’ambiguità magnetica che sfugge e annulla gli stereotipi presumibilmente incastonati nella mente di chi la osserva.
Il pubblico viene invitato da questa misteriosa presenza ad entrare all’interno di uno spazio tanto fisico quanto metaforico. La figura, liberata dagli adorni che prima coloravano il suo corpo, si slancia ora verso l’alto, acquistando immediatamente una dimensione spirituale. Una sedia all’estremità del pavimento bianco che delimita il suo spazio di azione, ai confini tra realtà e finzione, costituisce invece il momento del ritorno alla realtà, i momenti di silenzio in cui Cherish si riposa, si asciuga le gocce di sudore, respira profondamente.
Identità sfuggenti si rivelano e si dislocano nell’immaginario dellǝ spettatorǝ. Il senso di estraniamento contemporaneo si palesa interpretando ora un corpo maschile, muscoloso, forte, ora una donna svestita, sensuale e provocante. Provocatorio è lo sguardo della performer che si posa sul nostro, mentre conquista il suo spazio sbattendo con forza il corpo scoperto contro il vuoto che la circonda.
Il carattere politico della performance si palesa nel rapporto dell’occhio osservante con il corpo di una donna afrodiscendente. Questo costituisce nell’opera un mezzo attraverso il quale si svela la relazione che esiste tra un soggetto riconoscibile e l’eredità di informazioni che esso suggerisce nella mente di chi guarda. Il gioco che Cherish instaura con lǝ spettatorǝ riguarda l’accessibilità dello stesso punto di vista, evidenziando la necessità di liberare associazioni socio-culturali confuse e lontane dall’esperienza di chi si trova tutt’oggi in una condizione di emarginazione, personale e collettiva.
Su questo tema la performer racconta la duplice valenza che vive nella questione essenziale della ricerca del proprio sé. Attraverso il suo lavoro e la sua vita cerca di liberarsi dallo sguardo giudicante dell’altrǝ e allo stesso tempo conserva un forte senso di responsabilità nei confronti delle proprie origini. “In un mondo utopico, sarei fluida, in costante trasformazione, ma ad oggi abbiamo ancora bisogno di questo, di affermarci,” aggiunge più tardi, a fine performance, durante una conversazione con il pubblico.
In un contesto in cui la realtà sembra incapace di affermarsi, il carattere performativo del movimento del corpo di Menzo e l’alternanza di tracce musicali impeccabilmente accordate da Kahn, instaurano una precisa struttura ritmica il cui contenuto narrativo sfugge proprio all’ultimo momento per dare spazio alla seguente metamorfosi.
Il nostro inquieto presente si trasmuta nelle dissonanze che distinguono una figura dall’altra, dove l’unico elemento che sembra unirle è proprio il movimento nello spazio, e la loro riappropriazione di quest’ultimo.
Come racconta Benjamin Kahn, un ragazzo che si veste in un certo modo e si muove atteggiando conseguentemente il movimento del corpo in un gesto performativo di riconoscibilità di genere, evidenzia il suo desiderio di esistere nel mondo e trovare una forma per potersi esprimere. Ma se nel riconoscere in questo la costruzione di una figura, di un atto “fabbricato”, cercassimo invece di abbandonare anche la performatività di cui la figura stessa si nutre? Cosa rimarrebbe se non il silenzio, il buio, la pelle nuda di un corpo immobile che a ogni respiro si innalza e si radica a terra in un infinito succedersi di spazi vuoti? Lo spazio vuoto, il silenzio è centrale nel lavoro del duo artistico. “Quanto riusciamo a resistere il silenzio?”, si è chiesto Kahn. Quanto siamo in grado di pazientare nei momenti di vuoto per scoprirci e ascoltarci, prima che ricominci il frenetico spettacolo della vita?
La figura improvvisamente si ferma, torna alla sua sedia e si riveste, questa volta con un maglioncino color salmone e dei jeans chiari. Una ragazza europea, una donna qualsiasi che forse rimanda alla figura più dissonante e spaventosa tra tutte. Come una persona qualsiasi, si alza, cammina verso il centro e ci sorride. Buio.
‘Sorry but I feel slighty disentified…’, un solo di Benjamin Khan per Cherish Menzo, è parte della programmazione artistica estiva di SPAZIO GRIOT, SEDIMENTS. After Memory. La programmazione include una mostra (30 giugno – 4 settembre) con Victor Fotso Nyie, Muna Mussie, Las Nietas de Nonó, Christian Offman, a cura di Johanne Affricot ed Eric Otieno Sumba, e un programma pubblico, con un ultimo appuntamento il 1° settembre con l’azione performativa dell’artista Muna Mussie nel padiglione 9a del museo Mattatoio.
– Camilla Giaccio
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