Salvini, Le Palme Del Duomo Sono Italiane | Parola Di Matteo Foschi, L’esperto

È successo il finimondo. Il tema nazionale da due giorni a questa parte sono le palme e i banani di Piazza Duomo donati alla città da Starbucks che nel 2018 aprirà il suo primo spot italiano.
Palma sì, palma no? Banano sì, banano no? Qualcuno ha messo in mezzo pure dei poveri cammelli.
Eppure il sindaco Sala in un post aveva già sottolineato che Milano con quelle palme e banani tornava alla sua tradizione ottocentesca.
Ovviamente la risposta di Salvinone non ha tardato ad arrivare e dal suo bar di paese ha lanciato il suo anatema alla padana contro delle povere e indifese piante.
Abbiamo pensato allora di interpellare un esperto di piante, giardinaggio e garden design, Matteo Foschi, milanese doc, talmente doc che si è tatuato anche la Madonnina – così Salvini non si può attaccare a nulla – per farci raccontare qualcosa in più sulle sempreverdi di Piazza Duomo e la loro provenienza.
Ex giocatore di rugby, appassionato di scienze naturali e botanica, dopo aver abbandonato la palla ovale per via di un infortunio, Matteo si è specializzato in progettazione del verde e, dopo aver lavorato per anni in uno dei più importanti vivai di Milano, si è aperto il suo studio di giardinaggio e garden design, Odd Garden.
Come è nata la passione per il giardinaggio?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che ha sempre stimolato la mia curiosità e mi ha permesso di sviluppare le mie passioni. Entrambi i miei sono professori, mia madre architetto urbanista e mio padre ingegnere meccanico.
Per 15 anni sono stato un giocatore professionista di rugby e proprio il rugby mi ha avvicinato in qualche modo a questo mondo, intanto regalandomi durante la mia carriera un sacco di tempo libero da poter dedicare alle mie passioni, tra cui appunto la botanica e le scienze naturali in generale, poi insegnandomi una disciplina e quanto siano importanti gli elementi naturali. Considera che passavo gran parte dell’anno all’aperto, in qualunque condizione climatica.
So che hai vissuto in Sudafrica. Raccontami della tua vita lì.
Ho vissuto in Sudafrica nel 1995, durante gli anni del liceo, e ho frequentato la Camps Bay High School di Città del Capo. È stata un’esperienza eccezionale, avevo 18 anni, ero dalla parte opposta del mondo da solo e facevo esattamente quello che mi piaceva, cioè giocare a rugby e vivere la vita di un liceale in un posto meraviglioso.
Ho vissuto un ventaglio enorme di situazioni che mi hanno segnato per il resto della vita. Erano i prima anni post-Apartheid, il Sudafrica ribolliva e quell’anno ospitò i mondiali di rugby, sport nazionale e simbolo del potere Afrikaans, ma allo stesso tempo uno dei pochi spiragli di aggregazione tra razze.
Mandela in quell’occasione fece una delle sue magie: invece di ostracizzare lo sport dei suoi carcerieri lo trasformò nel simbolo della Nazione Arcobaleno, coinvolgendo tutta la popolazione in quella che era stata un’esclusiva tradizione boera.
E, come nelle migliori favole, il Sudafrica vinse la finale contro i rivali di sempre, la Nuova Zelanda. Nelson Mandela, in maglia verde e oro premiò la squadra vincitrice, ma allo stesso tempo premiò un’intera nazione che si ritrovava stretta intorno ad un sogno comune dopo anni oscuri.

I miei ricordi sono legati molto a queste esperienze e alle sensazioni che provavo nel viverle, ma, allo stesso tempo, ricordo con esattezza la natura ridondante ovunque.
C’erano luoghi magici come Lion’s Head o la Table Mountain. La stessa Camps Bay era immersa in un immenso giardino, per non parlare della costa verso sud fino ad Hermanus dove si potevano vedere le megattere saltare e giocare in mare dalla finestra del soggiorno.
Due, però, sono le immagini che porto più volentieri con me riguardo questo strapotere della natura: le piante che crescevano in Down Town, spontanee. Spuntavano enormi da microscopici buchi nell’asfalto e si aggrappavano ai palazzi e alle strutture, quasi a volersi riprendere quello che gli spettava di diritto, era uno sfoggio di maestosa potenza e, forse con un po’ troppo romanticismo, l’ho sempre associate alla situazione contingente che stavo vivendo, qualcosa di primordiale che si attaccava alla modernità, ricordandole da dove veniva e che se voleva progredire doveva tenere conto della sua presenza.
La seconda immagine è legata al mio arrivo a Cape Town. All’epoca non c’era internet e non sapevo minimamente cosa aspettarmi. Avevo visto qualche foto del Sudafrica, conoscevo la storia, ma non avevo nessun tipo di esperienza se non i documentari di David Attenborough.
Lungo l’autostrada che collega l’aeroporto alla città sorgono infinite township e per me era la prima volta che vedevo qualcosa del genere: persone che vagavano a fianco dell’asfalto e capanne di lamiere a perdita d’occhio.
Ricordo la naturalezza con cui parlavano del più e del meno le persone nella macchina mentre attraversavamo questa città surreale e io restai affascinato dagli enormi cespugli di calle che crescevano nei canali di scolo che costeggiavano la strada.
Il verde intenso delle larghe foglie segnava una macchia netta di colore all’interno di un caos cronico e il fiore a calice, bianco e slanciato, era uno sguardo altero e distaccato su quell’inferno in terra, ma allo stesso tempo un segnale, la bellezza che può sbocciare ovunque, basta cercarla ed essa sarà a disposizione di chi vorrà coglierla.
Milano. Duomo. È successo il finimondo. Per quattro palme la gente è andata in crisi. E Salvini ha urlato subito all’invasione di palme, banani e cammelli. Possiamo spiegare agli asinelli che quelle palme sono nate e cresciute in Italia, quindi sono stra italiane, proprio come gli Italiani Senza Cittadinanza? Ci racconti qualcosa in più?
Le palme…beh che dire? Le piante in questione si chiamano Trachycarpus furtunei e sono originarie dell’Asia, ma sono diffuse praticamente in tutta Italia da secoli e sono estremamente comuni a Milano e in Lombardia.
Pur essendo di origine straniera richiamano molto la Chamaerops, pianta autoctona con caratteristiche molto simili. Sono molto apprezzate per il loro aspetto esotico, resistono tranquillamente agli inverni lombardi e da secoli adornano parchi e giardini delle più belle case. Onestamente mi ricordano più la Brianza che la California, ma sarà l’abitudine.
Il banano – Musa – è una pianta originaria dell’Asia, più nello specifico dell’India e proprio nel subcontinente indiano si sono sviluppate diverse specie di Musa tra cui alcune che vivono tranquillamente in regioni montuose e dal clima rigido. Propio queste specie si sono diffuse come alberi ornamentali e anche in Europa e in Italia hanno trovato un clima adatto dove prosperare. Conosco alcune piante che fruttificano in campagna fuori Milano e sono famosi i banani della vetrina di via Feltre, giusto per citare alcuni esempi locali.
Cosa pensi in generale del progetto?
Il progetto è decisamente azzardato per diverse ragioni, ma ha degli ottimi spunti, secondo me.
La Trachycarpus è una pianta tipica del territorio, fin banale se vogliamo, è già apparsa in piazza Duomo in diversi allestimenti dall’800 e ha un enorme retaggio storico nel territorio. Si usa molto in spazi ridotti perché ha uno sviluppo verticale e il suo tronco crea una colonna che non occupa metri quadri.
Trovo che posizionare filari di queste piante davanti alla chiesa abbia una coerenza, se non altro teorica, con il luogo e la tipologia di progetto. I tronchi creano un colonnato tipico dei luoghi di culto e permettono la visione del Duomo attraverso una sequenza regolare vuoto/pieno.

I banani sono il punto più critico del progetto. La Musa è un’erbacea, ciò vuol dire che il ciclo vitale della pianta madre è abbastanza breve. Le grandi foglie sono soggette a rovinarsi facilmente e, seppur non viene compromessa la funzionalità dell’organo, l’impatto dal punto di vista estetico può essere elevato, cosa non trascurabile in una location del genere. In più le dimensioni delle foglie e il portamento della pianta rischiano di ostacolare pesantemente la vista della chiesa e compromettere la sequenza creata dai tronchi di Trachycarpus.
Non amo chi si attacca alle tipicità, men che meno quando si parla di piante perché di solito denota una grande ignoranza sull’argomento.
Le piante si collocano per aree climatiche, sono coltivate a scopi estetici e si esportano da migliaia di anni, facile capire perché sono ormai diventate tipiche da noi piante di tutti i continenti.
Se si vuole fare una critica ad un progetto la si deve fare riguardo temi concreti, la fruibilità sia pratica che estetica, il posizionamento e la scelta delle piante in relazione alla location, etc.
Insomma, credo che il progetto potrà piacere o non piacere come tutti i progetti, ma le piante prese in esame sono sicuramente più tipiche di un caffè americano annacquato.
Immagine in evidenza | Matteo Foschi (c) Stella Bortoli
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Ultimo aggiornamento | Venerdì 17.02.17
Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.