Il Pugile Del Duce | Tony Saccucci Ci Racconta Tutto Su Leone Jacovacci, Il Nero Di Roma

di Johanne Affricot - Pubblicato il 17/03/2017

Si dice che Leone Jacovacci sia morto a Milano nel 1983. Faceva il portiere. Si dice che sia morto dopo sette infarti. Il primo lo ebbe nel 1974. Secondo me Leone Jacovacci non è mai morto. Ha semplicemente continuato a vagare tra noi vivi. Un fantasma sospeso tra il mondo terreno e l’aldilà, impaziente di lasciare, con l’animo in pace, la sua Italia. Non prima però di chiudere un capitolo irrisolto: tutta la sua vita.

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A Leone Jacovacci infatti ancora prudevano le mani, i pugni. Ha elaborato il suo piano, ha aspettato il momento giusto e finalmente un giorno, nella sua Roma, tra la fine degli anni ’90 e il 2000, si è impossessato di un corpo, ha buttato a terra qualcuno e gli ha urlato, “Torna al tuo paese!”. E da questo episodio è iniziato il countdown verso la vittoria, la consacrazione finale.

Padre italiano, madre congolese, la storia di Leone è una storia di identità non riconosciuta, una storia piena di tensione, emozioni, sofferenza, violenza, raccontata drammaticamente e con molta poesia nel documentario di Tony Saccucci, Il Pugile del Duce.

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Leone Jacovacci | Chi era

Nato nel 1902 in Congo, il padre a 3 anni lo strappa dalle braccia della madre e lo fa crescere in Italia, nel viterbese, con i nonni. Carattere e spirito ribelle, Leone era un italiano a cui quell’Italia stava comprensibilmente troppo stretta, e così, a sedici anni, decide di imbarcarsi come mozzo su una nave inglese che lo portò in Inghilterra. Cambiò il suo nome in John Doulgas Walker, perché con la pelle nera e un nome anglofono sarebbe stato tutto più semplice. Qui impara la boxe. Nel 1920 sale per la prima volta sul ring con lo pseudonimo di Jack Walker e da questo momento in poi inizia l’ascesa.

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Jacovacci è una macchina da guerra. Il nero romano che parla alla perfezione quattro lingue (cinque con il romanesco) colleziona in Europa (soprattutto tra Londra e Parigi) una vittoria dietro l’altra. Ma è quando torna in Italia che inizia la sua discesa. L’avversario più temibile non è sul ring ma fuori: il duce, l’ideologia fascista e il razzismo del mondo sportivo e dei media. Perché lui era amato dagli italiani, soprattutto dai romani.

La sua lotta per “diventare italiano” è costellata da ostacoli e umiliazioni. Una dietro l’altra. Quell’italiano mezzo africano non poteva rappresentare l’Italia all’estero. Dopo tutto l’Italia fascista era impegnata nel colonizzare terre e popoli del Corno d’Africa. Ma il 24 giugno 1928 Leone, dopo aver finalmente ottenuto l’agognata nazionalità italiana, può sfidare un altro italiano, il campione in carica nazionale ed europeo di pura razza italica: Mauro Bosisio. La posta in gioco è alta. Quel giorno, allo stadio Flaminio, di fronte a 40.000 persone, Leone Jacovacci diventa campione europeo dei pesi medi. E sempre da quel giorno comincia il suo declino e la rimozione della sua storia dalla storia d’Italia.

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Leone Jacovacci combatte contro Mauro Bosisio

Quando ho finito di vedere il film su Leone Jacovacci ho provato un mare di sentimenti. Di frustrazione, per un uomo che non veniva accettato dal suo paese. Di stima, per un uomo che oggi, a mio avviso, può considerarsi il primo attivista italiano ad aver combattuto per i diritti civili degli “afroitaliani” e non solo, ad aver lottato contro un sistema più grande di lui che negava la sua umanità. La sua lotta per essere riconosciuto italiano mi ricorda la stessa lotta, a distanza di novant’anni, degli attuali Italiani Senza Cittadinanza.

Seduti in un ristorante davanti a due piatti vegetariani, sono riuscita a rubare un’ora di tempo all’autore de Il Pugile del Duce, tratto dal libro di Mauro Valeri, Nero di Roma. A Valeri, uno dei massimi esperti italiani sul razzismo, va tutta la mia gratitudine per essere riuscito, insieme al professore, scrittore e regista Saccucci, in un’impresa che può aiutare tutto il paese a guardarsi allo specchio e a riconoscersi in Leone; un’impresa che può aiutare tanti Leone italiani a sentirsi figli di questa terra; un’impresa che può far sentire molti Leone italiani più legati a questa difficile ma bellissima Italia. A me, mi ci ha fatto sentire.

GRIOT: Tony, quando è scattata la molla di fare un documentario su Leone?

Nel 2012. Ero stato invitato da Mauro Valeri alla presentazione del suo libro Stare ai Giochi e in quell’occasione mi regalò Nero di Roma dicendomi, “Tony, questo è il libro per te.” Fatto sta che quell’estate me lo leggo tutto d’un fiato. Quattrocentottanta pagine. E subito mi rendo conto che mi trovo di fronte a una storia straordinaria. Vado su internet e vedo che c’erano poche cose e dico a Mauro, “Qui dobbiamo farci un documentario.”

Quindi con Mauro iniziamo a lavorare alla sceneggiatura e un giorno gli chiedo perché aveva deciso di dedicare sei anni della sua vita sulla storia di questo pugile – partita poi da un solo articolo che lui aveva trovato per caso sulla Gazzetta dello Sport… non c’era nient’altro. Bene, quando mi ha raccontato il vero motivo, ho fermato tutto perché volevo che anche la storia di Valeri fosse raccontata. Volevo che fosse parte integrante del film. E quindi è uscito dalla sceneggiatura ed è entrato nel documentario.

Devo dire che sono stato molto fortunato. Il progetto è piaciuto fin da subito all’Istituto Luce [produttore e distributore del film,] nonostante il cambio di soggetto. Inoltre ho avuto l’immenso onore e l’enorme fortuna di lavorare con un team d’eccezione: Chiara Ronchini, la montatrice, e Sabrina Varani, la direttrice della fotografia. Il fatto che ci siano due donne ha sicuramente dato un valore aggiunto, quella poesia che magari non avrei saputo raccontare se non ci fossero state.

E poi le musiche. Sono tutte musiche originali di Alessandro Gwis e Riccardo Manzi, che sono due musicisti. È un dettaglio molto importante questo. A volte, quando la musica era già fatta, il montaggio ha seguito la musica. E Maura Cosenza, che ha tenuto tutte le fila della produzione facendo una specie di miracolo. Per non parlare di Diamante & Sandal. Io sono il regista, è vero, ma dietro questo documentario ci sono delle professionalità impressionanti. È un lavoro di squadra a tutto tondo.

Dal documentario si vede che è stato fatto un immenso lavoro di ricerca. Quanto tempo hai impiegato per realizzarlo, per trovare tutti i materiali d’archivio? Sono tutti dell’Archivio Luce? 

È stata lunga. Alcuni materiali li abbiamo presi al British Pathé che sarebbe il corrispettivo britannico del nostro Istituto Luce, ma su Jacovacci non c’era nulla. Abbiamo preso un pezzo su Jack Dempsey, il pugile statunitense da cui Jacovacci prende il primo nome, e un altro su Battling Siki [Amadou M’ Barick Fall, il primo africano – senegalese – a diventare campione del mondo nel 1922] e alcune foto invece le abbiamo prese dagli articoli di privati e dall’archivio del Coni. Ma la maggior parte del materiale viene da Jacovacci, da sua figlia, perché lui aveva conservato tutto.

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Battling Siki, via

Mi ci sono voluti quattro anni per realizzarlo. Dal momento in cui ho iniziato a scrivere il soggetto, a settembre 2012. Abbiamo inziato a girare il 19 aprile del 2015. Me lo ricordo ancora perché era il compleanno di Jacovacci.

Casuale?

Sì, assolutamente. Mauro chiacchierando mi dice, “Ma lo sai che oggi è il compleanno di Leone”?

In totale però sono quindici anni. Gli anni di gestazione per riportare alla luce questa storia nascosta. Quindici anni dal primo momento in cui Leone esce fuori, si manifesta nell’idea di una persona, Mauro Valeri e poi me fino alla realizzazione del documentario.

Hai dichiarato di aver fatto questo film pensando di insegnare qualcosa ai ragazzi del liceo, perché il tuo occhio è sempre rivolto a loro.

Sì, nella mia testa il film era per loro. All’inizio ho fatto dei piccoli test, perché sai, i giovani di 17-18 anni hanno un barometro molto preciso. Se si distraggono con lo smartphone, significa che devi cambiare. Se stanno incollati, sei sulla strada giusta. Ricordo un giorno, avevo venticinque di loro a cui feci vedere i primi venti minuti. Solo uno guardò il telefono. Li capìì che stavo andando bene, che avevo preso la giusta direzione. Il linguaggio cinematografico è un linguaggio lineare, universale, ti permette di semplificare un messaggio che era importantissimo da inviare lì fuori, soprattutto ai ragazzi.

Quanta Italia “Jacovacciana”, nera italiana, conoscevi prima di realizzare questo documentario? E quanta ne conosci oggi?

Io vengo dalla montagna. Sono del ’70. Fino a venticinque anni ho vissuto a Vallinfreda, un paesino di trecento anime ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo. Ricordo che all’epoca studiavo filosofia e prendevo il thè con un ragazzo marocchino che mi invitava sempre da lui a Casablanca. Oppure ricordo un altro episodio. Erano gli anni ’80 e stavo da mia nonna. Lei è nata nel 1901 ed è morta a 97 anni. Un giorno arrivò in paese un ragazzo senegalese, vendeva calzini – è una storia che racconto anche ai miei ragazzi come lezione di storia. Insomma, entrò in casa – nonna lasciava aperta la porta di casa – e lei si spaventò da morire. Non aveva mai visto una persona nera. Questo per dirti che io vengo da questa realtà ed è facile immaginare che non era semplice incontrare persone che avevano più culture, tipo Jacovacci. Ora conosco te, poi Daniele, e a scuola ho ragazzi italiani con altre origini.

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Tony Saccucci, regista de Il Pugile del Duce

Capirai, sarai diventato il loro mito… Dopo il liceo si iscriveranno al Corso di Storia e Filosofia all’Università.

Forse ora sì, ma all’inizio non sapevano che questo documentario avrebbe ottenuto tutto questo successo. E sinceramente neanche io. Alla prima del 7 marzo in Auditorium qui a Roma c’erano 700 persone. È stato emozionante.

Il titolo del doumentario è molto forte. A me piace molto. In un solo colpo, conoscendo l’identità di Jacovacci, sei riuscito a comunicare tutto il film: un padre, il Duce e la sua Italia fascista, che rinnega suo figlio, ma poi è costretto a riconoscerlo e successivamente lo disconosce ancora. Leone Jacovacci, il figlio del duce, un figlio d’Italia, Il Pugile del Duce. Come lo hai scelto e perché hai voluto chiamarlo così?

Il titolo del film non è mio. Me lo ha dato Giampaolo Roidi. Camminavamo a Villa Ada, gli raccontai la storia e della difficoltà che avevo nel dare un titolo a questo documentario. “Lo potrei chiamare ‘Il Nero del Fascismo’ o ‘L’Italiano più Nero del Fascismo’, ma non mi convincono Giampaolo.” Dopo aver ascoltato tutta la storia mi guardò e mi disse, “Tony, questo film si chiamerà Il Pugile del Duce”. E da quel giorno si è chiamato così. E devo ringraziarlo per questo titolo.

Sei un professore di Storia. Nel documentario c’è una scena che mi è rimasta impressa più di tutte. Anche se non c’è sangue, mi ha trasmesso la violenza della colonizzazione italiana in Africa. C’è un uomo che, mentre viene ripreso presumibilmente da una telecamera, cinge una donna e la forza a ruotare su sé stessa.

Sai che non era una donna ma un ragazzo? L’ho scoperto anch’io da poco. Mi fa piacere tu l’abbia notata e abbia colto la parte centrale. Quella è la scena più violenta del film. In quella scena c’è lo spaesamento, la costrizione, la rabbia di quel ragazzo/a. La forza di quell’immagine, della ragazza che gira su stessa è emblematica. C’è da dire che questa forza comunicativa è data anche dalle musiche. Per quella scena la musica è stata fatta tre volte perché non volevamo una musica retorica. Volevamo una musica che accompagnasse, che non dicesse nulla. Doveva essere cinica come l’immagine. E se ci fai caso quella musica è asciutta. Non è un commento all’immagine perché quell’immagine parlava già da sé.

La sigla finale. So che è stata realizzata dal duo rapper Diamante & Sandal, e Daniele è italo-brasiliano. A me è piaciuta molto perché racconta in maniera sintetica, come il rap ti permette di fare, tutto il film. Come li hai scelti? Vi siete conosciuti? Come gli hai trasmesso quello che volevi comunicare?

Questa è un’altra storia interessante. Daniele Vitrone è un mio ex studente del ’98, anno in cui iniziai ad insegnare. Non solo. È anche il protagonista di un documentario con la regia di Sabrina Varani [direttrice della fotografia de Il Pugile del Duce] che si chiama Negri di Roma, il nome del vecchio gruppo rap di Daniele.

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Daniele Diamante di Diamante & Sandal

Un giorno Sabrina mi dà questo documentario da vedere, per capire se potevamo lavorare insieme. Per farla breve, nella scena iniziale c’è Daniele allo stadio con un altro ragazzo che urla “Forza Roma”. Il giorno dopo lo chiamo e gli chiedo se poteva musicare in forma rap una poesia esistente su Leone Jacovacci che volevo mettere come sigla finale. Daniele sparisce e dopo sei mesi mi manda un pezzo incredibile che racconta la storia di Leone Jacovacci. Lui non aveva mai visto il film. Aveva riletto per la seconda volta il libro di Valeri. Con la sua canzone ha esattamente narrato, senza saperlo, quello che io avevo narrato nel film. In maniera totalmente indipendente.

Come suggerisce un articolo, questa storia ha quegli ingredienti che avrebbero fatto impazzire Hollywood. Siamo però in Italia e la storia è italiana. Il fatto che questo lavoro sia stato realizzato da te, italiano e non americano, credo sia un segnale importantissimo e penso che farla conoscere all’estero sia fondamentale, andrebbe ad aiutare il lavoro che anche noi qui a GRIOTmag (e altre piccole realtà indipendenti online, artisti, musicisti, scrittori, attori, registi, cantanti, designer, presentatori,) facciamo per far conoscere questa Italia diversa. Come vi state muovendo per la distribuzione estera, considerato che l’altra sera è stato presentato da Christiane Amanpour, sulla CNN?

Il 30 marzo ci sarà una proiezione al Parlamento Europeo. C’è anche una versione inglese, non sottotiolata. Quando ho pensato a questo documentario l’ho sempre pensato in un’ottica europea. È una storia che merita di andare anche all’estero.

In televisione e al cinema è raro vedere attori italiani che hanno anche sangue africano, asiatico, mediorientale. Diciamo sangue misto. Secondo te perché ancora esiste questa rimozione del “diverso”dalle narrazioni televisive e cinematografiche?

Credo che nell’immaginario collettivo questa diversità faccia ancora paura e quindi la cultura riflette questa debolezza. Più si andrà avanti con gli anni, più le cose cambieranno. Siamo sempre più mischiati. Io non ho la televisione dal 2001 per scelta. Pensavo che le cose da sedici anni a questa parte fossero migliorate. Se ancora non è così, spero che il mio film aiuti a dissolvere pregiudizi sciocchi e ormai datati.

Il 21 marzo è la Giornata Mondiale Contro il Razzismo. Il 21 Marzo 2017 è il giorno in cui Leone Jacovacci potrà finalmente sentirsi morto e lasciare in pace questo paese. Il 21 marzo è il giorno in cui Leone vi aspetterà per farvi conoscoscere la sua storia, distribuita in diverse sale italiane da Istituto Luce Cinecittà. La storia di un pugile, la storia di un attivista per i diritti civili degli afroitaliani a cui finalmente verrà restituito il suo onore. Mancare sarebbe un disonore. Nei confronti della storia. Nei confronti di questa storia d’Italia. Grazie Tony Saccucci. Grazie Mauro Valeri.

Qui trovate la lista (aggiornata al 19 marzo) dei giorni, delle sale e delle città dove verrà proiettata.

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Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.