“Possiamo Semplicemente Risplendere Di Luce”? | Catherine McKinley Su Le Donne Di The African Lookbook

L'autrice di questa storia visuale espansa discute di come ha estratto importanti dettagli da straordinarie fotografie di donne dell'Africa Occidentale, raccolte nel suo archivio personale di oltre 1000 immagini.

di Enrica Picarelli - Pubblicato il 05/05/2021
Youssef Safieddine/Studio Safieddine - Senegal, Senza Titolo, c. 1960 - COURTESY All images property of The McKinley Collection - COURTESY The McKinley Collection

Attingendo alla sua collezione di fotografie ‘vernacolari’ e in studio dell’Africa occidentale per curare una registrazione visiva della rappresentazione femminile Nera, The African Lookbook. A Visual History of 100 Years of African Women raccoglie 130 fotografie di donne africane scattate tra il 1870 e il 1970—un secolo di cambiamento epocale per le donne africane. Scattate in gran parte da uomini europei o africani, le immagini trasmettono il gioco di potere che si innesca quando le donne posano per la fotocamera, che media le gerarchie razziali e di genere. Nelle fotografie coloniali, le donne senza nome sono silenziate e appaiono come soggetti passivi, una postura che ha facilitato lo sguardo condiscendente del colonizzatore. Al contrario, le fotografie dell’era post-indipendenza presentano soggetti autoaffermati, che hanno fiducia e status. Ma anche così, più di un secolo dopo la storia delle donne—una storia d’Africa declinata al femminile—è ancora incompleta. The African Lookbook si sofferma su queste assenze, ricucendo un resoconto alternativo dell’identità femminile basato sul linguaggio del corpo, sulle scelte di moda e di stile, e sulle complesse relazioni che collegavano fotografi e i soggetti fotografati, le donne.

Our Elegants of Djenne, Undated, H. Danel, Kayes, Mali. COURTESY of The McKinley Collection and The African Lookbook
Untited, undated. Unknown – Benin. COURTESY COURTESY of The McKinley Collection and The African Lookbook

GRIOT: Hai scritto che la maggior parte delle fotografie in The African Lookbook erano pensate per un’ampia diffusione, a volte anche attraverso i continenti. Una volta lasciato lo studio del fotografo, sono diventate agenti del discorso storico e culturale. Pensi di star contribuendo a questa circolazione di significati sociali?

Catherine McKinley: Stiamo guardando queste immagini in un contesto che è al di fuori di un’economia coloniale, quindi hanno una vita molto diversa, ma sono consapevole che la loro circolazione, e anche la mia acquisizione di queste immagini, è ancora collegata a questa economia. Recentemente ho comprato una cartolina dal Gabon, con un’immagine di un fotografo senegalese. L’ho comprata da una persona che è in Belgio e non so dove l’abbia acquistata e perché sia ​​stata spedita da lì. Ho messo 20$ in una busta e gliel’ho inviata per farmi recapitare la cartolina. È affascinante, perché se da un lato abbiamo abolito la storia coloniale dello scambio, dall’altra ne siamo ancora immersi. Penso a questo fatto da donna Nera e africana non continentale. Penso a quello che sto facendo, alle mie intenzioni per l’archivio, a come sarà il futuro. È tutto molto complesso, ma in un certo senso è interessante e stimolante.

GRIOT: Mi affascina molto il livello di autoconsapevolezza che trasuda dai tuoi soggetti. Scrivi che quando le modelle hanno posato per i loro ritratti si è aperto “un luogo interstiziale di libertà africana”. Noti delle somiglianze con la fotografia contemporanea dell’Africa occidentale? E in che modo la circolazione transatlantica di idee e tendenze ha influenzato tutto ciò?

È cambiato tutto, e radicalmente, con Internet. Negli ultimi 20 anni, l’ampliamento dell’accesso delle persone alle cose è stato notevole, davvero stupefacente. C’è così tanto accesso ora. Allo stesso tempo, sono un po’ infastidita dalla riproduzione di certe situazioni. Nel 2019 ero in Ghana e ho avuto una sana e appassionata discussione con dei fotografi sulla fotografia di moda, a chi era destinata e sul valore effettivo della fotografia. Erano molto critici sul tipo di immagini che vediamo circolare nel mainstream. Ne sono rimasta davvero affascinata, perché non ho una posizione netta. Parte della fotografia di moda mi piace molto, anche se riproduce certi colori, pose e idee dell’Africa e della soggettività africana.

Esiste un’intimità tra il fotografo e il soggetto fotografato. Come lo individui nelle immagini?

Anche se il soggetto ha una posa provocante o rilassata, a volte la posizione del piede o qualcosa che tiene in mano mostra disagio. Varia davvero da fotografia a fotografia. Nelle immagini in cui tutto sembra a posto, entra in gioco anche l’abbigliamento. Ad esempio, nelle foto della donna in lingerie: come sono entrati quegli indumenti nell’atto fotografico? Ciò suggerisce che c’è qualcosa che non va in questa fotografia. Ma dipende, molte spendevano grandi cifre per essere fotografate, mentre altre venivano coinvolte perché facevano parte di una comunità, e i fotografi le chiamavano dalla strada. Quindi, ci sono diversi tipi di intimità, ed è per questo che è così interessante leggere davvero le foto, prendersi del tempo per osservarne tutti i dettagli. Ma c’è sempre uno squilibrio di potere nell’incontro, è come una negoziazione in studio. Sono più affascinata dalle foto in cui le donne prendono il controllo della fotocamera, anche se la fotocamera è uno strumento violento o in qualche modo il rapporto non è corretto; alcune semplicemente prendono il controllo e comandano la fotocamera. È una cosa che amo.

Untitled, c. 1926-30, Unknown, Benin – COURTESY of The McKinley Collection and The African Lookbook
L.R., First Corset, 1920, Central African Republic – COURTESY of The McKinley Collection and The African Lookbook

Definiresti il tuo libro nostalgico?

Sì, e ho difficoltà con questa definizione. Quando scrivi contro il cinismo, la violenza e la cancellazione, è difficile non cadere nel romanticismo o nella nostalgia, perché stai cercando di farti forza. Finché non bilanciamo la narrazione, dobbiamo attingere a ciò.

Da americana, guardi alla storia africana da un punto di vista privilegiato, e alcunə nel tuo libro hanno trovato il panafricanismo, la creazione di comunità transatlantiche, nonché  questioni di identità, affermazione e persino emancipazione delle Nere e dei Neri in Occidente, qualcosa di vicino al movimento Black Lives Matter, e così via. Che tipo di feedback hai ricevuto in Africa, dove razza, squilibri di potere e identità sono percepiti e concettualizzati in modo diverso?

La reazione più forte è stata un’esplosione d’amore per il libro. Se avessi lavorato a questo libro con un editorə africanə, ne sarebbe venuto fuori un libro diverso. Abbiamo discusso del tipo di immagini, della loro importanza e di ciò che che piacerebbe alle persone. I lettori e le lettrici si sono lasciatə attrarre dalle foto onorifiche, chiedendo perché stessi rivisitando l’orrore coloniale. C’è la sensazione di celebrare una forte femminilità che non è mitigata dal trauma. E non penso che sia una scappatoia, stanno semplicemente dando alle donne ciò che spetta loro, permettendo loro di esistere al di fuori della cornice in cui sono sempre state inserite. Nel senso: possiamo essere semplicemente belle, possiamo semplicemente risplendere di luce? Non è che gli orrori non contino, è solo una diversa riformulazione del sé. Il libro ha preso vita in fase di editing. È subentrato il contributo di Jacqueline Woodson e Edwidge Danticat [che hanno scritto la prefazione e l’introduzione del libro], e poi sono arrivati ​​i collage di Frida Orupabo. A quel punto è andato oltre l’essere un progetto diasporico.

Untitled, S.N. Casset, Senegal Photo, Dakar – Senegal. COURTESY  of The McKinley Collection and The African Lookbook
Two Yé-Yé Girls with Sunglasses, 1965. Abdourahmane Sakaly – COURTESY of The McKinley Collection and The African Lookbook
Aunty Koramaa, c. 1975. Diamond Photo Studio No. 4, Accra – Ghana. COURTESY of The McKinley Collection and The African Lookbook.

Spesso hai parlato di “cura” e dell’impegno a spostare lo squilibrio di potere nel “traffico di immagini” lontano dal continente. Puoi dirci qualcosa di più su come la tua pratica contribuisce alla trasmissione della conoscenza locale e come ne beneficia quelle comunità?

È qualcosa su cui mi interrogo spesso. Prima di tutto, non vado in giro a fare irruzione negli archivi di famiglia delle persone. Le foto provengono da gallerie, o sono regali, a volte dell’artista, sono recuperate, oppure acquisite su un mercato libero su cui già circolano, o ancora in qualche modo sono state scartate. Molto di quello che ho nella mia collezione in realtà è il risultato di un lavoro di salvataggio, perché ci sono cose che sono completamente svalutate, dimenticate, danneggiate, e via dicendo. E non sto ignorando il fatto che non ci siano soldi di mezzo in queste operazioni e che ci siano persone che fanno cose che non sono sempre buone pratiche. Ho migliaia di foto ora, la mia speranza è costruire un’istituzione africana, dove archiviarle nel contesto giusto e sapere che sarebbero al sicuro per sempre. Sarebbe semplicemente fantastico.

Sono in contatto con conservatori e donatori, e a questa cosa penso tutto il tempo. Quindi questo è un pezzo del processo. L’altro pezzo è che data la storia di come queste immagini hanno circolato, e il fatto che i fotografi della diaspora—dal Brasile e dagli Stati Uniti e dalle Americhe in senso più ampio—sono stati tra i primi fotografi del continente, in effetti esse appartengono al mondo e molti di noi sono discendenti delle persone immortalate nelle fotografie. Quindi, quelle donne sono mia madre, tanto quanto la madre di qualcun altro, fino a quando la vera famiglia non si presenterà e dirà: “Questa è la foto di nostra nonna”.

Segui GRIOT Italia su Facebook, @griotmagitalia su Instagram Iscriviti alla nostra newsletter

Questo articolo è disponibile anche in: en

+ posts

Sono una scrittrice/traduttrice/ricercatrice e mi occupo di sostenibilità culturale e di comunicazione digitale. Dal 2014 raccolgo e amplifico testimonianze dall’universo africano della moda, e ho pubblicato su libri, giornali e riviste d'arte. Sono stata consulente culturale per la produzione del documentario RAI African Catwalk, girato alla Sud Africa Fashion Week, 2019.