Perché Vinili, LP E Master Devono Essere Restituti All’Africa

Circa il 90%-95% della ricchezza culturale dell’Africa si trova al di fuori del continente. Mentre abbondano gli appelli per la restituzione dei bronzi del Benin, delle maschere di Cabinda e persino dei resti di leader africani, i vinili della Musica prodotta dopo l’indipendenza ottenuta da vari paesi spesso vengono dimenticati. Ed è proprio oggi che è necessario avere un movimento globale che raccolga, organizzi e rimpatri le colonne sonore di una delle epoche più orgogliose dell’Africa.
Sono pochi i posti in grado di eguagliare la creatività delle nuove capitali indipendenti dell’Africa. Dakar, Khartoum, Kinshasa, Luanda, Mogadiscio, dagli anni ’60 alla metà degli anni ’80 sono state in prima linea nella produzione musicale. Vivaci cittadelle culturali: l’hotel della stazione ferroviaria di Bamako con la Rail Band; il Jazira Hotel di Mogadiscio con Iftiin Band; il nightclub Le Miami di Dakar, con Star Band; gli studi di registrazione di Cotonou, con l’Orchestre Poly-Rhythmo; i Musseques di Luanda, con Jovens do Prenda—stavano semplicemente una tacca sopra. Le band occidentali, privilegiate dal potere del marketing, alla fine sono riuscite a conquistare cuori e orecchie in tutto il mondo, ma anche le band africane avevano un peso simile—e le registrazioni di Zani Diabate, Zoundegnon Bernard, Axmed Naaji o Paulino Vieira hanno raggiunto un pubblico più ampio—e sarebbero state tra le migliori al mondo.

La musica africana post-indipendenza ha raccontato la storia del mondo. La centralità del continente rispetto agli scambi culturali dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Indiano, la fusione di suoni provenienti da ogni parte del mondo dimostrano un innato cosmopolitismo e apertura. La Musica di quell’epoca esprimeva una ritrovata autonomia, sfruttando appieno i due decenni nei quali avrebbe dovuto brillare. Salvo i loro difetti, molti dei primi leader dell’era post-indipendenza dell’Africa condividevano affinità per quelle idee culturali represse a lungo, cercando di decolonizzarsi spiritualmente e riaffermare la fiducia in se stessi.
Il presidente senegalese Leopold Senghor spese quasi un quarto del budget nazionale in arte, dichiarando Dakar la capitale delle civiltà nere e ospitando nel 1966 il Festival inaugurale internazionale delle arti nere. Il credo somalo di Siad Barre incanalò i finanziamenti statali verso il teatro nazionale, le cui colonne sonore comprendono i migliori artisti musciali della Somalia. In Sudan, Jaafar Nimeiry, emulando Gamal Abdel Nasser, fece amicizia con gli artisti, garantendo loro un costante sostegno. Titani congolesi come Franco hanno ispirato musicisti in tutto il continente, e in Angola le band di Luanda degli anni ’70 restano tutt’oggi tra le più forti produttrici di vinili storici del paese.
Questa volontà politica culminò in un massiccio scambio continentale, una forza unificante e un tonico necessario per le storie rubate. Il sudanese Mohammed Wardi si esibì in Camerun in uno stadio da 60.000 posti in un concerto che andò sold-out, nonostante il pubblico non fosse in grado di comprendere i suoi testi in arabo, ma ne era comunque affascinato. Bande e danzatori somali furono gli headliner dell’evento FESTAC del 1977, in Nigeria. I musicisti dello Zaire registravano regolarmente e si mescolavano a Nairobi, come ci ricorda un motivo del classico congolese Nitarudia, guidato dal sassofono dell’Orchestre Veve: “Non preoccuparti piccola, verrò a Nairobi per vederti.” E intanto Mogadiscio era l’epicentro culturale del Oceano Indiano. I suoi musicisti fondevano perfettamente melodie persiane, indiane e dell’Asia orientale con le proprie. Molti di coloro che hanno sperimentato la vita notturna di Mogadiscio prima della guerra parlano molto bene del calibro delle tante band somale. Non dimentichiamo inoltre i potenti movimenti Authenticité della Guinea e del Ciad.

Il capo di Haitian Radio Metropole, che detiene un archivio ben curato della vasta produzione musicale del paese, mi ha parlato di un bar a tema caraibico che si trova a Tokyo che ospita una delle più grandi collezioni che abbia mai visto. Ma questa chiamata all’azione nasce dall’autocritica: i miei scaffali contengono centinaia di cassette dell’Africa orientale, dischi haitiani, ambita musica tradizionale del Mali e LP di Brazzaville. Dopo avermi consegnato la ricevuta, il proprietario di un negozio di cassette a Gibuti mi ha ricordato che stavo “portando tutta questa cultura fuori dal paese”. Evidentemente il consenso e un giusto prezzo non bastano più. Per trovare LP di qualità da utilizzare come master per una compilation di registrazioni afro-cubane di Star Band de Dakar, di recente sono dovuto passare attraverso tre rivenditori europei, i nostri contatti a Dakar non sono riusciti a trovare una sola copia.
Ma Dakar sarebbe un buon punto di partenza. Se il Museo delle Civiltà Nere avesse accettato di ospitare un archivio, i venditori di dischi, i negozi e i collezionisti privati avrebbero potuto rimpatriare parti delle loro collezioni. Ciò richiederebbe però empatia e gentilezza morale. Il rifiuto di restituire importi anche simbolici sarebbe un’accusa contro la crescente comunità musicale mondiale. Rivelerebbe un amore per la cultura africana che è condizionato dall’averne il controllo.
Il controllo dei vinili africani dovrebbe essere fatto dalle istituzioni e dai musei del continente. Questo piccolo passo impedirebbe la pirateria e reclamerebbe il patrimonio uditivo. Ad esempio, Somalia e Somaliland hanno già stabilito la tutela esclusiva della musica somala. Per accedere alle registrazioni bisogna passare attraverso gli archivi di Hargeisa e Mogadiscio. Lo stesso modello deve seguire per il resto del continente. Gli archivi affamati di investimenti, come quelli in Ghana o Sudan, trarrebbero vantaggio dall’esercitare un ruolo di gatekeeping: potrebbero essere addebitate tariffe per l’accesso dall’estero o per uso commerciale. C’è abbastanza domanda perché un approccio del genere funzioni.

Non abbiamo bisogno di negozi di dischi, cataloghi e collezioni private all’estero. Una collezione modesta dimostra l’apprezzamento per le culture che sono ai margini del mondo e una mentalità globale tanto necessaria. Tuttavia, anche le eccedenze derivanti dall’uso commerciale devono essere restituite. Le etichette discografiche che non necessitano più delle copie master del materiale pubblicato devono essere tra le prime a rimpatriarle. D’altra parte, i dischi africani, date le loro magnifiche opere d’arte, devono avere leggi che ne disciplinino la rimozione dal continente, anche se molti sono stati prodotti da etichette europee in Europa.
Tuttavia, la ragione più urgente per restituire la musica africana è più astratta. Affinché il continente più giovane del mondo diventi maggiorenne senza avere un’idea delle proprie conquiste culturali, significa entrare nel mondo senza fiducia: un mondo in cui molti giovani africani Neri sono murati e chiusi in soffitta. Restituire la ricchezza culturale dell’Africa di un’epoca che ora è rimossa di tre o quattro generazioni, dimostrerebbe che non abbiamo bisogno di attingere all’antico passato per dimostrare la centralità dell’Africa negli affari globali, ma solo di pochi decenni.
La musica, in particolare la musica “tangibile”, è potente. Un funzionario somalo mi ha detto che una delle sfide esistenziali che il suo governo deve affrontare è trasformare l’immagine della Somalia nell’immaginario globale. Abbiamo convenuto che la musica negli archivi di Radio Mogadiscio, che è sopravvissuta a tre decenni di guerra civile, è il punto di partenza ideale. Quando la grande città vecchia del Mali, Timbuktu, era sotto l’assedio della violenza e dell’estremismo, la cultura antica era sull’orlo della distruzione. L’effetto curativo di restituire anche una delle tante copie del vestito più famoso di Timbuktu, Le Mystere Jazz de Tombouctou che fluttua nei circoli di aste, è palesemente evidente.
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Questa articolo è stato pubblicato nella sua versione originale in inglese su Africa is a Country, con il titolo ‘After the Scramble. È stato abbreviato e modificato da Eric Otieno con il consenso dell’autore, Vik Sohonie.
Immagine di copertina | Vale a Mabu Vinyl. Foto di Mallix via Flickr (CC).
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