Silvia Rosi E La Ritrattistica In Studio Per Raccontare La Storia Di Famiglia

di Eric Otieno Sumba - Pubblicato il 08/07/2020
2016, Studio Portrait

Di primo impatto, un’immagine dell’artista italo-togolese Silvia Rosi, basata a Londra, potrebbe colpire l’osservatore con la sua estetica stranamente familiare, ma in qualche modo nuova. Vintage e contemporanea allo stesso tempo. E questa tensione persiste, mentre si studiano i pochi dettagli dell’immagine, forse alcuni oggetti di scena o uno sfondo monocromatico, oltre alla composizione semplice e pulita, con l’artista stessa che ne è il soggetto. Nel frattempo, per l’osservatore, quel senso di familiarità in qualche modo rimane sedimentato, poiché l’immagine suscita varie reazioni.

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Silvia Rosi, Self portrait as my Mother on the phone, 2016

Invertendo l’uso del ritratto celebre nell’Africa occidentale, l’esplorazione che Silvia Rosi fa del suo retaggio è sia interiore che esteriore. È interiore perché i soggetti che impersona nella sua fotografia sono membri della sua stessa famiglia. Ma è anche esteriore, perché la tecnica che utilizza per catturare la sua immagine è abbastanza comune negli suoi album di famiglia.

Oggi conosciuto come ritratto in studio dell’Africa occidentale, si tratta di un’estetica celebrata nel lavoro di pionieri come Malick Sidibé, del Mali, o Felica Abban, del Ghana, e più recentemente nei lavori contemporanei di Ruth Ossai, che sta avendo un grande successo nella fotografia di moda, con la sua esplosiva estetica da studio e, naturalmente, Silvia Rosi, che reinterpreta il classico ritratto in studio dell’Africa occidentale, spogliandolo per raccontare le realtà vissute della sua famiglia.

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Silvia Rosi, Self Portrait as my Mother, 2016

Avendo collaborato con GRIOT nella individuazione del tema per la mostra online di Der Greif, curata da Johanne Affricot, abbiamo colto l’occasione per discutere della sua pratica artistica e della sua biografia, da cui l’artista attinge fortemente per sviluppare il suo lavoro.

GRIOT: L’album di famiglia è un archivio importante per il tuo lavoro. Potresti parlarci dell’album di famiglia inteso come fonte? In che modo questo archivio viene toccato dalla tecnologia digitale?

SILVIA ROSI: Ho iniziato a guardare l’album di famiglia fin da giovane. Da bambina mi piaceva sempre fissare le persone, fino a quando mia madre mi disse che non era educato farlo. Mi piacciono le fotografie perché puoi guardare le persone per tutto il tempo che vuoi, studiare i loro gesti, le loro espressioni. Questo mi permette di diventare molto consapevole di certi dettagli che difficilmente scorgerei se le incontrassi dal vivo. In questo senso l‘album di famiglia diventa la mia fonte.

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Silvia Rosi, Self Portrait as my Mother (testo), 2016

Le foto sono piccole stampe che spesso scannerizzo e ingrandisco per vederle meglio e analizzare i dettagli.  Mi dà anche la possibilità di portarle con me ovunque vada e di lasciare gli oggetti originali in un luogo sicuro, che è casa, in Italia. Immagino questo sia l’unico modo per applicare la tecnologia all’album. La mia famiglia non fa molte foto, e se  accade restano nella galleria di uno smartphone.

Il tuo lavoro è a cavallo tra fotografia e performance. Cosa trovi più interessante di questa sovrapposizione?

Penso che la fotografia abbia un forte elemento performativo. Se prendiamo ad esempio la ritrattistica in studio dell’Africa occidentale, abbiamo un set, oggetti di scena che puoi prendere in prestito, attori che sono il soggetto delle fotografie (si esibiscono per la macchina) e un regista, che è il fotografo.

Il risultato è un’immagine di dignità e orgoglio, che è come verrà ricordato il soggetto fotografato. La classe sociale non ha importanza, ognuno ha l’opportunità di mostrare una versione migliore di se stesso ed è ciò che mi piace di più di quelle fotografie. Ma la realtà è diversa, le dinamiche sono più complesse, quindi nel mio lavoro mi esibisco in modo opposto. Mostro la parte più brutta della mia famiglia, la sofferenza e le lotte che ci hanno portato qui.

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Silvia Rosi, Encounter, installazione mostra Jerwoods/Photoworks Awards, Londra, 2020

Anche l’incarnazione, o la rievocazione, è un tema centrale nel tuo lavoro. Che influenza ha sul tuo processo creativo?

Nelle mie opere uso l’imitazione e l’incarnazione come strumenti per capire la mia storia. Imito i membri della mia famiglia perché sono le persone a me più vicine. Sono fondamentali per elaborare la questione identitaria. Cerco solo di capire la mia storia attraverso il corpo delle persone che hanno avuto un ruolo importante in essa. Mettermi nei loro panni fa parte di quel viaggio alla scoperta di sé.

Prendendo come riferimento il tema della partenza, centrale nella storia della tua famiglia, in retrospettiva, quanto cosciente e intenzionale è stato lasciare l’Italia per il Regno Unito?

Avevo 18 anni quando mi sono trasferita a Londra. Ho sempre giustificato quella partenza come un desiderio  di avventura, cosa molto comune tra i giovani che maturano. Il desiderio di assorbire esperienze diverse e incontrare nuove persone. La verità è che da giovane donna nera in Italia stavo lottando. Vengo da un piccolo paese del nord Italia in cui la mia identità è stata messa costantemente in discussione da estranei che mi chiedevano perché parlassi così bene l’italiano, ma anche da me stessa, perché avevo un’estrema consapevolezza del mio essere diversa.
Non mi sono trasferita solo per trovare opportunità, ma per trovare un posto in cui potevo godere della diversità e perdermi nella folla, diventare quasi invisibile. Londra era il posto perfetto, lo è ancora.

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Silvia Rosi, Self portrait as my Mother in school uniform, 2016

Come è cambiato il tuo rapporto con la ritrattistica di studio dell’Africa occidentale nel corso degli anni?

Il ritratto in studio dell’Africa occidentale ha assunto un valore sentimentale per me. All’inizio non avevo molta familiarità con questo linguaggio, ma ora che lo capisco. Guardare foto del mio album di famiglia mi ricorda casa. Mi dà un senso di orgoglio e di gioia guardare i miei antenati, che mi osservano, quasi come se sapessero che le loro foto avrebbero viaggiato tra i continenti, per rassicurarmi quando mi sentivo persa e cercavo risposte.

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Immagine di copertina | Silvia Rosi, Self portrait as my father, 2020

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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.