Djamila Ribeiro E Il Luogo Della Parola | “Non Sono Forse Una Donna”?

Seduta sul divano di casa, aspetto con serena impazienza di incontrare virtualmente Djamila Ribeiro per parlare del suo saggio, Il luogo della parola, del Brasile, del suo lavoro e attivismo.
Ci si sente a casa tra le pagine del suo libro, pensieri e riflessioni si fanno più solidi e articolati, si caricano di maggiore forza e visione. Ci si sente al sicuro e si è grate a una famiglia numerosa di donne Nere che quella casa l’ha costruita per me, per noi, situando il loro corpo, il loro pensiero, la loro voce nel tempo e nello spazio. Pezzo dopo pezzo, oppressione dopo oppressione, invisibilizzazione dopo invisibilizzazione, resistenza dopo resistenza.
Dotarsi di un proprio luogo della parola, reclamare un luogo della parola significa esistere, autoraccontarsi, autodefinirsi secondo i propri termini, partendo da una posizione sociale distinta; significa scardinare gerarchie, opporsi a un linguaggio dominante e a una visione egemonica, e mostrare l’esistenza di altre geografie di ragionamento, saperi e conoscenza, i cui crediti non sempre sono stati assegnati nel corso della storia; ma, soprattutto, significa decostruire un’identità sociale reificata dalla norma bianca e colonialista che crea e divide in gruppi sociali. Significa entrare in un labirinto insidioso.
È questo che Ribeiro esplora e ci offre nel suo saggio, partendo da una figura robusta, Soujourner Truth, abolizionista Nera e attivista per i diritti delle donne, che nel 1851 già iniziava a porre domande, a sfidare le rappresentazioni della donna offerte dal femminismo bianco, a rifiutare uno sguardo universalizzante che non teneva conto delle differenze della sua posizione di donna Nera—nata in schiavitù—ai margini della società: “Non sono forse una donna? – Ain’t I a woman?”.

Filosofa, scrittrice, editorialista brasiliana, Djamila Ribeiro è una delle voci più autorevoli del femminismo Nero, antirazzista, pro-LGBQT+ e antimaschista. Il suo lavoro di disseminazione di opere intellettuali di autrici e autori Ner_ e Indigen_, attraverso la collana che ha lanciato e dirige, Feminismos Plurais, sta facendo la storia. Inserita dalla BBC come una delle 100 donne più influenti del mondo nel 2019, O que é lugar de fala? (Il Luogo della Parola, edizioni Capovolte, 112 pagine, 2020) è stato tradotto anche in francese e spagnolo.
Nei nostri venti minuti di conversazione, continuata per email, abbiamo esplorato e approfondito la sua storia personale e del Brasile; lo stato di amnesia in cui si trova il paese e il mito della democrazia razziale; le politiche discriminatorie del governo Bolsonaro; l’importanza e il ruolo del femminismo Nero; il dare voce e diffondere voci silenziate; l’odio sulle piattaforme social contro le donne Nere e l’utilizzo delle stesse per educare le persone sulle tante forme di oppressione; il ruolo delle/degli alleate/i.
Djamila, parlami di te, della tua infanzia. Dove sei nata e cresciuta? Cosa ami di più del Brasile, del tuo essere brasiliana?
Sono di Santos, sul litorale dello stato di São Paulo. La città è conosciuta a livello internazionale grazie al calcio e a giocatori come Pelé e Neymar. Ma è anche la città dove ha sede il più grande porto dell’America Latina. Mio padre era un portuale, un lavoro al tempo considerato pubblico e la categoria aveva a disposizione un ospedale e un collegio propri. Appartengo all’ultima generazione che ha potuto vivere questa esperienza. Alla fine della mia infanzia ho assistito alla privatizzazione del porto e mio padre, sindacalista e fondatore del partito comunista della città, portava me e i miei tre fratelli alle manifestazioni dei lavoratori contro la privatizzazione del porto. Oggi, Santos è una città a grande maggioranza reazionaria, elettrice di Bolsonaro, ma in quell’epoca era conosciuta come città “rossa”…
La mia infanzia è stata da parte paterna carica di politica: passavo le giornate al porto, al Centro Culturale Brasile – Unione Sovietica, e qui ho imparato a giocare a scacchi; da parte materna è stata caratterizzata dalle tradizioni afro-brasiliane, soprattutto grazie a mia madre, lavoratrice domestica diventata casalinga dopo aver sposato mio padre. Mia nonna materna era Yalorixá, una sacerdotessa di Candomblé, religione di matrice africana a cui mia madre era molto devota. Mi ha iniziato al culto degli orixás quando avevo 8 anni.
A vent’anni sono andata a lavorare alla Casa della Cultura della Donna Nera (Casa de Cultura da Mulher Negra), di Santos, un’organizzazione allora guidata dalla grande femminista nera brasiliana Alzira Rufin. Fu lì che entrai in contatto con la letteratura di queste incredibili donne, nella biblioteca Carolina Maria de Jesus, dedicata alla grande scrittrice nera nata nella favela di Canindé, a São Paulo. In quella biblioteca ho conosciuto Lélia González, Neuza Santos Souza, Sueli Carneiro, Jurema Werneck, Beatriz do Nascimento, per citarne alcune. Scrittrici Nere che mi hanno ispirata e mi ispirano molto.

Dovetti lasciare quel lavoro per gestire la morte dei miei genitori, che avvenne a pochi anni di distanza l’una dall’altra per cancro. Mi sono occupata di entrambi in ospedale e questo mi ha fatto molto soffrire. Poi sono rimasta incinta: sono stata madre e casalinga, prima di iniziare a lavorare come receptionist in una azienda nel porto. A 27 anni lasciai quel lavoro per frequentare l’università.
Parto da questo luogo, da questi saperi che mi hanno forgiata e che formano il Brasile che amo.
Il mio primo incontro ravvicinato con il Brasile è stato attraverso il calcio, quando andavo con un’amica allo stadio a vedere la Roma di Cafu e Aldair. Crescendo, l’ascolto di Gilberto Gil e Joao Gilberto, la Samba e il Carnevale di Rio, la Capoeira, portata a Roma dai mestre bajani, il baile funk in anni recenti. Insomma, questa era la cartolina dal Brasile: un paese multirazziale, ricco di diversità culturale, con i migliori giocatori di calcio al mondo, bella musica, donne stupende, spiagge mozzafiato. Cidade de Deus (City of God) è stato il film che, quando uscì, creò uno squarcio in questa estetica e narrazione romanticizzate del paese, ma ancora oggi la percezione è che la maggior parte delle persone non conosca bene il dietro le quinte di tutta quella violenza, il razzismo sistemico e strutturale che pervade la società brasiliana, né le politiche di sicurezza pubblica che di fatto colpiscono e criminalizzano la popolazione Nera e povera delle favelas. Secondo te perché si persiste con una raffigurazione così parziale e romantica del paese?
Il mito della democrazia razziale, quell’idea romantica del fatto che in Brasile non ci sia razzismo, ha compromesso molto una maggiore presa di coscienza sulle questioni razziali. Questa immagine è stata esportata nel resto del mondo: la falsa convinzione che qui non esistano conflitti razziali. Vedi, questo paese è stato uno degli ultimi al mondo ad abolire la schiavitù, ci sono stati quasi 400 anni di schiavitù nera. Nel periodo dopo l’abolizione, nel processo di industrializzazione del paese, c’è stato l’incentivo a far arrivare gli immigrati europei, a sostegno della politica ufficiale dello “sbiancamento”. Il primo punto da capire è che parlare di razzismo in Brasile vuol dire, soprattutto, fare un dibattito strutturale.
In Brasile, esiste l’idea che la schiavitù sia stata più leggera che in altri luoghi, il che ci impedisce di comprendere come il sistema schiavista abbia ancora un impatto sul modo in cui la società è organizzata. È necessario riconoscere le violenze avvenute nel periodo schiavista e molti intellettuali brasiliani smentiscono questa idea di schiavitù “morbida”. Certo, bisogna differenziare l’esperienza del razzismo in Brasile da quella degli altri paesi, ma questo non significa che non siamo un paese razzista. Il mito della democrazia razziale, che è stato concepito e diffuso dai sociologi appartenenti all’élite economica a metà del XX secolo, afferma che in Brasile si sono trascesi i conflitti razziali a favore dell’armonia tra neri e bianchi, tradotta in una mescolanza e nell’assenza di leggi segreganti. Ma allo stesso tempo questo mito mantiene la popolazione nera lontana dai diritti.
Lélia Gonzalez, importante intellettuale nera brasiliana, ha parlato di “nevrosi culturale brasiliana”, quel tentativo di parlare di presunti ponti che ci uniscono, il vendere l’idea che il Brasile sia il Paese della Samba e del Carnevale, mentre allo stesso tempo mantiene in una posizione di subalternità i gruppi che producono questa cultura. L’assenza di persone nere negli spazi di potere in Brasile è evidente e spaventosa. Per questo è importante conoscere la storia raccontata dalla prospettiva delle popolazioni nere e Indigene.

Il Brasile come dicevi è stato tra gli ultimi paesi ad aver abolito la schiavitù, solo centotrentadue anni fa, nel 1888. Eppure le scorie di quel sistema sono ancora presenti in maniera massiccia e il processo di bonifica è molto lento, se teniamo conto anche che alle ultime elezioni il popolo ha dato un’indicazione precisa di dove voleva che il paese andasse o tornasse.
Il Brasile è stato l’ultimo Paese delle Americhe ad abolire la schiavitù e nemmeno dopo ha promosso una politica di inclusione per la popolazione nera, mentre invece ha stimolato l’arrivo di immigrati europei che, naturalmente, dovevano lavorare, e sono arrivati in condizione di povertà, tuttavia una situazione molto diversa dalla condizione di schiavitù. Bisogna dire che gli immigrati italiani, tedeschi, francesi hanno ricevuto terre dal governo, cosa mai avvenuta a favore delle popolazioni nere e Indigene, che dopo il processo di schiavitù sono state bersaglio di una politica di massiccia incarcerazione maschile e relegazione delle donne al lavoro domestico. Da un punto di vista teorico, la politica ufficiale di sbiancamento promossa dallo Stato brasiliano si è basata sulle formulazioni del razzismo scientifico, come nelle opere di [Raimundo] Nina Rodrigues e Artur de Gobineau, con radici profonde che arrivano fino ad oggi. Per cui il Brasile è il paese dove c’è il maggior numero di discendenti italiani e il trattamento riservato a questi immigrati fa la differenza. È cosa comune incontrare i discendenti di italiani alla guida di aziende, dipartimenti universitari, a ricoprire cariche pubbliche, eccetera. Bolsonaro è un cognome comune nella regione del Veneto, per esempio. Dunque, è una situazione molto complessa.
Un Paese con una violenza coloniale storica, che è passato attraverso una dittatura durata oltre vent’anni senza che nessun torturatore sia stato mai processato, che nasconde il razzismo e parla di democrazia razziale non può che essere tormentato dagli echi del passato, per riprendere un’espressione felice di Grada Kilomba. È anche importante dire che l’elettorato di Bolsonaro è, in maggioranza, bianco e di sesso maschile. La sua elezione deriva da uno scenario elettorale complesso. Le popolazioni nere povere, che rappresentavano la maggior parte dell’elettorato di opposizione, vivono un processo di vulnerabilità sociale che spesso impedisce loro di essere in possesso di un “titolo” elettorale e andare a votare. Quelli che lo fanno devono affrontare delle difficoltà.
Alla vigilia delle ultime elezioni, i titoli di coloro che non avevano registrato i dati biometrici sono stati cancellati, ossia oltre 3 milioni di persone, in maggior parte nella regione del Nordest, zona in cui l’opposizione è più forte. E questo è solo uno dei volti delle elezioni. Un altro è la frode rappresentata dalla diffusione di false informazioni attraverso i social media, che sono negligenti e lucrano attraverso la diffusione di menzogne e odio. Un ulteriore volto ancora è rappresentato anche dalla sinistra istituzionale, che si rifiuta di discutere di razza, ed è europea, non ha democratizzato i media ed è ostaggio di alcune famiglie che controllano la comunicazione. Infine, una maggioranza non è la totalità, e per quanto Bolsonaro sia stato eletto, questa affermazione ne nasconde molte altre che vengono pronunciate ma non ascoltate, soprattutto dall’ambito progressista istituzionale interessato a mantenere la supremazia bianca.

Il programma Bolsa Família, attivato nel 2006, fu un po’ una rivoluzione, permise a molte persone di uscire dalla povertà endemica, favorendo tra le varie cose un aumento della scolarizzazione, ed era destinato soprattutto alle donne. Tu fai parte di una generazione di donne che, grazie a una serie di misure messe in campo dall’allora PT, è riuscita ad accedere a un percorso di studi di livello superiore, un’opportunità che era un miraggio per molti. A che punto siamo oggi in termini di accesso alla cultura e all’istruzione universitaria per le fasce più marginalizzate della popolazione?
Di fatto ci sono state politiche importanti durante i governi del PT in Brasile. La legge Federale sulle Quote, l’espansione delle università pubbliche, la titolazione di alcuni territori dei quilombos, programmi come Bolsa Família, la creazione di Segreterie come quella del ministero per affrontare il Razzismo e la violenza contro le donne. Tuttavia è importante segnalare che la prima università ad adottare delle quote in Brasile fu l’Università Statale di Rio de Janeiro, nel 2001, la seconda fu l’Università di Brasilia, nel 2004.
Io faccio parte di una generazione che ha avuto accesso alle politiche pubbliche nell’area dell’Istruzione, soprattutto durante il Governo Lula, e questo accesso ha reso possibile la rottura dei cicli di esclusione. Quel governo ha significato passi avanti in molti sensi, anche se possiamo fare delle critiche sotto altri aspetti.
Oggi, tristemente, sotto il governo Bolsonaro viviamo una situazione caotica di smantellamento di molte di queste politiche e un rafforzamento della visione punitiva per qual che riguarda la Sicurezza Pubblica. Per fare un esempio, non ci sono fondi per le politiche contro la violenza sulle donne nel governo Bolsonaro, il che significa “lasciar morire”, dato che il Brasile è il quinto Paese al mondo per tasso di femminicidi e quarto per matrimoni infantili. Ci sono stati tagli ai bilanci per le università pubbliche, tagli alla ricerca, attacchi alla scienza. Accanto a questo, ci sono politiche di austerità e rafforzamento della logica neoliberista di smantellamento della salute pubblica. E visto che la popolazione nera è quella che maggiormente dipende dalla salute pubblica, non c’è da meravigliarsi per il fatto che in periodo di pandemia Covid-19 sia quella che muore cinque volte di più rispetto al resto della popolazione.
In un tuo recente intervento di dicembre ai Prince Claus Awards, di cui sei una delle/degli undici laureate/i classe 2019, è emerso che il 90% dei libri pubblicati negli ultimi cinquant’anni in Brasile sono stati scritti da uomini bianchi. Dal 2017 hai avviato un importante progetto. Dirigi infatti la collana editoriale Feminismos Plurais (marchio Sueli Carneiro/edizioni Polén Livros) che promuove la pubblicazione di autrici e autori Nere/i e Indigene/i a prezzi accessibili, aprendo e democratizzando l’accesso alla cultura anche per le fasce più deboli della popolazione. Quante persone Nere avete pubblicato? Come sta andando? Come sta rispondendo il pubblico di lettrici e lettori?
In quell’occasione citai una importante ricerca di Regina Delcastagné, della Università di Brasília, la quale appurò che in un periodo di cinquant’anni, fino al 2014, il 90% dei libri pubblicati da grandi editori sono stati scritti da persone bianche, il 70% da uomini bianchi. Conceição Evaristo, grande scrittrice nera brasiliana, ha rilasciato un’intervista nella quale afferma che bisogna mettere in discussione il sistema che l’ha resa nota al grande pubblico del Paese a 70 anni. E dobbiamo davvero farlo.
Conceição sostiene anche che la cosa più difficile per una donna nera non è scrivere, ma pubblicare, visto che esiste la pratica storica di invisibilizzare le produzioni che vengono da questo gruppo sociale. Quindi, a fronte di questa storia del paese, ho capito che era importante creare una iniziativa che pubblicasse persone nere, in forma accessibile e con contenuto razziale critico, come modo per mettere in discussione la narrativa imposta da gruppi sociali egemonici. Ed è stato quando ho creato il marchio editoriale Sueli Carneiro, in onore della grande femminista nera, pioniera su tanti fronti, omaggiata in vita, cosa tristemente non comune per le donne nere.

Il marchio Sueli Carneiro lavora in collaborazione con la casa editrice Pólen Livros: dividiamo i costi di produzione, il trasporto merci, tutto, così come dividiamo i ricavi. È stato una formula innovatrice per il mercato brasiliano. Il risultato è stato incredibile, con decine di persone Nere pubblicate, a cominciare dal libro della stessa Sueli Carneiro, Escritos de uma vida, opera che fa una storiografia delle lotte delle donne Nere nel paese. Si è trattato del primo libro pubblicato da Sueli, che ha settant’anni e una produzione intellettuale di una vita, ma che finora non aveva ancora pubblicato alcuna opera. Questo è il livello di razzismo nel mercato editoriale brasiliano.
Oltre al libro di Sueli Carneiro, il marchio ha pubblicato Ó Paí, Prezada! Racismo e Sexismo tomando bonde nas penitenciárias brasileiras, della femminista Nera Carla Akotirene, così come Mulheres Quilombolas, opera inedita di produzione di donne dei quilombo, comunità fondate da schiavi fuggiti dalle piantagioni e che resistono ancora oggi. Il marchio pubblica anche la collana Feminismos Plurais, che al momento conta otto titoli, a cominciare dalla mia prima opera O que é lugar de fala? [Il luogo della parola] tradotto in italiano da Capovolte.
La collezione ha pubblicato anche Encarceramento em Massa, di Juliana Borges; Empoderamento di Joice Berth; Racismo Estrutural, di Silvio Almeida; Interseccionalidade, di Carla Akotirene; Racismo Recreativo, di Adilson Moreira; Apropriação Cultural, di Rodney William e Intolerância Religiosa, di Sidnei Nogueira. È stato un grande successo. Solo la collezione ha già venduto oltre 100mila copie ed è bibliografia obbligatoria di una grande maggioranza di lauree, senza contare i circoli di lettura, le scuole, e così via.
Inoltre, l’aver reso visibili queste autrici e questi autori ha portato a un risultato fantastico nel dibattito pubblico. Sono state azioni pionieristiche in questo senso, a cominciare dal dibattito razziale critico a prezzo accessibile. Tra le altre azioni trasformatrici, abbiamo distribuito migliaia di libri nella fase di lancio, in collaborazione con una ditta di cosmetici per coloro che non potevano permettersi di acquistare, per quanto i libri fossero accessibili.
Il Luogo della Parola è per l’appunto una disamina sulla posizione della donna Nera nelle società, sul suo locus sociale. Ho apprezzato molto la tua opera per vari motivi: il primo è che ci si sente a casa, grazie anche all’utilizzo di un linguaggio semplice ma comunque sofisticato; l’altro è perché riprendendo il pensiero di figure storiche come Soujouner Truth, Simone de Beauvoir, Audre Lorde, Lélia Gonzalez, Angela Davis, bell hooks, Patricia Collins, e diverse pensatrici Nere contemporanee, tra queste Grada Kilomba e Linda Alcoff, evidenzi la nostra condizione di alterità: essere l’altro dell’altro, sia rispetto alla donna bianca, all’interno del dibattito di genere, che all’uomo Nero, nel dibattito sul razzismo. Riprendi e completi inoltre alcune riflessioni di Focault e Marx. Il punto finale è: rompere con gerarchizzazioni e categorizzazioni universalizzanti, incomplete, che escludono, nascondono, silenziano. Perché è importante un femmismo Nero e intersezionale? E perché, soprattutto, è importante non percepirlo come antagonista, divisivo?
Il femminismo Nero è la lotta per un modello alternativo di società. Non è una fissazione dell’identità in sé, ma il pensare al perché alcune identità sono oppresse e altre hanno dei benefici. La bianchezza e la mascolinità sono a loro volta delle identità. Senza questa discussione, come possiamo svelare i processi storici che pongono la popolazione Nera in generale e la donna nera in particolare in un luogo sociale marginalizzato e con meno opportunità? Il femminismo nero è la lotta contro tutte le forma di oppressione, è lottare contro la frammentazione che il capitalismo, il razzismo e il sessismo creano nella società collocando la donna nera alla base e l’uomo bianco al vertice. È un progetto di società.

Non solo cultura, femminismo e attivismo attraverso i libri e nei luoghi accademici, ma anche sui social. Sei seguita da 1.000.000 di persone su Instagram e Facebook, e utilizzi questi spazi per educare e denunciare le oppressioni di razza, genere e classe, che trovano terreno ancora più fertile in questi universi virtuali. Hai infatti lanciato sui tuoi social Stop hate for profit. Mi racconti in cosa consiste, come è nata e come sta andando questa campagna?
Recentemente ho fatto un post sponsorizzato di una impresa che gestisce corse di taxi. Il post si riferiva alle misure di protezione contro il coronavirus per i taxisti, come la sanificazione con il disinfettante, eccetera. La pubblicazione è stata fondamentale in termini materiali per continuare a pagare una equipe in maggioranza nera che segue un progetto editoriale nero che necessita di alcune persone per seguire il mercato. Ma a partire da questo è stata diffusa una fake news secondo cui io ero contro gli scioperi dei rider delle consegne di cibo e altre falsità, come quella secondo cui ero contro le lavoratrici domestiche. Interessante notare che tra l’altro avevo già manifestato a favore dello sciopero, così come storicamente denuncio nei miei scritti la situazione delle lavoratrici domestiche nel Paese, essendo io—tra l’altro—figlia, nipote e bisnipote di lavoratrici domestiche.
Il lavoro e la storia non mi hanno aiutata, visto che il mio nome è stato per un giorno intero al primo posto nei trending topic di Twitter, social network dove non ho un account e in cui non potevo difendermi. Le menzogne sono aumentate come una palla di neve e ho ricevuto tante maledizioni e grandi ostilità. Il giorno seguente, sono stati inviati messaggi con minacce sul mio cellulare e su quello di mia figlia, cosa che che per la prima volta in vita mia mi ha portata in una stazione di polizia.
Le violenze normalizzate nelle parole dei trending topic si mischiavano agli annunci delle piattaforme di serie televisive e, ironia, app di consegna. Quindi molti utenti che giuravano che stavano facendo la rivoluzione, attaccando una donna nera, stavano solo lavorando gratis per una impresa miliardaria che fa profitto grazie alla misoginia, al razzismo e alle menzogne. Dopo essere andata alla polizia, assieme ai movimenti neri ho chiesto al ministero pubblico federale di indagare e approfondire lo “sfruttamento economico del razzismo e della misoginia”, con una tesi scritta dal mio avvocato nella causa, Adilson Moreira, che è anche autore del brillante libro Racismo Recreativo.
L’azione che abbiamo presentato si basa su una ricerca di Amnesty International, che ha appurato che le donne nere sono 84 volte più propense a subire un attacco rispetto alle donne bianche, come emerge anche dalla ricerca di dottorato di Luiz Valério Trindade, intellettuale nero brasiliano, Phd in Sociologia all’Università di Southampton, nel Regno Unito. Trindade ha appurato, facendo ricerche sui social network, che le donne nere rappresentano l’81% degli obiettivi degli attacchi in rete. Spiega che questi attacchi dipendono dal disagio che la loro ascesa e il loro protagonismo provoca in una società razzista e machista.

Nella nostra azione, la squadra giuridica chiede un risarcimento danni collettivo per le donne nere, da destinare a un fondo per combattere il razzismo, come anche l’implementazione di un organismo esterno e indipendente di verifica del rispetto delle regole, per formulare linee guida e di buona condotta per le piattaforme social.
L’azione ha risvegliato in me un qualcosa che mi stava tormentando da anni. Prima delle minacce ero già stata invitata per un incontro internazionale con la campagna Stop Hate for Profit, nata negli Stati Uniti per mettere in discussione il lucro di queste imprese tramite l’odio. Negli Usa è una iniziativa della ADL (Anti Difamation League) e della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) ed è focalizzata sul disincentivare le aziende a pubblicare annunci in queste piattaforme. Ho tenuto un incontro con il direttore dell’ente, Jonathan Greenblatt, e la giornalista brasiliana Patricia Campos Melo, che ha ricevuto minacce da diverse reti sociali per aver denunciato la macchina delle menzogne bolsonariste.
Ovvio che tutti i social sono complessi in questo senso, ma sento in Twitter una maggiore ostilità e una normalizzazione degli attacchi contro le donne nere brasiliane. A causa della complessità e dell’estensione dei danni di queste aziende nella società, penso che non sia solo il caso di disincentivare la propaganda, ma anche di regolamentare queste attività da parte dello Stato, al fine di frenare lo sfruttamento economico dell’odio.
Sappiamo quanto sia importante, in qualsiasi progetto di emancipazione sociale e culturale, il ruolo di accompagnamento e supporto giocato dagli alleati. A giugno, l’attore brasiliano Paulo Gustavo ti ha ceduto per l’intero il mese il suo account Instagram da 13,5 milioni di follower per permetterti di parlare di razzismo a un pubblico ancora più ampio di persone. “Un lugar de fala” privilegiato, bianco, maschile. Oltre ad aprire i propri spazi, che tipo di percorso consigli di fare alle persone idealmente o più concretamente vicine a queste questioni?
È stata un’azione inedita in Brasile e, oserei dire, anche a livello internazionale. Paulo Gustavo è un autore comico tra i più conosciuti in Brasile, i suoi film fanno battare record assoluti ai botteghini. Così una sera mi ha chiamato e proposto l’idea: cedermi la sua pagina da 13,5 milioni di follower per un periodo di un mese intero. Questo Paolo Gustavo ha compreso, quando abbiamo parlato di lugar de fala, luogo della parola, come di una posizione etica. Cosa posso fare, dal mio luogo di uomo, bianco, privilegiato, per trasformare la realtà di altri gruppi sociali? Nel suo caso, lui ha deciso di cedermi per un mese intero il suo account, ma possiamo pensare a ciò che un professore, un imprenditore, un politico, può fare dal luogo sociale che occupa, per favorire una trasformazione. Per esempio, quante persone nere compongono la bibliografia del suo corso? Quante persone nere assume nell’impresa in cui lavora? Quanti di loro sono in posizione di potere? Stiamo dunque parlando di posizione etica, di impegno, di forza dell’inquietudine che ci guida alla trasformazione.
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Immagine di copertina | Foto di Lucas Lima
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Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.