Peace Of Minf | Arya: “Non Rinuncio Alla Mia Musica In Nome Di Un Successo Effimero”

Ho visto Arya esibirsi dal vivo soltanto una volta—ormai due anni fa—in un concerto ridotto all’interno dell’unica libreria del mio quartiere a Milano. Era stato intimo e speciale, non solo perché in questa situazione d’emergenza il ricordo di un concerto diventa ancora più prezioso, ma soprattutto perché Arya è brava, davvero.
Corista di Ghemon e Venerus, cantante del progetto A Flower Tide, oggi esce finalmente il suo debutto solista, Peace of Mind, per la piccola—ma di alta qualità—etichetta indipendente milanese Atelier71. Un disco di otto tracce nel segno del soul e dell’R&B più attuale, che restituisce l’immagine di un’artista ormai matura e finalmente sicura di sé.
GRIOT: Partiamo proprio dal titolo del tuo album, Peace of Mind. Questa pace mentale è qualcosa che stai cercando o è qualcosa che hai finalmente trovato?
Arya: No, non direi che l’ho finalmente trovata, anzi, la ricerca di questa pace è un percorso che non finisce mai. Non è qualcosa che trovi e conservi, ma devi cercarla, magari trovarla, poi perderla e cercarla ancora. In alcuni momenti mi sento davvero peaceful, centrata su me stessa, parte del mondo, mentre in altri sono inquieta e senza pace, ma è proprio questo che mi spinge ad andare avanti. Anche quando non sono in pace, so che l’ho trovata in passato e quindi posso ritrovarla ancora, così non perdo mai la speranza di raggiungere il giusto stato della mente.
Che cos’è che di solito ti toglie questa pace?
Possono essere tante cose, elementi esterni—e questo periodo non ha aiutato—che causano tumulti ed ebollizioni dentro di me. Al contrario, quando sono veramente in pace con me stessa e a fuoco, anche se intervengono fattori di turbamento, sono in grado di mantenere il mio equilibrio, non c’è niente che mi sposti. È un allineamento di cose, a stravolgerlo basta un piccolo cambiamento personale, fisico o ambientale, come un incontro, un accadimento…
Quando hai capito che per te era arrivato il momento di buttarti da sola, semplicemente come Arya?
È stato fondamentale l’incontro con la mia attuale etichetta. In passato avevo fatto delle esperienze con altri team di produttori, ma non era mai scattata quella scintilla che invece è stata immediata con i ragazzi di Atelier 71, Idriss Hannour (aka Desperado Rain) e Dimitri Piccolillo (Paziest). Era già da un po’ che lavoravo come corista per Ghemon, ma avvertivo anche l’urgenza di fare qualcosa di mio. A un certo punto—grazie all’intervento e alla spinta provvidenziale del batterista della sua band, Teo Marchese, mio grande amico—mi sono svegliata da una specie di torpore. Ho sentito una scossa, finalmente. Forse mi ero adagiata in una situazione che in quel momento mi piaceva e mi faceva sentire a mio agio, appunto essere nel gruppo di un artista come Ghemon, e avevo messo in pausa l’idea di fare qualcosa di mio. Poco dopo questa presa di coscienza ho incontrato Idriss, che è diventato prima mio amico, poi anche manager, consigliere, compagno di percorso, e poi Dimitri. C’è stato subito il click, ci siamo trovati immediatamente, e sono stati loro a farmi vedere quello che io ancora non ero in grado di scorgere. Mi hanno mandato due pezzi, sui quali sono riuscita a scrivere con facilità, e mi hanno portato a credere in me stessa come non avevo mai fatto. Ci è sembrato naturale continuare a lavorare insieme e concepire un progetto più organico e completo, che non fosse semplicemente l’uscita sporadica di qualche pezzo.
Ti spaventa esporti in prima persona, non avere le spalle coperte dalla band?
Sì, certo, ma penso che sia il prezzo da pagare per fare arte. Non c’è arte senza esposizione di sé. Ogni volta che faccio sentire un mio pezzo a qualcuno, banalmente anche quando lo strimpello in cameretta davanti a un amico, non necessariamente quando lo pubblico su Spotify, ho sempre il timore del giudizio. In primo luogo è il mio giudizio: io sono ipercritica, devo lavorare molto su questo aspetto del mio carattere. In generale, aprirsi agli altri espone sempre a una valutazione. Di questo album sono molto fiera, credo che mi rappresenti totalmente, ma in me ci sono comunque sentimenti contrastanti di agitazione, paura, ansia, eccitazione.
Come nascono le tue canzoni? Come funziona il tuo processo di scrittura?
Alcune volte mi siedo al pianoforte e gioco con accordi e melodie. È proprio la melodia la mia guida principale, il punto di partenza, mentre le parole vengono dopo. Penso che in parte dipenda dal fatto che sono figlia di un cantante di salsa—tutta sentimento—e ho vissuto sempre la musica in quest’ottica, facendomi portare dal sentimento. Il più delle volte scrivo una linea melodica e poi la propongo al team di produzione per lavorare insieme al resto della parte musicale, anche perché io non sono una vera musicista: sono capace di sedermi al pianoforte per accompagnarmi, ma poi ho bisogno del supporto di Paziest e Bongi (Alessio Bongiorno), che mi aiutano ad avere una visione più ampia e articolata di ciascun brano e dell’insieme. Altre volte, come è successo per i primi due pezzi e per l’ultimo singolo, Mad, Paziest mi ha mandato i beat già fatti e io ci ho scritto sopra.
Nei tuoi testi parli molto di te stessa.
Mi piace l’idea che i miei pezzi siano autobiografici e possano svelare qualche parte di me, le mie esperienze, le mie prese di coscienza. Sono una persona molto riflessiva e penso che questo emerga dalla mia scrittura e dai contenuti. Oltre a cercare la famosa pace mentale, sto cercando di fare un percorso graduale, come se stessi salendo degli scalini di consapevolezza. E poi c’è l’amore, che è la vita. Spesso mi rendo conto che, pur parlando di me, le mie canzoni toccano comunque temi universali e tante persone ci si rivedono.
Quali erano e quali sono oggi i tuoi riferimenti musicali?
Mio padre è un cantante di salsa venezuelano e io sono cresciuta in Italia a pane e salsa. Fino a undici, dodici anni, ho ascoltato praticamente solo quello. A quel punto ho avuto una specie di rifiuto e mi sono spostata prima verso l’hip hop, poi verso l’R&B e il soul. All’inizio guardavo soprattutto al soul classico di Aretha Franklin e ho ascoltato tantissimo Stevie Wonder, poi mi sono rivolta all’R&B degli anni Novanta, quello dei primi dischi di Beyoncé, per esempio. Crescendo ho ampliato gli orizzonti, soprattutto a partire da Lauryn Hill, che mi ha aperto gli occhi sulle possibilità di incontro fra i diversi generi che amavo. Negli ultimi tempi mi sono appassionata all’onda britannica del nuovo soul (che poi si riflette anche nella scena statunitense e internazionale) grazie ad artisti come Jorja Smith, Mahalia, Loyle Carner e, soprattutto, Snoh Aalegra, il mio riferimento principale nell’ultimo anno e mezzo.

Qual è il pezzo del disco che ti rappresenta di più in questo momento?
In questo momento direi Miles, proprio come approccio alla melodia e alla scrittura. Nella sua versione originale, scritta tre anni fa per piano e voce, era una ballad R&B molto classica che io portavo già dal vivo. Eppure, tre o quattro mesi fa, mentre eravamo a lavorare in studio, Idriss se n’è uscito all’improvviso, dicendomi: “Questo brano non ha la stessa potenza degli altri che abbiamo scelto per il disco. Perché non lo riscrivi daccapo?”. Ero incerta perché c’era pochissimo tempo, ma abbiamo deciso di provarci lo stesso. Inizialmente avevamo l’intenzione di tenere melodia e testi originali, ma negli ultimi tre anni sono cambiata così tanto come persona e come autrice, che alla fine ho cambiato tutto e l’ho riscritto daccapo. Ecco perché è il pezzo più attuale, quello che corrisponde di più a come sono adesso. Invece, in termini di suono, quello che mi rispecchia di più è Feelings In Disguise.
L’ultimo singolo uscito è Mad, che ha un video molto potente e mostra un’immagine multiforme di te. Qual è la versione di Arya che senti più vicina a come sei tutti i giorni?
Bella domanda! Tra quelle del video direi che l’Arya che indossa il top di paillettes e i pantaloni neri è quella più corrispondente a come sono tutti i giorni. In realtà, come tutti, penso di essere molte cose diverse e, a seconda dei giorni, le esprimo in maniera differente. Se un giorno mi sveglio in un certo mood musicale e ho voglia di ascoltare un determinato genere, anche il mio modo di vestirmi, di comportarmi e di pormi nei confronti della vita e degli altri si allinea con quel mood musicale.
Il video di Mad è molto coerente con me, con la mia personalità. Certi giorni mi sento molto classy, tipo paillettes e pantaloni eleganti, alti giorni ho voglia di mettermi calzoncini e Jordan e comportarmi da maschiaccio, altri ancora voglio apparire sofisticata… Questa eterogeneità mi piace e penso si rifletta anche nella mia musica.
La rappresentazione della donna, anche in un settore creativo e aperto come quello della discografia e della musica, è ancora piuttosto piatta. Hai mai subito il peso degli stereotipi e della disparità di genere? Hai mai sentito di dover aderire a un’immagine che non era la tua?
In altre precedenti esperienze con diversi produttori, ho notato che l’approccio di base era: “Ok, sei una bella ragazza, canti bene, te la cavi a rappare, vogliamo costruire un personaggio: una giovane donna con un atteggiamento più aperto, più maschile.” Non discuto tanto l’idea, quanto il fatto che nessuno mi ha chiesto se era quello che io volessi per me come artista e come persona. Mi sono sentita come se fossi semplicemente una voce e una presenza, ma in realtà non interessasse a nessuno quello che volevo fare io. Ho abbandonato, non era la strada che volevo intraprendere.
Purtroppo, spesso mi sembra di vedere la tendenza da parte delle stesse artiste ad aderire a questi stereotipi che ci sono imposti dall’industria discografica e dal mercato, forse perché cercare di affermarsi in modo diversi, mantenendo la propria originalità e personalità, è sicuramente più faticoso e difficile. C’è poca voglia di uscire dagli schemi e probabilmente dipende dalla paura di non riuscire a emergere. È anche una questione di priorità: dipende se per te conta di più la fama, la notorietà a ogni costo, oppure la possibilità di fare quello in cui credi, magari lavorando più duramente. Per me è più importante presentarmi con la mia musica, con un progetto che sia davvero la vera e profonda espressione di me stessa. Probabilmente il mio percorso sarà più lungo e difficile, e chissà se mai arriverò al traguardo, ammesso di sapere quale sia, ma io non rinuncio alla mia musica in nome di un successo, che in fondo potrebbe essere effimero.
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Metà italiana, metà egiziana, nata e cresciuta nelle Marche, passata per Bologna, adottata da Milano, lavoro nel campo della comunicazione e dei media. Scrivo di musica, street art e controculture, sono affascinata dalla contaminazione culturale a tutti i livelli.