Oath Magazine Alimenta La Curiosità Per La Nuova Fotografia Dall’Africa
Pubblicato a Città del Capo (Sud Africa), il numero inaugurale di Oath esplora un ricco panorama di fotografe e fotografi contemporaneə del continente, stabilendo per se e per altri elevati standard di qualità.

L’ascesa di quella che viene spesso definita in modo fuorviante “fotografia africana” ha segnato la parte migliore dell’ultimo decennio. A parte la Biennale Africana di Fotografia di Bamako-Rencontres de Bamako, che si tiene in Mali fin dal 1994, la fotografia contemporanea nel continente africano ha pochi punti di riferimento. Dopo il boom della ritrattistica in studio negli anni ’60 e ’80, in molti paesi africani la fotografia è stata relegata allo stile documentario, in gran parte al servizio del fotogiornalismo. Tuttavia, poiché a inzio millenio la tecnologia digitale fotografica è diventata più accessibile, la fotografia creativa è riemersa in tutto il continente.


La convizione diffusa era che gli unici e le uniche africanə con la macchina fotografica fossero fotoreporter, e questo retaggio oggi è ancora presente, perché i fotografi e le fotografe che nel continente perseguono l’espressione creativa, spesso vengono consideratə sorprendenti. Non più di cinque anni fa, “inaspettato” era una parola chiave, un punto di forza per i media visivi, che erano simultaneamente creativi, contemporanei e africani, disattendendo quegli stereotipi radicati che gravano sull’immagine del continente. Si dimentica facilmente che il grande risveglio in gran parte è avvenuto negli anni 2010, su app come VSCO e Instagram. Un gruppo di fotografi e fotografe africanə in erba ha cavalcato l’onda delle nuove app, irrompendo gradualmente, ma con forza, nella scena. Gare, Instameet e sfide erano all’ordine del giorno, portando sulle piattaforme e sotto i riflettori decine di fotografe e fotografi, creative e creativi, moltə deə qualə autodidattə. Mostre come Making Africa al Vitra Museum (2015) hanno mostrato come le fotografi e i fotografi africanə contemporaneə possano rimodellare le narrazioni culturali.
Dieci anni dopo, Oath, rivista cartacea dedicata alle fotografe e ai fotografi africanə, è per forza un fenomeno: è una visione celebrativa delle potenzialità deə fotografə africanə nella scena globale, di cui hanno sempre fatto parte. Nell’attuale era de “la carta stampata è morta”, ci vuole una buona dose di passione per lanciare una rivista di 150 pagine, piena di immagini generose di alcunə tra i talenti più interessanti al mondo. Per questə giovani fotografi e fotografe, le pagine di Oath sono come una mostra, offrono una preziosa esposizione sia agli appassionatə che al nuovo pubblico. La rivista per molti e molte di loro rappresenta un medium dove vedranno stampato il loro lavoro per la prima volta, a fianco di modelle e modelli, mentori, e colleghe e colleghi da tutto il continente.


I primi due articoli a due pagine del primo numero svelano subito i meriti dell’approccio curatoriale di Oath. The Imaginarium Project si occupa dell’anonimità facciale in ambito ritrattistico, rappresentata nel lavoro di quattordici fotografə, tra cui Zina Saro Wiwa, Tatenda Chidora, Themba Mokase e Ugo Woatzi. Un’altra sezione curata, Boyhood, presenta sedici ritratti di giovani in situazioni inscenate e di vita quotidiana. Qui, tra i/le variə, troviamo le lenti di Koerapetse Mosimane, Mario Macilau, Hicham Benohoud e James Barnor che catturano la gioia, la tenerezza e la libertà sfumata di cui spesso i ragazzi e le ragazze africanə sono privatə. La sezione Go-Sees, che offre un focus su talenti emergenti, è al centro della strategia della rivista. Le straordinarie capacità dei/delle quattordici fotografi e fotografe presenti nella rivista sono evidenti, ed è un peccato pensare che alcunə di loro sarebbero passatə inosservatə, se questa rivista non fosse esistita.


È questa confluenza di impegno, di attenta curatela e di scrupolsa esecuzione che fanno di Oath uno dei prodotti più di pregio nel panorama delle riviste indie cartacee, che lotta sotto il peso del secondo anno di pandemia. Quale modo migliore per distrarsi dal pandemonio apparentmente costante di questo 2021 se non sfogliare immagini nitide, colori vivaci, e brevi ma dettagliati articoli sulle stelle nascenti della fotografia? Oath, a suo modo, sta svolgendo l’importante lavoro di organizzare un vasto archivio di ricche culture di fotografi e fotografe, al tempo stessto avviandone di nuove. E c’è così tanto da vedere che ci si chiede perché nessuno abbia battuto Stephanie Blomkamp, fondatrice ed editrice di Oath.
Tuttavia, come vi dirà qualsiasi editore ed editrice indipendente, questo lavoro non è facile. Fare un ottimo lavoro è un espediente, persino imperativo, per una rivista che si considera una parte essenziale dell’iniziativa globale per reimmaginare l’Africa. Andando avanti sarà cruciale un apprezzamento dei modi in cui le prospettive anglofone modellano la selezione dei lavori in evidenza e la distribuzione della rivista in Africa. D’altro canto è lecito chiedersi se l’ovvio pregiudizio del Sud Africa nel lungo termine possa essere sfidato in modo costruttivo. Tuttavia, Oath sembra determinata a navigare in questa complessità, con un’estetica promettente e tenace che dimostra che ciò di cui c’è bisogno non è la fotografia africana, ma di fotografi e fotografe africanə.
Il secondo numero, intitolato Love, è stato appena pubblicato a Città del Capo, ad aprile, e l’uscita internazionale è prevista per giugno 2021.
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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.