Note Su Migrazione E Agency Nella Diaspora Filippina | Gina Apostol E Liryc Dela Cruz In Conversazione

di S. Himasha Weerappulige - Pubblicato il 14/08/2023
Migrazione e Agency Nella Diaspora Filippina. Da sinistra, Kim Valerie Vilale, Gina Apostol, Liryc Dela Cruz. SPAZIO GRIOT al Mattatoio, 25 giugno 2023, Roma. Courtesy SPAZIO GRIOT. Foto: Andrea Pizzalis

Ho sempre ricercato la rivoluzione, quindi la rivoluzione è ciò di cui sono interessata, non semplicemente come storia, ma come accadimento, come moto,” spiega Gina Apostol, scrittrice e militante di origini filippine, da anni residente negli Stati Uniti. Una frase, anzi un moto, diametralmente opposto allo stereotipo dell’asiaticǝ che spesso riecheggia in spazi discriminanti, lo stereotipo dell’asiaticǝ servile, non politicizzatǝ, che si fa sentire poco, che è un ottimǝ collaboratorǝ, che è meditativǝ. Stereotipi rintracciabili alle prime narrazioni coloniali, spesso utilizzate per promuovere meccanismi di dominazione.

Lyric Dela Cruz, Gina Apostol, e Irma Tobias si raccontano, moderatɜ da Kim Calingsan Valerie Vilale. Una conversazione che traccia i meccanismi attraverso i quali le soggettività individuali della diaspora filippina sono state oscurate da una varietà di forze socio-politiche, discutono le strategie di sfida che vengono mantenute all’interno delle comunità filippine, con l’obiettivo di riformulare il modo in cui la migrazione filippina viene intesa sia nelle Filippine che nei Paesi di arrivo, da Singapore e Dubai, da Los Angeles a Roma.

Ripartendo da casa: le badanti sono rumene, lɜ bengalesi sono venditorɜ di fiori. Lɜ cingalesi, assieme allɜ filippinɜ, sono lavoratorɜ domesticɜ. In Italia, l’identità filippina è spesso invisibilizzata e ridotta ad un lavoro. L’antonomasia di identificare una nazionalità o etnia con un lavoro calca ulteriormente la connessione intima tra razzializzazione e capitalismo. “Partiamo dal fatto che già in questa stanza, tra lɜ relatorɜ e nel pubblico, c’è un filo rosso che ci unisce. È lo stesso filo che ci unisce alle Filippine, come luogo dove rintracciamo le nostre origini,” dice Kim Vilale, autrice e podcaster italo-filippina. È un filo che però attraversa soggettività frastagliate e complesse. “Irma è nata nella regione più a nord, nell’Uzon. Gina invece nell’isola di Leite, nella regione centrale, Visayas; mentre Lyric è nato a Tupi, nella regione meridionale, Mindanao. Questo ci basta ed è sufficiente a farci capire che è presente una pluralità caleidoscopica di soggettività che non possono essere ridotte a una, come l’equazione stereotipante di cui noi siamo lɜ stessɜ percettorɜ, ricevitorɜ, ovvero quello di filippina o filippino uguale a soltanto e solamente badante, domestica, domestico, tata.” Gina Apostol, Liryc Dela Cruz, Irma Tobias e Kim Vilale si riappropriano di questa identità nazionale, al contempo decostruendola e rigenerandola. Con un esercizio artigianale di modellazione storica plasmano storia ufficiale con storia personale. Già questa nozione sblocca e capovolge una miriade di ragionamenti. Apostol evidenzia come alla fine dei conti, anche dire solo filippino, non voglia dire niente. Come in Italia ci si può identificare con una regione o una città. Nella costellazione di 7641 isole che sono le Filippine esistono decine di etnie diverse, con storie interne e complesse.

Vilale domanda con fare curioso, a Dela Cruz e Apostol, quali siano i fattori che influenzano il loro lavoro. “La storia complessa delle Filippine sembra essere per entrambɜ materiale plasmante,” aggiunge. La storia delle Filippine è costellata di processi rivoluzionari, interni ed esterni, ribadisce Gina Apostol, scrittrice che recentemente ha pubblicato in Italia anche “La Rivoluzione secondo Raymundo Mata” (Utopia Editore, 2023), romanzo multiforme costruito intorno al diario di un giovane rivoluzionario Filippino. “Sono cresciuta sotto ad un regime, tra la dittatura e la disco. Questo è ciò in cui sono cresciuta […] Non si poteva non essere attivistɜ, e quando avevamo 20 anni abbiamo rovesciato una dittatura. Non pensavamo neanche potesse succedere. Pensavamo che saremmo mortɜ, eppure eccoci qui […] ma ora abbiamo un altro dittatore al potere, quindi il concetto di rivoluzione è sempre in corso.

Processi di autodeterminazione politica che in Europa ignoriamo, storie di resistenza e confronto. Ma la collaboratrice domestica è solo una filippina.

La conversazione è parte del programma pubblico di Rifrazioni, che all’interno racchiude la mostra personale Il mio Filippino: For Those Who Care To See e l’omonima performance, Il mio Filippino, entrambe ispirate alla pratica e alla ricerca artistica e performativa dell’artista e regista di arti visive Liryc Dela Cruz. Una pratica che Dela Cruz dedica alle sue comunità, ed in questo sta la sua forza. Nel suo progetto, ha seguito come i corpi delle comunità filippine sono stati schiavizzati e colonizzati, esplorando la loro riconnessione con il suolo.

Lo spazio chiuso è anche uno spazio di riposo. Non si esplora quindi solo l’esaurimento e il dolore, ma anche la cura di sé, contro il meccanismo coloniale che segrega le soggettività da se stesse e dal piacere. I video che compongono la sua mostra macinano lentamente e sono occupati da un solo soggetto, impegnato in una coreografia del lavoro, robotico e militarizzato, in cui i gesti di cura memorizzati da un singolo corpo sono parte di altri corpi, in una disposizione impersonale e asettica, senza sogni e visioni. In un altro video, presentato in un formato più grande, una donna dorme, immersa in un silenzio che ispira suggestioni mistiche, protetta da una delicata zanzariera. I suoi racconti audiovisivi vanno ad infilarsi all’interno della narrazione ufficiale e coloniale delle Filippine, creando delle crepe in essa.

Oltre al riposo e al piacere, il film parte della performance Il Mio Filippino canalizza anche la rabbia, con una cascata di immagini video archiviali che esplorano il modo in cui le Filippine sono state soggette ad un eterno processo di colonizzazione, cominciato con il dominio dell’impero spagnolo, al quale poi sono succeduti gli Stati Uniti e l’occupazione giapponese. Una sbornia coloniale ancora oggi percepita nella situazione politica locale, che ha poi creato il palco per l’instabilità politica e le dittature che si sono presentate successivamente. Una serie di dominazioni a cui la popolazione locale ha risposto.

Per riappropriarsi della propria memoria, per rispondere a questo appiattimento, la ricerca di Dela Cruz si focalizza sulla distruzione di una memoria ufficiale, tramite la riappropriazione di una memoria non-ufficiale e personale. Esplora le storie della sua famiglia, i coni d’ombra e le punte di luce che affliggono qualsiasi famiglia che viva condizioni sistemicamente oppressive. La sua pratica è però comunitaria, e ha come obiettivo quello di parlare allɜ direttɜ interessatɜ, di cui parla e con cui parla. “Sai, nella mia pratica la storia personale e quella familiare sono estremamente importanti, anche nella mia comprensione della mia storia in quanto Filippino.  Anche la mia educazione cinematografica è estremamente legata alla mia famiglia. Non sono andato alla scuola di cinema, perché i miei genitori volevano che trovassi un “lavoro serio”, un lavoro che potesse risolvere i nostri problemi. Un classico. Detto ciò, mio padre aveva un negozio di VHS. Non sapeva che avevo visto il mio primo film di Tarkovskij o Ozu grazie a lui. I miei film sono anche immensamente ispirati dalle donne della mia vita, in parte perché tutte le persone che mi hanno salvato sono tutte donne.”

La conversazione si infittisce, e il pubblico è sempre più risucchiato dai flussi di coscienza dellɜ speaker. All’arazzo di racconti personali intrecciati da Dela Cruz, Apostol e l’intervento video di Irma Tobias, aggiungono ornamenti di carattere politico. Perché il politico è personale, e viceversa.

Migrazione e Agency: Soggettività e Soggezione Nella Diaspora Filippina. SPAZIO GRIOT al Mattatoio, 25 giugno 2023, Roma. Courtesy SPAZIO GRIOT. Foto: Andrea Pizzalis

Irma Tobias e Gina Apostol hanno entrambe calcato gli spazi politici locali e internazionali, sia in Italia che nelle Filippine. Apostol ha esplorato gli spazi dell’Unione Sindacale di Base, realtà organizzativa molto frequentata da persone di origine filippina. Tobias è un’otrganizzatrice comunitaria e militante, ha calcato le scene politiche locali romane, dal 2004 al 2006 è stata la prima consigliera asiatica del comune di Roma e inoltre negli anni ’80 [del 900] ha co-fondato l’associazione Kampi, la prima associazione di lavoratori e lavoratrici migranti di origine filippina.”Trasferendomi a Roma, vedendo un’altra dimensione; questa è una città, non è una provincia, ho visto tutta questa gente, tuttɜ immigratɜ come me, che lavoravano dentro una casa dove non avevano nessun diritto. Nessun permesso di soggiorno. Lì abbiamo iniziato a discutere tra di noi, di quali sono i veri problemi per noi, perché siamo invisibili. (…) Noi Filippinɜ, lavoratorɜ sparsɜ nel mondo, siamo il prodotto della manodopera. Perché il governo non offre lavoro professionalizzante per permettere di rimanere nel nostro paese, elabora Tobias.

Si apre quindi una conversazione sull’esportazzione del lavoro e le politiche di genere locali (labour export and gendered politics), risultato delle sovrastrutture coloniali rimaste in piedi dopo il 1899, al quale si sono susseguiti dominazioni che hanno spinto verso la costruzione di una ‘cultura di migrazione’ dedita all’esportazione della forza lavoro. Eppure, il primo europeo che arrivò nelle Filippine, non potè che notare che “Tra le più grandi risorse di queste isole, vi era l’oro,” sottolinea Vilale.

Tale cacofonia e gioco di contrasti tra ricchezza e povertà, è ripresa nell’installazione video di Dela Cruz parte della performance Il Mio Filippino, che ripropone immagini archiviali frastagliate: scuole coloniali spagnole, piantagioni di zucchero, scuole di formazione per lavoratrici di cura. Immagini giustapposte alla performance, dinamica, im cui lɜ performer, navigano una varietà di stati di esaurimento e desiderio, fino a reclamare il proprio diritto al riposo. Aggiunge Apostol, laconica: “Quest’opera ritrae la tragedia e la complessità, del desiderio e del sogno di una vita migliore, in seguito a secoli di dominazione, intrappolato in un  meccanismo capitalista. È meraviglioso che tu [Liryc] sia riuscito a permettere allɜ performer di centrare se stessɜ, le proprie vite, i propri desideri e sogni, nel sistema di orrori del quale siamo tuttɜ parte, e spesso anche complici, ma contro il quale possiamo ribellarci.”

Sogno, desiderio, incubo,” ripete Kim per enfatizzare le parole chiave che racchiudono in sé le contraddizioni dell’esperienza migrante in un sistema capitalista. “Che ruolo ha la religione all’interno di questo meccanismo?”. Alla domanda di Vilale, Dela Cruz sottolinea come la religione esportata nelle colonie abbia avuto un ruolo importante nel legittimare la schiavitù, non a caso nelle Filippine, come in tante ex-colonie, la gran parte della popolazione ha un cognome spagnolo. “L’istituzione della Chiesa ha anche funto da pseudo-agenzia di collocamento che connetteva le lavoratrici di cura filippine con le famiglie di Roma. E non a caso a Roma c’è una delle comunità Filippine più grandi d’Europa.” Apostol apre un’ulteriore parentesi: “Appena sono arrivata a Roma, è nelle chiese di comunità che sono riuscità a riconnettermi con le comunità locale. Se si tratta di desiderio e agency, è interessante notare come la religione sia per queste donne anche uno spazio di autodeterminazione importante. La loro fede è parte integrante del loro modus di sopravvivenza e anche resistenza, anche questa è un’osservazione importante da fare”. E infine conclude, ponendo l’accento su un ulteriore dettaglio. “Moltɜ dellɜ collaboratorɜ per lɜ quali abbiamo curato questa mostra oggi non potevano esserci. È importante notare che è domenica, e che domenica per unǝ lavoratorǝ di cura è un giorno preziosissimo. È forse l’unico giorno in cui riescono a ritagliarsi poche ore per sé, per il proprio riposo, o per lo meno per sognarlo.

La conversazione si addolcisce, e dopo un lungo processo di autocoscienza, dolorosa ma incoraggiante, lɜ tre relatorɜ continuano a raccontarsi. Storie di madri, di zie e figlie. Di famiglie rotte e spezzate e poi ritrovate. Di scoperte di libri scritti da discendenti filippinɜ, che raccontano di parti di sé, e non solo.

Un atto di cura comunitaria, ed una rivendicazione del proprio diritto al riposo.

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Opero nel cinema, tra casting, sviluppo, ricerca archiviale e programmazione nell’ambiente festival. Il mio background è però legale, e mi ha permesso di sviluppare un metodo di analisi decoloniale che mi porto appresso nell'audiovisivo e nelle arti. Curo diverse piattaforme diasporiche, e per GRIOT sono una contributor.