Non Me La Racconti Giusta | La Street Art Finisce In Carcere

“Non me la racconti giusta!” Quante volte abbiamo pronunciato questa frase o l’abbiamo pensata? Un po’ seriamente, un po’ per gioco, di solito la usiamo perchè ne vogliamo sapere di più, perchè non crediamo a quanto ci viene detto.
Non me la racconti giusta è anche il nome del progetto di street art entrato nelle carceri di Ariano Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi per raccontarci e mostrarci cosa c’è dall’altra parte del muro.
Il carcere è una dimensione fisica e mentale che per abitudine teniamo ben lontano dai nostri pensieri, che non vogliamo conoscere, che associamo alla bruttezza dell’umanità. Eppure il magazine di arte e cultura contemporanea Ziguline, in collaborazione con gli artisti Collettivo Fx, Nemo’s e il fotografo e videomaker Antonio Sena hanno deciso di fare per noi quel salto che forse può aiutarci a capire la realtà e l’umanità che si nascondono dietro le sbarre, a capirne le potenzialità e i limiti.
Ho fatto quattro chiacchiere con Maria Caro, fondatrice di Ziguline, l’unica donna del team in mezzo a tanti uomini, “buoni e cattivi”.
GRIOT: Com’è nato il progetto?
Maria Caro: L’idea è nata perchè un amico stava facendo un corso di storia della musica presso il carcere di Ariano, così ho pensato di proporre un corso di disegno o comunque legato all’arte, sempre intesa come mezzo, e ne ho parlato con Collettivo Fx.
Qualche mese dopo, in seguito a varie coincidenze, abbiamo messo su il progetto coinvolgendo Nemo’s e Antonio Sena. Piano piano sono venute fuori diverse idee e soprattutto i contenuti che volevamo sviluppare, il nome e l’organizzazione materiale dei “laboratori” oltre al tentativo di rendere il progetto itinerante.
Ci abbiamo messo così tanto perché dovevamo passare tutti gli step burocratici, essendo le carceri legate al Ministero dell’Interno. Il problema è che tu presenti un progetto del genere ma loro non sanno come approcciarlo. Non sono abituati a questo tipo di attività. Poi però, una volta superata la prima fase, erano molto entusiasti di partire.
All’inizio avevo dei dubbi sul farlo perché pensavo che magari la realtà carceraria mi avrebbe spaventata. Più che spaventata, pensavo di non essere all’altezza della situazione. E invece è stato un progetto molto bello, nonostante la relazione umana sia stata molto complessa perché comunque mi sono confrontata con persone che hanno commesso dei crimini. Non mi sono mai sognata di chiedergli di che tipo. Forse per educazione, per tatto. Forse per timore.
Comunque lavorando con loro, a livello pratico, attraverso la street art, sono riuscita a entrare in confidenza. Sai, stai lì vicino al muro a sporcarti, a disegnare. Cominci a confrontarti, a scoprire il loro lato umano, -“Io questo non lo so fare, non so disegnare.”
Si tratta di un progetto complesso, non messo in piedi così, alla buona. In alcuni momenti devi essere sia un po’ rigido, per evitare che la situazione ti sfugga di mano, e in altri più morbido.
Non ti sentivi a disagio?
No. A parte un paio di persone che erano un po’ attratte per il fatto che fossi donna, no. Erano tutti molto educati. Era come se avessero una certa riverenza.
I carcerati coinvolti erano di diverse nazionalità? Come hanno risposto al progetto?
Nel carcere di Sant’Angelo erano tutti napoletani mentre in quello di Ariano, che è stata la prima tappa di questo progetto, abbiamo incontrato tre ucraini. Ti confesso che sono quelli che hanno preso il massimo da questo progetto.
All’inizio erano molto chiusi, timidi, ma piano piano si sono rivelati quelli più attivi. Si sono impegnati più di tutti gli altri. Per esempio uno di loro si era preso a cuore il compito di dipingere con l’asta di 3 metri – che è un lavoro molto faticoso, – e non riuscivamo più a staccarlo per quanto gli piaceva.
Poi c’era quest’altro ragazzo, Jimmy. Era partito dicendo di non sapere disegnare e invece riproduceva alla perfezione i disegni che noi gli davamo, lasciandoci molto impressionati perché alla fine disegnava quello che voleva, senza necessariamente copiare i bozzetti che avevamo stampato. Era inarrestabile. Infatti abbiamo consigliato all’educatrice di iscriverlo al liceo artistico.
Anche Alexander, tipo un po’ burbero inizialmente, si è rivelato un buon disegnatore. Sono stati quelli che si sono impegnati di più.
Durante il tempo trascorso con loro pensavo chi di loro avrebbe avuto la possibilità, una volta fuori, di recuperare la propria vita. Anche perché non sanno quello che faranno. Se tornare in Ucraina o restare qui.
Penso sia difficile, una volta usciti dal carcere, riuscire a rimettersi nella giusta carreggiata. Non tanto perché non vuoi ma perché la società, giustamente o non giustamente, alza delle barriere.
Sì sì, e infatti tutto il discorso è improntato su questa cosa qua. Ora il carcerato ha poche risorse all’interno del carcere che gli permettono di costruirsi una vita. Non solo lavorative – imparare un mestiere – ma anche culturali.
Alla fine sta lì dentro senza fare niente perché in molte carceri non viene offerto niente di tutto ciò. C’è il liceo artistico all’interno perché credo sia obbligatorio che nelle carceri siano presenti le scuole – anche se i detenuti non sono obbligati a frequentarle.
In quello di Ariano per esempio c’è poco e niente e i corsi sono sempre saltuari e soprattutto, per quanti corsi tu possa fare, non puoi coinvolgere tutti. Noi per esempio abbiamo lavorato con 7 detenuti.
Come vengono selezionati? In base alla buona condotta?
Sì, in base alla buona condotta e su segnalazione degli psicologi e degli educatori che ci segnalano chi ha bisogno di fare un’attività di quel tipo. È un privilegio per chi viene scelto.
Vero. Anche perché chi partecipa si isola dall’isolamento.
Sì e per assurdo anche per chi non vuole fare niente è importante respirare aria nuova. Loro sono sempre nel cortile, mangiano nelle lore celle. Mi hanno detto – “qui non è come nei film americani,” anche se hanno la possibilità di cucinarsi da soli.
La cosa che mi faceva più impressione è quando vedevo persone anziane. Ovviamente nel cervello mi scattava subito la domanda ‘Ma questo da quanto sta qua?’.
Perché la street art?
Questo punto è importante. Non volevamo fare solo un progetto di street art, disegnare qualche muro all’interno di un carcere. Volevamo dargli dei contenuti più sostanziosi. E quindi abbiamo usato la street art come mezzo per parlare di un’altra cosa.
Io stessa fino a un anno fa non sapevo cosa fosse un carcere, non avevo mai visto l’interno di un carcere. La street art ci ha permesso di aprire una finestra su un mondo che fa parte del nostro mondo, di farlo vedere alla gente, alle società, questo buco grigio in cui ci sono persone cattive che devono scontare le loro pene e soffrire per quello che hanno fatto. La cosa è, “Ehi gente, qui ci sono delle persone che stanno pagando per i loro errori.”
Entrarci ti porta a interrogarti su un sacco di cose, su una marea di preconcetti e ti porta anche a domandarti, ‘Perché questo deve stare là a non fare niente? Perché mettere in piedi un sistema punitivo che non (ri)educa?’ Alcuni detenuti ti confessano che entrano, che so, per una rapina, ed escono che sanno fare molto di più.
Quindi secondo te il carcere non è un sistema correttivo?
Guarda, la mia esperienza è troppo parziale per dirti che non è un sistema correttivo, però per come è stato concepito e per quel che riguarda le carceri che ho conosciuto ti ritrovi i detenuti che passano il loro tempo a non fare niente di utile né per se stessi né per gli altri. Certo, c’è chi si iscrive a scuola e studia, ma quelli che lavorano sono pochi. Magari in un carcere di 250 persone ne lavarono 50. E gli altri?
La cosa bella è che da questo progetto è uscito il potenziale di quattro detenuti che da “Io non so disegnare,” sono stati gli ultimi a togliere il pennello dal muro. A livello umano è stata un’esperienza molto forte. Comunque stai a contatto con delle persone che hanno commesso crimini, anche a danno tuo, della società, però ho provato ad andare oltre. È qualcosa che sto cercando ancora di capire.
Prossime tappe?
A Firenze il carcere di Sollicciano. Qui c’è anche la sezione femminile ma non sappiamo con chi lavoreremo. In Campania siamo in contatto con un’associazione che lavora nel carcere di Secondigliano. Stiamo parlando anche con il carcere di Palermo, che è minorile, e ci è arrivata una proposta da un’associazione per portare il progetto in un carcere del Nord Italia. Ci piacerebbe poi ampliarlo. Dalla parte pratica, la produzione di muri all’interno delle carceri, alla realizzazione di talk, libri fotografici, mostre.
Ora stiamo ragionando come finanziare le prossime tappe perché fino adesso abbiamo fatto tutto da noi. Speriamo di trovare degli sponsor che credano in questo progetto.
“Non me la racconti giusta” è stato permesso grazie alla disponibilità del direttore Gianfranco Marcello, di tutta la direzione e degli assistenti della Casa circondariale di Ariano Irpino, del direttore Massimiliano Forgione, della direzione e degli assistenti della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi e infine del Ministero della Giustizia. Il progetto non sarebbe stato possibile senza il sostengo degli sponsor tecnici, Eternal Brico e Airlite e dei sostenitori: Damedia, Associazione D.n.a., Pignata in Bellavista e Lamerì PubArt.
Tutte le immagini | Foto di Antonio Sena // Per gentile concessione di Ziguline
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Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.