Come La Pionera N’Goné Fall Ha Imparato A Curare Partendo Da Zero
La curatrice senegalese riflette sul suo lungo viaggio come donna Nera pioniera nell'arte contemporanea africana e nella curatela, nonché sulle mostre del suo cuore.

Nata a Dakar, Senegal, nel 1967, N’Goné Fall è una curatrice africana, pioniera nel mondo dell’arte, sin dagli anni ’90, quando al tempo erano pochissime le voci di donne Nere sul campo. Ha studiato prima grafica all’Ecole supérieure d’arts graphiques (ESAG) di Parigi, laureandosi nel 1986, e poi architettura all’École Spéciale d’Architecture, dove nel 1993 ha presentato la sua tesi su un nuovo centro immaginato per l’arte e la cultura Nera in Senegal.
Mentre lavorava come architetta, ha scoperto Revue Noire e si è abbonata alla pionieristica rivista che dal 1991 al 2001 ha promosso l’arte contemporanea africana dal continente e dalla diaspora. Dal 1994 cominciò a lavorare con il team di Revue Noire, finendo per assumere il ruolo di editrice (con grande delusione del suo professore di architettura e della sua famiglia).
Il suo progetto di legacy, prima di lasciare la casa editrice specializzata, è stata l’importante pubblicazione di An Anthology of African Art – The Twentieth Century (2001), co-curata con Jean Loup Pivin e Pascal Martin Saint Leon, e ha fornito una panoramica dell’arte africana di questo periodo.
Successivamente Fall è diventata consulente per le politiche culturali, ha insegnato alla Senghor University di Alessandria d’Egitto, alla Abdou Moumouni University in Niger, e per un breve periodo all’Università di Cape Town; ha anche lavorato con la Fondazione Nubuke in Ghana.
Attualmente è commissaria generale di Africa2020 Season, iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron. Il progetto di 10 mesi, incentrato sull’innovazione nelle arti, nelle scienze e nell’imprenditorialità in tutta la Francia, è dedicato all’intero continente africano.
“Quando ho accettato di essere la pilota di questo progetto, come prerequisito mi ero posta di lavorare con gli/le africanз del continente, per evitare di finire a ritrovarci in una situazione che definisco assurda, in cui abbiamo operatori/operatrici francesз che fanno la spesa al supermercato online, o che chiedono di pagar loro le spese di viaggio per andare a scoprire cosa sta succedendo nel continente [africano]. Sappiamo cosa sta succedendo nel continente, quindi risparmiamo tempo e arriviamo al punto,” ha dichiarato al canale radiofonico pubblico francese France Culture, riassumendo la sua idea di selezionare le/gli africanз per guidare i progetti africani.
Una mostra in particolare, When Things Fall Apart: Critical Voices on the Radars, che ha curato al Trapholt Museum in Danimarca nel 2016, è stata degna di nota in quanto ha utilizzato un romanzo africano come ispirazione per una mostra sull’arte contemporanea del Sud globale.

Riason Naidoo: Come ha inziato a curare?
N’Goné Fall: Lavoravo con Revue Noire. Ci occupavamo di pubblicazione, ma stavamo anche imparando e condividendo quelle scoperte. Per noi è stato un passaggio ovvio dopo il lavoro di pubblicazione. E avendo tuttз questз artiste/aritisti nella rivista, ci siamo dettз che potevamo fare di più. Nel 1996 siamo statз partner della Biennale di Dakar, e abbiamo deciso di fare contemporaneamente una mostra, che era il numero della rivista sulle/sugli artiste/aritsti africanз e sull’AIDS [pubblicato nel 1995]. Abbiamo realizzato una mostra multimediale che abbiamo presentato nell’OFF [il programma non ufficiale] della Biennale di Dakar. È così che ho iniziato.
Siamo statз anche alla Biennale di Fotografia di Bamako, iniziata l’anno prima, nel 1994, con una mostra di fotografe/fotografi africanз. Quindi abbiamo imparato a curare da zero. La cosa veramente interessante della curatela era che ti rivolgevi a un pubblico che poteva non leggere una rivista. Non trovavo interessanti le mostre che si svolgevano a Parigi negli anni ’90.
Ho iniziato a prestare attenzione ai paesi anglofoni, guardando cosa stava succedendo a Londra e negli Stati Uniti. A quel tempo, i/le curatorз stavano iniziando ad essere delle star: persone come Hans Ulrich Obrist stavano emergendo. Questi discorsi erano così diversi da quello che facevano e dicevano i/le curatorз dei musei in Francia. Ecco! Mi sono connessa con ciò che stavano facendo questз curatori/curatrici.
Ogni volta che viaggiavo fuori dalla Francia visitavo mostre. La mia formazione alla scuola di architettura mi ha aiutato perché l’enfasi era sulla creatività e sul concetto. Quindi con la curatela ho imparato che sul lavoro, come in ogni cosa, più fai meglio diventi.
Quando ero un’adolescente a Dakar, vivevo nello stesso quartiere del [collettivo artistico] Laboratoire Agit’Art, nel centro di Dakar. Ero in quello stesso ambiente culturale senza essere consapevole dell’impatto che avevano artistз, registз, poetз, ecc. intorno a me. Ho pensato che fosse del tutto normale essere circondata da persone creative. Solo quando diventai più grande mi resi conto di essere stata molto, molto fortunata. Penso che tutti questi fattori, dove cresci, le persone che ti circondano e influenzano, contribuiscano a ciò che sei oggi. È stato allora che ho capito che la curatela è qualcosa di impatto, potente e che amo fare.

Quali sono state alcune delle altre mostre in cui sei stata coinvolta con Revue Noire?
La prima è stata la Biennale di Fotografia di Bamako (1994), poi la pubblicazione Anthology of African and Indian Ocean Photography (1998), che è stata abbinata a un secolo di fotografie africane–400 fotografie,–presentata per la prima volta a Parigi alla Maison Européenne de la Photographie.
Divenne una mostra itinerante. Girò a Berlino, Londra, New York, Washington DC, Bologna, San Paolo, Bamako e Cape Town. È così che sono atterrata per la prima volta a Cape Town. Era il dicembre 1998, e la mostra fu presentata alla South African National Gallery.
E i progetti curatoriali a cui tieni di più?
Sono due i progetti che mi stanno a cuore, per ragioni diverse. Il primo si chiama Contact Zone (2007). Samuel Sidibe, direttore del Musée National du Mali, mi commissionò una mostra per inaugurare il nuovo edificio per le mostre contemporanee. Riflettei sul fatto che persone come me non avessero infrastrutture nel nostro continente—il nostro lavoro principalmente si trovava in Occidente— e improvvisamente mi trovavo di fronte a un’opportunità, in questo edificio di 700 metri quadri. In Africa.
Dovevo condividerla con le/i mieз colleghз. Chiamai la mia partner in crime, Bisi Silva, che era tornata a Lagos. Il nostro incontro era ovvio. Ero un francofona del West Africa che viveva a Parigi; e lei era un’africana occidentale, di lingua inglese, basata a Londra. Ci siamo incontrate alla fine degli anni ’90 e ci promettemmo che ci saremmo prese cura l’una dell’altra, e che saremmo state le migliori e più toste del mondo, che avremmo combattuto tutte le battaglie possibili insieme, e che avremmo iniziato a fare da mentori ai giovani.
Invitai anche Rachida Triki dalla Tunisia a lavorare con me. Noi tre insieme facemmo impazzire Samuel. Ho gestito il processo del catalogo—curato, disegnato e stampato a Dakar—e consegnato a Bamako. Bisi ed io parlavamo sempre di fare più progetti insieme, ma a posteriori è stato l’unico che siamo riuscite a fare.
L’altro progetto a cui tengo è When Things Fall Apart: Critical Voices on the Radar, perché in quella mostra sollevò delle questioni. Ho iniziato a lavorarci nel 2015. La Brexit era un tema scottante in Europa; c’era un’altra ondata di xenofobia in Sudafrica; negli Stati Uniti c’era la campagna per le presidenziali con Hillary Clinton e Donald Trump, e dentro di me sentivo che il mondo stava crollando.
Ero in contatto con Pascale Marthine Tayou, che in quel periodo stava lavorando a una mostra personale alla Serpentine Gallery, e mi chiese di scrivere un saggio per il suo catalogo. Gli suggerii di fare una chiacchierata, dato che ci conoscevamo dal 1994, e lui aveva partecipato alla mostra che curai a Dakar nel 1996. Ero stata da lui, ecc. Sono cose che risalgono a molto tempo fa.Gli stavo raccontando della commissione per una mostra in Danimarca e che stavo pensando al titolo Things Fall Apart, di Chinua Achebe.
Da ragazzina, in Senegal, leggevamo questi libri a scuola, tutti scrittori africani tradotti in francese. Era il tempo del [presidente Léopold Sédar] Senghor. Pascale si mise a ridere e mi disse che aveva appena realizzato un’enorme installazione che si chiamava Things Fall Apart—lunga 10 metri—e me la propose per la mostra, se lo desideravo.

Volevo anche visitare il sud est asiatico per collaborare con alcunз artisti del Vietnam e dell’Indonesia, e altri artistз dell’America Centrale, Palestina e Africa. Ho curato quella mostra come se stessi scrivendo un romanzo: la prima parte sui diritti umani, e l’ultima parte che termina con una nota più positiva sull’empatia.
C’erano artiste/artisti con cui volevo lavorare da molto tempo, artistз che mi ispiravano. C’erano una varietà di opere nella mostra, alcune molto dirette e altre più sottili. La mostra è durata nove mesi e abbiamo organizzato dei club di lettura, dove le persone leggevano il romanzo in danese e venivano al museo per discutere. In realtà, abbiamo invitato i/le danesз a leggere un romanzo classico africano e abbiamo chiesto loro di applicarlo al loro contesto.
Il testo del tuo catalogo può essere interpretato come una visione abbastanza pessimistica del mondo?
Un po’ drammatico? Questa era il mio pensiero nel 2015-2016. Ma finisce con l’empatia, quindi più positivamente, per dire che c’è una via d’uscita. Amo scrivere e per me non c’è frontiera tra la curatela e la scrittura. Sono stato davvero fortunata con questo progetto, ad avere il lusso di quasi due anni per approfondire le questioni e poi uscire con il mio libro.
Nel tuo testo dici che il tragico destino di Okonkwo nel romanzo di Achebe è che non è in grado di adattarsi ai cambiamenti in atto nella società. Questa interpretazione non potrebbe anche essere rispettivamente la differenza tra assimilazione e autogoverno nelle colonie francesi e inglesi?
Penso che ci siano diversi modi per rispondere. Hai diversi modi per resistere. Dipende da qual è la tua metodologia, qual è la tua strategia? Essere una curatrice senegalese africana, invitata a fare un progetto in una piccola città in Danimarca, dove la gente non sapeva nemmeno che esistessero curatrici/curatori dell’Africa Nera in Africa: era questa la mia motivazione. Quando arrivai lì, si è visto che mi stavano dando un’opportunità, ma in realtà li/le ho istruitз sull’Africa. Quindi è questo che intendo quando dico strategia. Sapevo che il destino di Okonkwo sarebbe finito male; era troppo rigido. Sai, quando ero con Revue Noire, la gente diceva che non c’era arte contemporanea in Africa. E ora le stesse persone vogliono dirmi chi è Pascale Marthine Tayou e chi è Barthélémy Toguo.

Hai lavorato esclusivamente con artiste/artisti socialmente impegnatз del Sud globale. Qual era la logica dietro questo?
Questз artiste/artisti rappresentano qualcosa. In Senegal ci siamo sentite/sentiti un po’ disconnessз dalle lotte di altrз africane/africani in Angola, Sud Africa, eccetera. Mio padre si stava preparando per un Senegal indipendente, quindi parlavamo sempre di politica. Avevamo una consapevolezza, che è nel DNA della mia famiglia.
Rimasi impressionata da un’artista come Tiffany Chung, dal Vietnam, che combina il poetico con il drammatico e ha un concetto forte insieme alla parte visiva. È vero che ero attratta daglз artiste/artisti che si occupavano di questioni sociali, politiche ed economiche, perché ci sono così tante questioni che dobbiamo affrontare nel continente [africano].
Cosa ti ha spinto ad andare oltre l’arte africana contemporanea in questa mostra?
Perché c’era l’opportunità. In generale, quando sei una curatrice/curatore africanə, le persone ti chiamano solo per fare una mostra d’arte africana. È così che funzionava nei primi anni ’90 e 2000. Non sono sicuro che sia cambiato. In Danimarca ho avuto carta bianca. La mostra faceva parte di un festival chiamato “Artists in Society”, che è molto ampio. È stata un’opportunità per lavorare con questз diversз artiste/artisti, che alla fine ho incluso nella mostra. Ho allargato la mia famiglia africana alla famiglia del Sud globale. L’altro fatto interessante è che il romanzo di Chinua Achebe, Things Fall Apart, è stato tradotto in più di 50 lingue. Quindi, quando ho contattato i/le vietnamiti, mi hanno detto che era l’unico romanzo africano che avessero mai letto perché era l’unico disponibile in Vietnam. Così tuttз lз artiste/artisti dei diversi paesi del mondo hanno letto il romanzo per questa mostra.

When Things Fall Apart rappresenta una risposta africana alla mostra The Divine Comedy – Heaven, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists curata da Simon Njami nel 2014? C’è qualche relazione tra loro?
Non c’è assolutamente alcuna relazione. Quando penso a una mostra, non penso a quello che fanno o non fanno le/gli altrз curatorз. Riguarda più ciò che ho in mente in quel momento, ciò a cui sto pensando. La mia conversazione con Tayou è stata la conferma che il romanzo sarebbe stato il punto di ingresso.
Me lo chiedevo solo perché so che Njami è stato criticato per essere troppo eurocentrico nel suo riferimento alla mostra The Divine Comedy.
Sono cresciuta a Dakar e il 90% del mio tempo l’ho passato per le strade di Dakar a parlare wolof. Sono diventata occidentale quando sono venuta a fare i miei studi a Parigi, a metà degli anni ’80. Anche alla Revue Noire sono stata mandata in paesi in cui nessuno voleva andare. L’Eritrea era ancora in guerra, l’Angola stava appena uscendo dalla guerra. Quando sei giovane, non pensi al pericolo. È solo in retrospettiva che ti rendi conto dei rischi che hai corso. Non mi considero mai parte della diaspora africana. Sono una senegalese. A volte risiedo in Europa, a volte nel continente [africano], a volte risiedo in Corea del Sud per tre mesi.
È vero che le mie referenze sono africane. È estremamente importante per me condividere quell’esperienza africana, la conoscenza africana con il resto del mondo. Il mio ruolo come curatrice e autrice è dare accesso a quella conoscenza, in modo che mentre curo e scrivo tu possa imparare dall’esperienza africana. Quindi l’eurocentrismo è l’ultima cosa di cui puoi accusarmi.
Sono cresciuta in una mentalità panafricana nella mia famiglia e credo fortemente nel potere delle culture africane. Posso anche essere molto parigina, molto newyorkese, molto brussellese. Mi adatto. A differenza di Okonkwo, ti adatti al tuo contesto, ma non dimentichi mai chi sei.
Questa intervista è apparsa originariamente su New Frame. E stata modificata per questioni di lunghezza e chiarezza dall’autore.
– Riason Naidoo
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