
Passato il successo globale del singolo 7 Seconds, insieme a Youssou N’Dour, Neneh Cherry non ha mai più ricevuto i riconoscimenti che avrebbe meritato. Se, da un lato, le sue doti di artista ricercata e la sua voce raffinata l’hanno trasformata in icona della controcultura pop, dall’altro è rimasta un’artista poco nota al grande pubblico.
Dopo l’uscita estiva del singolo Kong, che rompeva un silenzio di quattro anni, Neneh Cherry è finalmente tornata con un nuovo album, intitolato Broken Politics, prodotto interamente da Kieran Hebden aka Four Tet, altro nome di riferimento della scena elettronica alternativa con il quale la cantante svedese aveva già collaborato per il precedente Blank Project (2014).
L’intimità di quel disco così introspettivo, per molti versi difficile, che svelava tutte le fragilità di un’artista alla continua ricerca di se stessa, trova una prospettiva più ampia in questo nuovo lavoro, che invece affronta temi di ampia portata politica e sociale. Rifugiati, aborto e diritti delle donne, violenza e armi da fuoco, sono solo alcuni degli argomenti trattati da Neneh Cherry, capace di porsi—e di porre a tutti noi—delle domande scomode con estrema delicatezza e grande forza allo stesso tempo.

Diretta, ma senza mai cedere allo sfogo gratuito, l’artista si chiede quale sia il modo giusto di condurre la propria esistenza in quest’epoca schizofrenica. Come possiamo conservare la nostra personalità e un certo grado di lucidità, se il rumore di fondo copre tutti i segnali che varrebbe la pena captare? Come possiamo percepire il dolore altrui e provare empatia per il prossimo, se siamo troppo impegnati a urlarci addosso?
Broken Politics cerca risposte a questi interrogativi, con pazienza e grazia, ma anche senza timore di riconoscere che alcune domande sono destinate a rimanere senza risposta. È un album dalle emozioni mutevoli, che passa dalla rabbia alla malinconia, dalla riflessione all’incoraggiamento, sostenuto da un universo sonoro ampio e ricco di sfumature, che genera energia dalla propria singolarità e trasmette un messaggio potente.
L’utilizzo di strumentazione acustica e basi elettroniche di diversa ispirazione crea il supporto perfetto per le parole cantante, sussurrate o gridate da Neneh Cherry, che a volte arrivano come frammenti di un discorso sospeso, altre volte come commenti densi di saggezza o addirittura considerazioni tristi. Il confine tra malinconica speranza o desolata consapevolezza è labile, attraversarlo è facile e persino necessario, per riconoscere il dovere di fare qualcosa.
Come in Kong, una dedica emozionante ai rifugiati di Calais che riporta l’artista alle basse frequenze delle sue origini dub, anche nel secondo singolo, Shot Gun Shack, il personale sconfina nel politico, esplorando il legame tra violenza e privazione attraverso il tema della sempre più diffusa violenza armata. Tra l’altro, il titolo del brano viene dal ricordo confuso di una conversazione avuta al funerale del grande jazzista Ornette Coleman, che ritorna in un campione del 1969 insieme al padre adottivo Don Cherry nell’atmosfera rave di Natural Skin Deep. Proprio qui sentiamo una sorta di confessione, la rivelazione di un senso di inadeguatezza o spaesamento nei confronti della società attuale: “Cause I have an allergy to my realness / Like I’m, oh, so weak. / Don’t have anywhere to go / Nowhere to hide / All of me is now”.

Fin dall’apertura con Fallen Leaves, Neneh Cherry si rivolge a quel sentimento di empatia che sembra oggi merce rara e preziosa: “Just because I’m down, don’t step all over me”. Traccia dopo traccia Broken Politics fa i conti con la deriva negativa di un mondo ormai guasto, ma, invece di cedere alla rassegnazione, si appella a quel briciolo di buon senso e di umanità rimasti—speriamo—in molti di noi.
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Sono una persona molto eclettica con un’ossessione per la musica e la sociologia. Nata e cresciuta in Italia, Londra è diventata la mia casa. Qui creo beat, ballo, canto, suono, scrivo, cucino e insegno in una scuola internazionale.