Mosè Cov | Dalla Periferia Milanese In Cerca Di Rivalsa

È un pomeriggio di maggio, ma a Milano non sembra affatto primavera. Il cielo grigio incombe sulla circonvallazione esterna, mentre cammino velocemente per raggiungere lo studio nel quale lavora Mosè Cov insieme al team di produttori 47Milano. Mussie Tesfay – questo il vero nome del rapper milanese di origine eritrea – mi riserva un’accoglienza speciale, facendomi ascoltare in anteprima il nuovo singolo, Fuga per la gloria, interpretato insieme a Young Rame.
GRIOT: Anche in questo brano è molto forte l’idea delle origini, della provenienza. Non manchi di sottolineare che sei nato e cresciuto a Maciachini, periferia nord di Milano. Per te resta un tema fondamentale?
Mosè Cov: Per me conta tanto. L’idea delle radici è fondamentale, ma vorrei uscire dal significato più banale che questa rappresenta. Anche la scelta di fare il pezzo nuovo con Rame, sottolineando le nostre provenienze da Maciachini e Barona, nasce dall’intenzione di sottolineare il concetto di radici nel senso più autentico del termine. Purtroppo, oggi, molti artisti della scena rap hanno contribuito a creare uno stereotipo, lo standard di un personaggio che interpretano a memoria, ma senza verità. Il ruolo lo hanno imparato alla perfezione, sono bravissimi a dire “io vengo da là, io vengo da qua”, sì, ma da dove? In fondo non dicono mai da dove arrivano veramente, non sono in grado di indicare davvero dei luoghi di riferimento. Non c’è più l’idea di appartenenza a un quartiere, a una strada, a luoghi precisi della geografia reale di una città. Si capisce anche dai testi, sono sempre generici, non solo per l’esigenza di semplificare e raggiungere un pubblico più ampio, ma anche per la mancanza di consapevolezza.
Mi rendo conto che fra i nuovi rapper apprezzo soltanto quelli che conosco bene, perché posso verificare che quello che raccontano nei testi e la loro vita coincidono almeno in parte, salvo adattamenti. È bello rappresentare, ma è bello anche sentirsi rappresentati, perciò penso che sia importante raccontare ciò che si è realmente, soprattutto se si è riusciti a raggiungere una certa fama.
La sigla COV, che accompagna il tuo nome, indica un collettivo.
Sì, il collettivo COV è nato nel 2003 al di fuori della musica e del rap, intorno alla passione per il calcio e lo stadio: mio fratello e altri ragazzi più grandi di me avevano sentito l’esigenza di affermare un’identità, un’appartenenza ai tre quartieri di Bovisa, Niguarda e Maciachini. Fecero una maglietta, innanzitutto, ancora prima che esplodesse la moda delle t-shirt con i nomi dei quartieri. Poi molti si tatuarono la sigla COV, come me. Non voglio fare il nostalgico, ma la vita nella grande compagnia degli anni Novanta aveva un significato particolare, ci si sentiva forti e uniti, grandi e piccoli stavano insieme, ci si incontrava tutti di persona nelle piazze.
Il fatto che io voglia sottolineare in ogni pezzo da dove vengo, è alla base di quello che sono, non è una posa, ma spiega anche dove sto andando. Ho fatto una gavetta lunghissima, è stato un percorso pieno di sacrifici in termini economici e di tempo, con la consapevolezza che dal punto dal quale sono partito io, nessuno ce l’ha ancora fatta. Non ho visto nessuno iniziare un progetto e poi terminare con successo, nemmeno nella musica. All’inizio nella mia crew eravamo circa quindici persone, tra rapper, musicisti e produttori, poi sono subentrate altre priorità, come la famiglia, la necessità di un lavoro stabile, la regolarità. Ora sono rimasto l’ultimo, una sorta di highlander.
Vorresti essere tu l’esempio positivo, il modello che è mancato finora?
Ci provo ormai da 10 anni, so che mi sto caricando di una grande responsabilità, ma già adesso, quando i ragazzi del quartiere mi fermano per strada e mi ringraziano, o si vantano di me con gli amici, mi emoziono tantissimo. Le mamme, che mi prendono come esempio per i figli, mi rendono fiero.
Abito ancora a Maciachini, sono molto legato a tutte le persone che ci vivono, anche se non voglio restare lì per sempre, anzi. La cosa assurda è che chi abita nel quartiere, se ne vuole andare altrove, mentre gli altri, seguendo la moda del momento, ci vogliono entrare a tutti i costi. Tutti che vogliono fare foto e video in quartiere, con la gente del quartiere… Ma perché queste persone dovrebbero mostrare la propria casa e la propria vita in un video o in un servizio fotografico? Nessuno pensa mai che potrebbero sentirsi violate in qualche modo.
Dai palazzoni di Maciachini sei arrivato alla Warner, una major discografica. Sei riuscito a trasmettere il tuo punto di vista?
Il mio percorso è stato piuttosto strano, sono arrivato alla casa discografica con 90 ascolti su Spotify e 20mila visualizzazioni di media su YouTube: non mi hanno preso di certo con l’intenzione di fare subito il botto con me. Mi hanno semplicemente detto che avevano ascoltato le mie cose e le avevano trovate fortissime, perciò non c’era nessun motivo per non scommettere su di me. La cosa ancora più strana è che nello stesso momento mi avevano chiamato tante altre etichette, major e indipendenti, e ancora non ho capito bene come sia successo. Ma finalmente ho la possibilità di fare le cose come si deve, è una questione di fondi ma anche di metodo di lavoro e di professionalità. La grande casa discografica ti inserisce in un meccanismo che obbliga anche te a essere professionale, con la consapevolezza che hai una carta da giocare, una sola, e non la vuoi sbagliare. E capisci che sei in gara: prima eri nella tua stanzetta o nel garage, ora sei al tavolo che conta.
So che hai una passato nel crossover. Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
Anni fa le band erano più numerose, ma non c’erano rivalità, ci si supportava a vicenda a prescindere dal genere musicale e si andava ai rispettivi concerti. Uno dei miei migliori amici suonava in un gruppo crossover e una volta capitò a un suo concerto che mancasse uno strumento: la band aveva bisogno di guadagnare tempo prima di cominciare a suonare, così mi chiesero di salire sul palco e fare un po’ di freestyle per intrattenere il pubblico, che nel frattempo era preso benissimo dalla mia esibizione estemporanea. La sera dopo mi chiamarono, dicendomi che la band si era sciolta ma volevano formarne un’altra con me. “Diventiamo i Limp Bizkit!”. All’epoca mi piacevano tantissimo, così come Linkin Park e i Rage Against The Machine. La mia storia con la band è durata cinque anni ed è stata una palestra fondamentale, con loro ho imparato a fare i live.
Che cosa svela di te la tua musica?
Parlo soprattutto della mia famiglia. Nelle mie canzoni racconto il percorso di mia madre e dei miei due fratelli più grandi, io sono il più piccolo di tre figli e ho visto le loro difficoltà. Mia madre è sempre al centro, nonostante la normale conflittualità tra madre e figlio. È una donna molto religiosa, ma allo stesso tempo è più gangsta di 50Cent. È scappata dalla guerra in Eritrea, raggiungendo l’Italia a 13 anni. Mi ha insegnato che non sempre i risultati arrivano subito, ma bisogna avere coraggio, il coraggio di andare avanti e di aspettare. La mia testa dura l’ho presa da mia mamma. Ho visto chiudersi tante porte davanti a me per motivi non sempre inerenti alla musica, soprattutto quando il tema dell’integrazione non era così popolare, eppure ho avuto la forza di continuare. Da ragazzino ascoltavo tantissimo rap italiano, mi piaceva tantissimo, però mi chiedevo come mai, per esempio in confronto alla scena francese, non ci fosse nemmeno un rapper di origine straniera. Non dico nero, ma nemmeno cinese o sudamericano. Probabilmente nella mia musica si sente anche quella paura che avevo i primi anni, la paura di non farcela non perché quello che stavo facendo non fosse valido, ma perché avevo le mani legate da altri motivi, non dipendenti da me, fuori dal mio controllo. Sì, nei miei pezzi si sente la voglia di rivalsa sociale, si sentono le mie paure, ma allo stesso tempo chiudo sempre con un lieto fine, un po’ come nelle fiabe.
Guardando alla società di oggi, pensi che alcuni conflitti siano più accentuati rispetto al passato? Come vedi questo clima di abbruttimento generale, questo razzismo strisciante?
Credo che sia un discorso legato alla pancia delle persone e alla velocità della comunicazione. Perché le Stories di Instagram funzionano? Perché hai solo 24 ore per farti vedere e vedere le storie degli altri, tutto è velocissimo. In musica è lo stesso, escono singoli continuamente, tutto deve essere breve, veloce e di impatto, non importa che sia vero o falso, giusto o sbagliato, deve soltanto colpire la pancia delle persone. Per questo le fake news hanno tanta influenza, non c’è tempo di verificare, perché il flusso è velocissimo. Tutti sono condizionati dai social e riportano il mondo virtuale nella vita reale, creando una situazione paradossale. Non penso che l’Italia si sia svegliata razzista da un giorno all’altro, non erano tutti razzisti prima e non sono tutti razzisti adesso, è solo che si fanno guidare dalla pancia.
Vorrei parlare di una questione che mi sta molto a cuore, ovvero come si parla della donna nelle canzoni rap. Perché ci si riferisce alla donna sempre in modo volgare e violento?
Il rap usa un linguaggio di strada. Non nasce nelle biblioteche. Nasce nella strada e parla alle persone che vivono nella strada nella loro lingua. Lo stesso rapper può usare un termine offensivo verso le donne e poi scrivere una canzone d’amore, nella quale venera la donna come una dea. In fondo il rap nasce per andare contro un sistema, per denunciare una condizione, per creare una rottura. Se fa incazzare qualcuno, tanto meglio. Non è che condivida in pieno l’uso di un certo linguaggio nei confronti delle donne o delle minoranze, ma capisco da dove viene. Poi, aprendo una questione sociale molto più ampia e difficile da risolvere, il problema è culturale, sta in una cultura patriarcale e fin troppo religiosa, che condanna la donna a un certo ruolo. Purtroppo la controparte femminile non è molto rappresentata nel rap, ma prima o poi arriveranno anche le ragazze a prendersi la loro fetta e ci sarà maggiore rappresentanza per tutte e tutti.
Come nascono i tuoi pezzi?
Sicuramente devo essere ispirato, non sono uno che scrive tutti i giorni. Passano anche mesi senza che scriva una riga, mentre raccolgo le idee. Di solito comincio a buttare giù delle rime senza tanto significato, finché non arriva la parola giusta, la chiave attorno alla quale mi rendo conto di voler costruire la canzone. Dato che sono anche beatmaker, non è detto che le parole vengano prima del beat o della base. Faccio tanta musica e ne butto via altrettanta, finché non sento di aver trovato quella chiave e so che sto per aprire una porta e dietro c’è una bella canzone. Può essere una frase, un beat, un suono, una melodia. Una cosa piccola, una briciola, che poi diventa grande.
Mosè COV e la crew 47Milano, fatta di produttori provenienti dalla scena elettronica, stanno lavorando alla realizzazione del primo album del rapper. Com’è stato finora, il progetto musicale prevede la contaminazione fra generi e sonorità diverse fra loro, mescolati in una ricetta originale e fresca, capace di raggiungere un pubblico trasversale. Nel frattempo, continueranno a uscire nuovi singoli: con i piedi a Maciachini, periferia nord di Milano, e la testa nel futuro.
Immagine di copertina | Mosè Cov, per gentile concessione dell’artista.
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Metà italiana, metà egiziana, nata e cresciuta nelle Marche, passata per Bologna, adottata da Milano, lavoro nel campo della comunicazione e dei media. Scrivo di musica, street art e controculture, sono affascinata dalla contaminazione culturale a tutti i livelli.