Monira Al Qadiri | Della Fine Del Petrolio E Documentare La Petro-cultura Per Un Mondo Post-petrolifero

di Eric Otieno Sumba - Pubblicato il 02/09/2020
di Monira Al Qadiri, DIVER, frame video (2018) – Tutte le immaginicourtesy dell’artista

Nata in Senegal, istruitasi in Giappone e attualmente residente in Germania, l’artista visiva kuwaitiana Monira al Qadiri è diventata maggiorenne durante il rapido cambiamento del Kuwait, trasformatosi da una delle civiltà più antiche del mondo a un gigante dell’industria petrolifera. Dall’inizio della sua carriera, ha posto la sua attenzione sul tumulto causato dalla prosperità, dalla religione e dalla rapida trasformazione della società. Il suo lavoro di performance, scultura e video esplora anche identità di genere non convenzionali, petroculture e futuri speculativi.

In occasione del Festival romano Short Theatre 2020, Al Qadiri presenterà tre video prodotti tra il 2010 e il 2018. In Travel Prayer (2010) cammelli in corsa che galoppano freneticamente sullo schermo, accompagnati da un’iterazione della preghiera di viaggio musulmana, alludono al progresso in un senso molto ambiguo. In Behind the Sun (2013) Al Qadiri rivisita le conseguenze della prima guerra del Golfo del 1991, quando diversi giacimenti petroliferi in Kuwait furono incendiati dalle forze d’invasione. Avendo vissuto in prima persona questa realtà distopica, integra le riprese video amatoriali in VHS degli incendi con monologhi audio tratti da programmi televisivi religiosi dell’epoca.

La terza installazione immersiva, Diver (2018), segna un nuovo capitolo della sua continua ricerca di legami storici tra il mondo pre e post-petrolifero del Golfo Persico. Diver segue quattro nuotatrici sincronizzate, vestite di tute scintillanti che richiamano la lucentezza sia delle perle che del petrolio, completamente coreografate da una iniziale registrazione audio di una canzone di pescatori di perle, che ricorda la socioeconomia pre-petrolifera della regione. In vista della sua prima nazionale italiana, abbiamo discusso con Al Qadiri i suoi tre lavori.

Monira Al Qadiri – Foto di Raisa Hagiu

Cominciamo con Travel Prayer, dove il filmato di una corsa di cammelli è accompagnato da questa bellissima preghiera che ci ricorda qualcosa che la maggior parte di noi ha dato per scontato in questi giorni: il miracolo di arrivare a destinazione sani e salvi. Sei partita dalla preghiera e le immagini sono arrivate dopo? O è stato il contrario?

Mi interessava la preghiera del viaggio da tempo, perché in Kuwait e in molti paesi musulmani, quando sali su un aereo è la prima cosa che mandano. Sembrava intrigante, perché è abbastanza specifico, si tratta di viaggiare con uno scenario depressivo—che non succede ovunque, a volte c’è uno splendido scenario—quindi ho sempre immaginato che si trattasse di un viaggio nel deserto, che è davvero duro. Ho pensato che fosse interessante quanto fosse geologicamente specifico per noi. Allo stesso tempo, mi piaceva come suona, l’ho sempre registrato.

Un giorno stavo guardando questa corsa di cammelli in tv, e la trovavo così inutile, perché di solito c’erano dei fantini su questi cammelli, che avevano una relazione con gli animali. Ad un certo punto, siccome volevano vincere, hanno iniziato a usare i bambini, che sono stati banditi dalle Nazioni Unite perché c’era una violazione dei diritti umani. Poi hanno iniziato a usare i robot: sotto quello strato di coperte, ci sono robot molto rozzi e mal fatti che guidano i cammelli. Il tipo che vedi in macchina sta solo premendo un pulsante. L’intero rituale aveva perso significato. È diventata una metafora per me, perché ora stiamo viaggiando verso l’ignoto, verso uno scenario depressivo. Questa era più o meno l’idea.

In che senso la preghiera di viaggio è un autoritratto, come l’hai descritta prima?

Essendo nata dopo la scoperta del petrolio in Kuwait, ho sempre pensato che la mia generazione è una sorta di generazione stravagante, perché questa storia dell’intervallo di petrolio non durerà molto a lungo. I miei genitori hanno vissuto prima dell’arrivo del petrolio e hanno passato un periodo difficile, conoscono la vita reale. Il mercato del petrolio ad un certo punto crollerà, il che significa che il paese crollerà. Quindi cosa succederà dopo? Si tratta di questa sensazione di perdersi e di correre verso un futuro sconosciuto.

In Diver, c’è una connessione controintuitiva tra le immagini e il suono. Mentre le immagini presentano dei fotogrammi esclusivamente eleganti e brillanti, la canzone di perle che le accompagna è un po’ imperfetta, ruvida. Cosa ti ha portato a fondere questi due aspetti del lavoro?

La pesca delle perle è una storia personale, ma anche una storia dell’intera regione, perché per un po’ di tempo l’industria principale [in Kuwait] è stata questa, e mio nonno era un cantante su una barca per la pesca di perle; quindi, in realtà è più una mia idea di come suonava. È una delle prime registrazioni degli anni ’60, arriva dal Bahrain. La canzone oggi suona molto diversamente, non è più usata per la pesca delle perle, è più quel genere di cose che si fanno per i turisti. È stata pulita e disinfettata, mentre le versioni precedenti sono molto più simili a urla, mentre nelle versioni più attuali, e deformate, questo aspetto si perde.

Monira Al Qadiri, DIVER (2013)

Quando hai realizzato Behind the Sun (2013), sei stata molto fortunata a ricevere dal fotografo Adel Al Yousifi una serie di video d’archivio inediti dei giacimenti petroliferi in fiamme. Pensi che avresti fatto il lavoro con il materiale anche se non avessi visto Version of events, di Werner Herzog in Lessons of Darkness (1992)?

No, è direttamente correlato a questo pezzo. Ho visto il film di Werner Herzog quando avevo sette, forse otto anni, praticamente subito dopo la guerra. Mio padre lo aveva su una cassetta VHS a casa, non sapevo cosa fosse. L’ho messo nel videoregistratore e l’ho guardato, e poi sono stata avvolta da un senso di rabbia. Quando sei bambina non capisci cosa sia la docufiction, sentivo che quest’uomo tedesco si stava inventando storie sulla nostra guerra, che erano tutte bugie (ride). Ero così sconvolta e arrabbiata. Non avevo idea di chi fosse, ma mi ricordai di questa bambina arrabbiata.

Con il tempo, quando studiavo arte, scoprii chi era Werner Herzog e mi interessai al suo lavoro, quasi capendolo, ma questo suo lavoro non l’ho mai capito, perché c’era sempre questa bambina ancora arrabbiata, anche quando lo guardai a 25 anni. Provavo quella sensazione di irritazione e frustrazione di cui non riuscivo a liberarmi.

Quando ho realizzato Behind the Sun, nel 2013, vivevo a Beirut, e la guerra in Siria è stata molto brutta, ci sono stati molti bombardamenti che mi hanno ricordato la nostra guerra. In Kuwait la storia della guerra per molto tempo è stata cancellata, è quasi imbarazzante parlarne, mentre a Beirut era ovunque. E pensavo di creare la mia versione del film di Herzog, ma in modo completamente diverso, senza quella angolazione-ripresa dall’elicottero, quella prospettiva divina che usa, ma qualcosa di più vicino a ciò che sentivo da bambina.

Allo stesso tempo, volevo anche rivendicare il contesto in cui è accaduto. Il probelma è che al tempo era molto difficile trovare filmati del 1990 e del 1991. Incontrai questo fotografo amatoriale, Adel Al Yousifi, che mi disse di avere dei nastri e io gli chiesi di mostrarmeli. Erano molto belli, quando li vidi piansi, perché era da allora che non li guardavo, fu davvero crudo. Gli chiesi perché avesse scattato 25.000 fotografie dei giacimenti petroliferi in fiamme, pur non essendo legato a nessun giornale. Mi rispose che voleva mostrare alla sua famiglia fuori dal Kuwait l’entità della distruzione.

Pensai che era interessante come risposta, perché forse era una scusa che si diceva, ma sicuramente non la risposta: non rischi la tua vita ogni giorno, per un anno e mezzo, per mostrare alla tua famiglia la distruzione. Penso che in un certo senso fosse una specie di personaggio di Herzogean, era ossessionato dalla bellezza di quella distruzione, che era un po’ quello che provavo quando ero bambina. Da bambina non hai moralità, non capisci il bene e il male, per me quello era proprio come l’inferno, come ci dicevano, il mondo stava finendo. Pensavo che fosse davvero speciale, il che è carino (ride).

Purtroppo poche settimane fa c’è stata un’imponente esplosione a Beirut, seguita da proteste di massa che chiedevano di conoscere le responsabilità. Hai detto che mentre vivevi in Libano la guerra è stata sempre presente, anche nel discorso artistico, al contrario del Kuwait. Pensi che l’esplosione del porto di Beirut per i giovani artisti eserciterà lo stesso ruolo che la guerra in Kuwait e i campi petroliferi in fiamme hanno fatto con te?

Non lo so, perché è ancora tutto molto duro. Mio marito è di Beirut, ho vissuto lì per sette anni, e ho molti amici lì che hanno perso la casa. È davvero un momento molto terribile. Allo stesso tempo, sembra che qualcosa sia finito e non sappiamo cosa. Potrebbe essere che il Paese sia finito, chissà! La mia sensazione iniziale era che nessuno potesse sopportare una cosa del genere, ma sorprendentemente i politici stanno giocando con la stessa retorica di prima.

Penso sia molto traumatizzante, devo dire che è ancora più traumatizzante della guerra. In qualche modo lo Stato, la corruzione e la distruzione dello Stato entrano a casa tua. Credo sia molto diverso, perché anche in guerra le persone riescono a vivere la loro vita e a essere al sicuro nella loro casa. Escono per il cibo o se ci sono combattimenti fuori, ma a meno che il tuo edificio non venga bombardato, la guerra in qualche modo è lontana, e puoi creare una distanza tra te e ciò che sta accadendo fuori. Ma questa è una scala diversa, è quasi come tantissime esplosioni nucleari, quindi non so cosa succederà dopo, non posso davvero dirlo, è molto difficile parlarne.

Pensi che la tua collezione di opere un giorno potrà diventare una documentazione di petro-cultura per un mondo post-petrolifero?

È esattamente quello che sto facendo, sto cercando di creare un monumento strorico attraverso queste opere d’arte, legate a questo periodo strano, perché quando sarà finito non avremo nulla per commemorarlo. Il petrolio è una forza così distruttiva ma in un certo senso è anche un miracolo, è solo uno strano personaggio alieno che è atterrato dallo spazio e se ne andrà ad un certo punto.

Abbiamo qualcosa per cui ricordare questa forza aliena, forse no: quindi, sto cercando di creare questo labirinto tra il passato, il presente e il futuro, in modo da poter avere una sorta di oggetti emotivi a cui tornare (ride). Sto anticipando la fine del petrolio, voglio davvero che finisca. È terribile, è una follia totale, viene estratto dalla terra, sta distruggendo l’ambiente, tutte le conseguenze politiche e sociali. È davvero un mostro.

DIVER – Behind the Sun – Travel Prayer
venerdì 4 settembre | 18:00 – 24:00
sabato 5 settembre | 18:00 – 24:00
domenica 6 settembre | 18:00 – 24:00
WeGil – Sala rossa, Salotto, Auditorium
installazioni video

prima nazionale
ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

GRIOT è media partner di Short Theatre. Scopri il programma completo del Festival.

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Eric Otieno Sumba
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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.