Meshell Ndegeocello | “Il Pensiero Mainstream Non è Più Rilevante. Se Hai Un’opportunità, Coglila”

Meshell Ndegeocello è uno di quei nomi che quando viene pronunciato nelle conversazioni tra musicisti solleva sempre un certo senso di rispetto, quasi devozione. Le teste annuiscono in senso di approvazione, e la conversazione diventa un susseguirsi di esempi e motivi per cui nessuno potrebbe o dovrebbe nominare quel nome invano.
Prima donna a comparire sulla copertina di Bass Player Magazine, bassista, cantautrice, attivista politica, compositrice queer, a Meshell Ndegeocello è attribuita la nascita del movimento neo-soul. Da Tony Allen, Chaka Khan e Madonna, ai Rolling Stones, Billy Preston e Alanis Morissette, solo per citarne alcuni, sin dagli inizi della sua carriera ha collaborato con gli artisti più ammirati del panorama musicale internazionale, e ha girato gli angoli del mondo portando in tour le sue inconfondibili linee di basso e la sua voce ipnotica, accompagnata da musicisti straordinari.
Pilastro, spesso invisibile—ma più forte che mai—del mondo r&b e neo soul, il suo contributo è considerato fondamentale nell’evoluzione dei generi più distintivi ed influenti nella storia della musica contemporanea.

Talento, dedizione, umiltà e capacità di adattarsi ad un mondo in costante divenire hanno portato Meshell Ndegeocello a costruirsi un percorso alternativo per creare nuove narrazioni, prospettive, linee di pensiero. In particolare, oltre alla composizione di varie colonne sonore, tra cui quella per la acclamata serie di Ava DuVernay per il network di Oprah Winfrey, Queen Sugar, il lavoro a cui si è dedicata in questi ultimi anni è sfociato in un progetto che vede James Baldwin protagonista.
Considerando questo attivista, poeta e autore come il suo orisha, un personaggio a cui guardare come propria bussola morale, una guida per ri-educare se stessi, ripensare i canoni e le le basi della civiltà, Ndegeocello ha creato Chapter & Verse: The Gospel of James Baldwin. Il progetto si ispira al trattato La prossima volta, il fuoco [The Fire Next Time] e consiste in un sito dedicato dal quale si può accedere ad una help line telefonica tramite cui scoprire canzoni, meditazioni e salmi “per rilassare la mente in qualsiasi momento, giorno e notte, quando se ne ha più bisogno,” offrendo “un kit di strumenti rituali del XXI secolo per fare giustizia, un appello alla rivoluzione e un dono in tempi turbolenti.”

Oltre alla possibilità di connettersi telefonicamente ai vari contenuti audio, Ndegeocello ha creato delle testimonianze visuali degli scritti di Baldwin, narrate dalla sua inconfondibile voce e accompagnate da musica originale che ha composto insieme a vari collaboratori, tra cui Suné Woods, Nicholas Galanin, Adebukola Bodunrin, e Charlotte Brathwaite.
Se il suo impegno politico e genio musicale non erano abbastanza, Ndegeocello si sta dedicando anche alla scrittura di sceneggiature, e di recente, oltre ad aver musicato Ahead of The Curve, il documentario sulla storia di una delle più influenti pubblicazioni lesbiche degli anni ‘90, ha collaborato ad un nuovo singolo con Robert Glasper e H.E.R, Better Than I Ever Imagined.
Abbiamo voluto approfondire il discorso con Meshell in una conversazione telefonica, in occasione della sua partecipazione al recente Vancouver Film Festival, per saperne di più su Chapter & Verse, su Queen Sugar e gli altri progetti a cui si sta dedicando; per confrontare idee su questo momento storico e sul nuovo delicato ordine di cose che ne consegue e che stiamo attraversando come creativi e come esseri umani.

GRIOT: Hai scritto la colonna sonora di Queen Sugar la serie di Ava DuVernay, che include sia brani dei tuoi primi album, come Bitter (1999), come brani dei tuoi lavori successivi, come Weather (2011). Quali sono stati gli aspetti più interessanti del creare l’identità sonora di questa serie? Come avete lavorato per creare l’equilibrio perfetto nella composizione?
Meshell Ndegeocello: È stata una bellissima esperienza, mi sono sentita quasi troppo a mio agio, nonostante fosse la prima volta che componevo un’intera colonna sonora. Nella maggior parte della mia carriera ho composto musica per scene specifiche o per i titoli di coda, quindi è stato molto intenso, ma sono stata molto fortunata perché alla regista piaceva genuinamente il mio sound. Una volta che abbiamo capito come lavorare, selezionato la strumentazione, studiato i personaggi e i sentimenti di ogni protagonista, è diventata una facilissima conversazione tra lei e il mio team. Quando siamo arrivati alla seconda stagione avevamo instaurato una bella sintonia e come speravo la composizione è diventata un’estensione della prima, qualcosa che magari non si nota, ma che sarebbe mancato se non fosse stato presente nella seconda stagione.
Di recente hai anche realizzato la colonna sonora del documentario Ahead of the Curve che fa luce sulla comunità lesbica dei primi anni ‘90, sulla sua visibilità e rappresentazione attraverso la storia della fondazione della rivista Curve. Quali sono i generi e gli artisti che per te era fondamentale includere e perché?
In questo lavoro ho dovuto ricostruire un periodo storico, mi sono chiesta come ricreare una sensazione di nostalgia. È stato un tipo di lavoro diverso che definisco “emulare”, o “creare un simulacro di canzoni” in cui prendi in prestito trame e suoni di un periodo preciso che vuoi rievocare. È stato emozionante per me, ma è stato anche più difficile perché eravamo lontani e dovevamo comunicare tramite e-mail, un mezzo molto difficile per creare una colonna sonora. La musica è così soggettiva, sai, e anche quello è letteralmente solo per cercare di intuirla.
Da anni ho un post-it sul muro con scritto: “Non sono un pessimista, perché sono vivo”. È una citazione di James Baldwin che tengo sopra la mia scrivania perché, in realtà, sono un po’ pessimista, quindi quello è un piccolo mantra che cerco di ripetermi ogni giorno. Essere Italiani Neri è ancora un paradosso, viviamo in un doppio standard in cui dobbiamo costantemente giustificare la nostra esistenza, la nostra esperienza. Poi mi sono imbattuta nel tuo sito web e ho visto Chapter & Verse: The Gospel of James Baldwin e voglio saperne di più. Cosa ti ha spinto a lanciarti in questo progetto?
Questo fatto è molto interessante perché uno dei miei libri preferiti di Baldwin è Another Country e la complessità del personaggio Italo-americano mi è sempre rimasta impressa. Quando suono in Italia è sempre un’esperienza interessante, mi sembra sempre diverso rispetto a quando sono in altre parti del mondo.
Credo che Chapter & Verse sia il mio tentativo di liberarci da questo culturalismo e fanatismo usando La prossima volta, il fuoco [The Fire Next Time] come manifesto di qualsiasi suo scritto; semplicemente usando quei testi per dare una prospettiva diversa alle persone.
Baldwin è molto chiaro e conciso con il suo linguaggio: nessuna etichetta, nessuno slogan, nessun partito può liberarti. Non c’è religione, né bandiera, oltre all’essere umano. E come persona Nera che è nata qui in America, mi ha fatto realizzare che sono una “pagana rapita”.
Voglio creare una narrativa diversa per me stessa, è un impegno egoistico. Sto cercando di creare questa eredità per me stessa, e uno dei modi di farlo è fare di James Baldwin il mio orisha, qualcuno a cui guardare come alla mia bussola morale, come la mia guida, e anche per ri-educare me stessa e ripensare i canoni, ripensare le basi della civiltà, che è un tema enorme di per sé—la civiltà occidentale,—ed è un tema un che sta iniziando ad essere messo in discussione. Io sto solo cercando di creare rituali e informazioni per partecipare alla narrazione.
Lavorando nel mondo della cultura, da giovane artista si prova molta insicurezza legata alle opportunità che si manifestano per la nostra comunità e al senso di tokenizzazione che spesso ne deriva, specialmente dopo l’uccisione di George Floyd. E se questo è un sentimento che accende positività e speranza per il futuro e per l’inclusività del sistema culturale, purtroppo alimenta anche l’Impostor Syndrome nei giovani artisti, li fa sentire uno strumento per la redenzione delle coscienze e della società. Ti sei mai sentita così durante la tua carriera? Se sì, come hai gestito la situazione e che consiglio daresti a chi si trova a navigare nei complessi mondi della musica, delle arti e dell’intrattenimento in questa cornice culturale un po’ più woke, ma comunque delicata e piena di ostacoli?
Certo che mi sono sentita così. Sono stata a dei meeting in cui mi è stato detto che questo poteva essere il mio momento: “Sei una donna, sei di colore, quindi sei trendy adesso”. Ma non lo so, personalmente penso che ci siano così tanti modi di vederla e penso che il pensiero mainstream non sia più rilevante e se hai un’opportunità, la devi cogliere. Poi la giudicherai più tardi, ma se ti viene data un’opportunità coglila, perché alla fine l’importante è quello che ne fai. Tu devi comunque fare il lavoro, anche se è un’azione positiva con cui sai che le persone potrebbero avere un problema, tu devi presentarti e fare il lavoro, e nessuno può toglierti il lavoro e la dedizione; nessuno può toglierti lo sforzo e l’intenzione, e questo è tutto ciò di cui sei veramente responsabile. Le loro ragioni, non sono una tua preoccupazione, quelle non sono le mie preoccupazioni. Per quanto riguarda il colore, questa lotta va avanti da più di mille anni, quindi cerco di non preoccuparmi delle intenzioni degli altri, cerco di cogliere le opportunità e di essere il più chiara e preparata possibile, e voi dovreste fare lo stesso. Non per essere dogmatica, ma sfruttate queste opportunità.
Ho avuto il piacere di guardare la tua conversazione online con Hayley Kiyoko e Brandi Carlile su musica, identità e attivismo. Hai menzionato il fatto che, oltre alla musica, stai guardando ad altri media, come la scrittura di film e sceneggiature per narrare storie diverse. È qualcosa per cui ci possiamo già emozionare?
Lo spero! Voglio dire, ci sto provando, sto condividendo alcune bozze di sceneggiatura. Faccio fatica con il mezzo visivo perché è così potente, quindi voglio solo stare attenta a quello che faccio. Ma mi interessa molto, e mi piace molto curare l’editing. Online si può vedere questa animazione che ho realizzato per il progetto Baldwin e anche altri piccoli frammenti.
È solo un’evoluzione naturale della figura del musicista, in questo momento, perché se vuoi mettere fuori musica oggigiorno devi avere un impatto visivo molto forte, anche più che negli anni Novanta, quando i video erano importanti. Questo è solo un modo per comunicare, quindi è per questo che mi interessa.
Hai cambiato il tuo nome in Ndegeocello, che significa “libera come un uccello” in swahili. Quali sono state le ragioni di questa scelta?
A quel tempo, quando avevo 17-18 anni, ero alla ricerca della mia identità ed ero molto queer. Come dice Baldwin, ero: una pagana rapita. Ero di proprietà di qualcuno di nome Johnson, stavo combattendo le mie lotte personali con i miei genitori, e in qualche modo volevo separarmi da tutto ciò. Quindi, non ho cambiato il mio nome quando è decollata la mia carriera. Ho sempre voluto non essere nata con quel nome. Penso che alla fine sarò come il figlio di Elon Musk, avrò un numero come nome. Non provo molto attaccamento verso quella parte di me, e mi ha sempre affascinato l’idea di farsi un nome, non importa quale sia il lavoro, se ti fai un nome. Capisci che intendo…
Quest’anno ha segnato in modo permanente la storia americana per una serie di motivi, e novembre è molto vicino. Quali sono le tue sensazioni e quali i tuoi pensieri mentre ci avviciniamo a questo nuovo momento cruciale?
Penso che sia molto importante mantenere il proprio senso di sé, mantenere una pace interiore. È molto importante non essere risucchiati dalle notizie, non cedere alla disperazione. Alcuni giorni mi sveglio e penso che alla fine è divertente, è sempre stato così. Il mondo è un posto complicato, sembra sempre più un teatro. Forse ho una visione delle cose più vicina a quella indù, che vede il mondo come una tragedia, qualcosa che recitiamo tutti i giorni. Viviamo in questo dramma intenso e ce ne sarà ancora di più—credimi—e cose peggiori, ma ci saranno anche cose belle, molto belle. C’è un po’ di tutto.
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Johanne Affricot
Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente, fondatrice e direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.