Marie Gomis-Trezise Abbatte I Muri Con Galerie Number 8

Tutti parlano. Nell’era del dualismo mediatico i microfoni sono sempre accesi, peccato che spesso il cervello resti sul tasto off.
La legge del più forte la fa da padrona e la forza è racchiusa nella goliardia, nell’insulto, nella maleducazione, nell’abilità a schiacciare il proprio interlocutore con parole pesanti, fino all’ umiliazione più becera, perché tanto il tempo per scusarsi è sempre disponibile.
Per molti sembra ormai che le parole abbiano perso il loro peso, ma non per noi e neanche per Marie Gomis-Trezise, art director e fondatrice della galleria d’arte Galerie Number 8 con cui abbiamo deciso di scambiare due parole.

Una vera forza della natura, una donna d’ acciaio. Nata a Les Quartiers Nords nella banlieu di Marsiglia da genitori senegalesi, è riuscita a disegnarsi una carriera invidiabile tra Parigi, Londra e Bruxelles. Dopo anni di lavoro nell’ industria musicale, proprio nella capitale belga ha appena fondato la sua galleria d’arte: Galerie Number 8.
GRIOT: Come è nata l’idea?
Marie: È un’idea che avevo in mente da molto tempo, stimolata in particolar modo dalle mie precedenti esperienze di lavoro. Negli anni ho lavorato come art director nel campo della musica, curando progetti per diversi artisti, anche a livello di immagine. Quest’attività mi ha permesso di interagire con tanti stylist, fotografi e registi, catturando la mia attenzione per la cura delle immagini e la ricerca del talento fino all’ossessione.
Quello che viviamo oggi è un momento particolare per l’arte, in particolar modo per la fotografia, soprattutto quella africana, e io ho sentito la necessità di connettermi con questi nuovi artisti che offrono una versione molto contemporanea dell’identità culturale di questo continente, lontana dai soliti cliché, la diversità insomma, e Galerie Number 8 è un modo per condividere con il mondo questa visione. La galleria è nata un mese fa.
Che tipo di rapporto hai con gli artisti che coinvolgi? C’è un lavoro di ricerca? Come nascono le connessioni?
Alla base di tutto c’è l’ Africa, ma non solo. Nel tempo è arrivato anche altro. Da una parte ci sono artisti della diaspora africana, come Campbell Addy, Justin French, Ivan Forde, Leonard Pongo e David Ozochukwu. Tutti artisti nati e cresciuti fuori dal continente, in paesi come Austria,Uk, Stati Uniti o il Belgio, e accomunati dalla doppia identità di essere sia africani ma anche tutto il resto, dettaglio che ovviamente influenza il loro approccio creativo e a cui sono legata, essendo una senegalese nata in Francia.
Discorso diverso invece per Hector Mediavilla e Nicolas Henry, spagnolo uno e francese l’altro, ma entrambi trascorrono molto tempo in Africa, una vera passione che si percepisce nei loro lavori che mi hanno sedotta e fatto riscoprire la realtà di questo continente, una realtà dura ma anche dinamica e piena di speranza.

Cosa sono per te l’estetica e la diversità?
La mia definizione di “estetica” non è filosofica o platonica ma è legata a qualcosa di bello, che ti colpisce, che ti fa pensare, che ti fa vibrare le emozioni. Qualcosa che cattura i tuoi pensieri del momento o di un particolare istante nel tempo.
Mentre il concetto di “diversity” per me va ben oltre la semplificazione offerta dai media mainstream: è la celebrazione delle differenze, è guardare l’altro in maniera positiva, con una curiosità entusiasta e senza paura. Lo stesso discorso che cerco di portare avanti con Galerie Number 8. La diversità è tutto, ci arricchisce, specialmente in un periodo come questo di condivisioni e connessioni .
A proposito della mostra online “Pulling Down the Walls”, dopo la vittoria di Trump oggi è ancora più importante farsi sentire per “abbattere i muri.” State considerando l’idea di ampliarla e coinvolgere più artisti?
La mostra era chiaramente nata in seguito ai toni della campagna elettorale americana. Osservando le opere ho pensato fosse interessante cogliere i diversi linguaggi utilizzati dagli artisti per interpretare questo concetto di denuncia e legarli ad una visione più immaginaria, poetica, di forza, e alla fine è uscito fuori un percorso visivo che passa da una realtà oscura a scenari di speranza.
C’è da considerare che il risultato finale delle elezioni americane, la vittoria di Donald Trump, ha scioccato molti, davvero una grande botta, che però non ha indebolito questo forte movimento di risveglio della coscienza, ormai mondiale.
L’arte, in qualsiasi sua forma, è un ottimo mezzo per scuotere le coscienze, che si tratti di pittura, fotografia o musica e ovviamente il mio lato attivista viaggia in questa direzione, ragion per cui con Galerie Number 8 mi piacerebbe esplorare anche altri argomenti relativi alla nostra società – non solo politici – coinvolgendo più talenti in questo viaggio da cui magari possano nascere future collaborazioni, anche tra gli artisti stessi.

Secondo te perché ha vinto Trump?
Onestamente credo che Bernie Sanders fosse il candidato ideale, che probabilmente avrebbe vinto, peccato non sia stato sostenuto dal suo partito. Rappresentava meglio lui il vero cambiamento, quello di cui avevano bisogno tutte le persone deluse, quello che avevano perso la fiducia verso l’establishment, e non Hillary Clinton che in qualche modo lo ricordava.
Anche Trump ha esordito contro l’establishment, ma puntando tutto sull’ insicurezza e facendo leva sulla paura delle persone. Ha vinto manipolando il popolo e alimentando le divisioni per rassicurare quell’America bianca e razzista ancora schiava di stereotipi. Ma anche persone ignoranti, sedotte dalla sua immagine di uomo di successo che sta sempre in TV, hanno votato per lui, con la speranza ti trovare un lavoro. Che tristezza.
Non è un segreto che alcuni politici europei siano d’accordo con le affermazioni di Trump sugli immigrati e sull’immigrazione e nelle ultime settimane le notizie si sono concentrate sui muri e sulle barriere. Tu che sei nata a Marsiglia e in seguito ti sei trasferita prima a Parigi e poi a Londra, hai mai dovuto abbattere barriere che ultimamente si stanno alzando sempre di più in queste città?
Sì, sicuramente, ma in ogni città in modo diverso. Sono nata e cresciuta a Les Quartiers Nords, nella banlieu di Marsiglia. Da quelle parti era tutto un essere fieri delle proprie radici ma era importante non rimanere bloccati nella banlieu. In quel periodo essere nera in Francia mi limitava molto nella ricerca del lavoro. Devo molto ai miei genitori che con il duro lavoro e tanti sacrifici mi hanno permesso di studiare lontano da Les Quartiers Nords e cosi ho potuto spiccare il ‘volo’.

Intorno ai vent’anni, inizio anni ’90 – ho iniziato a lavorare per una casa discografica a Parigi. Un’esperienza bellissima, dinamica ed incredibile, che mi ha permesso di usare tutto il mio background culturale nel mio lavoro, e di mettere così sotto contratto diversi artisti hip hop e djs.
Per quanto sia stato tutto positivo, ricordo che ero una delle pochissime persone nere in città che faceva quel lavoro. Era strano. Una situazione che mi ha fatta sentire un po’ isolata e poco capìta in diverse circostanze, anche in quanto donna, ma senza lamentarmi ho saputo trasformare tutto anche in un vantaggio per me.
Diverso invece il discorso per Londra. Londra è unica, è una città incredibile, una città multiculturale nel vero senso del termine. La gente è splendida (almeno con me) mi hanno tutti fatto sentire a casa, come se fossi una di loro. Ho vissuto e lavorato a Londra due volte e in periodi diversi della mia vita. Entrambe le esperienze sono state eccezionali.
Cosa ti trasmettono i lavori degli artisti che rappresenti?
Agape V (2016) di Campbell Addy
Adoro la sensazione di unione che mi trasmette quest’immagine. Per me significa sostegno e unità. E alla fine è un qualcosa di reale e dinamico all’interno della comunità nera.
Unwilling Martyr (2016) di Justin French
Quest’immagine dice tutto “un uomo nero soffocato, fiero e impavido. Unwilling Martyr è una serie fotografica molto forte. Justin è incredibile nel costruire una fotografia semplice ma allo stesso tempo sofisticata.
Coming of Enkidu (2016) di Ivan Forde
Ivan è un grande cantastorie. La sua immaginazione mi riempie di gioia. Quest’immagine fa parte della serie “The Epic Of Gigamesh” e ci conduce ad una sorta di era Afro-mitologica.
Quiet (2014 ) di David Uzochukwu
Ho scoperto David e i suoi ritratti concettuali con la sua immagine. Al tempo la prima cosa che mi uscì fu un”Wow.” Una foto meravigliosa e lui ha solo 15 anni.
Willy Covarie in Red Bacongo (2008) di Héctor Mediavilla
Questa foto mi ricorda un vecchio proverbio “Puoi riconoscere un gentleman dalle scarpe che indossa” e il suo passo in questa foto è il passo di un uomo fiero.
Untitled (2011) Léonard Pongo, dalla serie ‘The Uncanny‘
Quest’immagine è magica, vera, bellissima.
A Thought for Africa’s Pain, (2012) di Nicolas Henry
In questa foto c’è una vistosa tristezza e il senso di solitudine viene elevato da un’energia vibrante.
Immagine in evidenza | Rising (2014) di David Uzochukwu
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È impossibile crescere a Roma senza interessarsi all'arte, allora che fai? Studi tutto quello che la mamma crede sia sbagliato per te: Accademia di Belle Arti prima, e Moda e Costume dopo, incastrando nel mezzo la passione per le sneaker, il cinema,la fotografia, la musica e il gelato al gusto di mango.