Le Persone Bianche Dovrebbero Curare L’Arte Africana?
Chiedersi se lɜ bianchɜ debbano ancora curare l'arte africana è un quesito che può essere superato. Dovremmo invece domandarci: cos'è oggi l'arte africana e la categoria ha ancora importanza? L'autore e storico visivo Drew Thompson commenta il saggio scritto dalla storica dell'arte e curatrice di arte africana Susan Vogel, The Long View: Leadership at a Critical Juncture for ‘African Art in America , pubblicato sulla rivista accademica African Arts.

Nell’ultimo decennio, istituzioni d’arte e musei statunitensi hanno cercato di assumere curatorз per lavorare con le loro collezioni storiche di arte africana, con vari gradi di successo. Nel 2018, il Brooklyn Museum ha dovuto far fronte a critiche diffuse da parte di attivistз del quartiere e sui social media quando ha assunto un curatorǝ biancǝ per la sua sezione dedicata all’arte africana. Il fatto che la posizione fosse part-time, limitata e potenzialmente non rinnovabile è sembrato molto meno importante. Due anni dopo, sullo sfondo del movimento Black Lives Matter e di una pandemia, il Brooklyn Museum e altri musei hanno fronteggiato un’altra serie di sfide. Il COVID-19 ha esercitato pressioni finanziarie sui musei affinché tagliassero i bilanci, bloccando ulteriormente gli sforzi per espandere e diversificare il personale, mentre l’aumento del riconoscimento dell’opinione pubblica degli episodi di costante brutalità della polizia nei confronti di persone Nere e Marroni ha rinnovato le richieste che i team curatoriali e amministrativi dei musei riflettano le comunità in cui risiedono e che cercano di servire.
È in questo contesto che mi sono imbattutǝ nell’articolo “The Long View: Leadership at a Critical Juncture for ‘African Art’ in America“, di Susan Mullin Vogel, storica dell’arte e curatrice di arte africana. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista accademica African Arts, una rivista scientifica e definisce il settore. Vogel è una curatrice, storica dell’arte, direttrice di musei e docente con oltre cinquant’anni di esperienza. Ha lavorato in alcune delle più importanti istituzioni d’arte per lo studio e l’esposizione dell’arte africana negli Stati Uniti, tra cui il Metropolitan Museum of Art (Met), il Museum of African Art (ora Africa Center) e le Università di Yale e Columbia.
L’aspetto principale che emerge dall’articolo della Vogel è il suo disappunto per l’attuale situazione dei dipartimenti di arte africana nei musei americani. Come afferma l’autrice, c’è un vuoto nell’attuale leadership curatoriale e nella gestione delle collezioni d’arte africana che ha portato alla scomparsa dell’arte africana dal pubblico negli Stati Uniti. Negli ultimi anni ci sono stati più di sedici posizioni vacanti per curatorз di arte africana. Solo cinque di questi posti sono stati occupati con successo; altri musei hanno presumibilmente tagliato le posizioni in modo permanente. La Vogel cerca di attirare l’attenzione su questa realtà e sulle recenti assunzioni, dato che, secondo lei, pochi al di fuori dai percorsi di studi museali o di storia dell’arte se ne sono accorti. Vogel sostiene che l’arte africana stia “svanendo dalla nostra vista.” Scrive che le istituzioni statunitensi non hanno i/le curatorз necessarз per mantenere le collezioni storiche, né possono basarsi sulla ricerca prodotta dalle generazioni precedenti. Secondo la Vogel, i/le direttorз e amministratori fiduciarз dei musei statunitensi con dipartimenti di arte africana stanno deludendo le loro collezioni e il pubblico che servono, privilegiando candidatз con “una familiarità con l’arte e la cultura africana contemporanea”.
Una delle sue affermazioni più provocatorie è che i dipartimenti di arte africana, anche con unǝ curatorǝ a tempo pieno, non hanno le competenze di altri dipartimenti, come quello di arte europea e americana: “Negare ancora una volta—solo alla collezione africana—le competenze che si trovano in altri dipartimenti curatoriali è indifendibile e non rispettoso del patrimonio che rappresenta.” Per Vogel, questo significa che le competenze dei dipartimenti di arte africana impallidiscono rispetto ad altri dipartimenti, degradando ulteriormente la posizione dei dipartimenti di arte africana all’interno dei musei.
Il problema è che se la Vogel pensava di essere utile, il suo saggio riflette invece una scarsa comprensione della razza contemporanea e del razzismo sistemico che opera nell’arte africana. In primo luogo, la sua critica nasconde l’altra faccia dellз candidatз a cui si oppone: nel periodo che lei definisce di declino, le istituzioni museali statunitensi hanno assunto più persone che si identificano come Nerз d’America e/o Nerз d’Africa. Ma ancora di più, il succo dell’argomentazione e della critica della Vogel si legge più come una domanda: “I/lз bianche possono ancora curare l’arte africana?” Una domanda più utile sarebbe stata: “Che cos’è oggi l’arte africana e ha ancora importanza oggi questa categoria?”. Quest’ultima domanda invita a una maggiore discussione e partecipazione, in un momento in cui le istituzioni cercano di mantenere la loro rilevanza, rispetto a una domanda riduzionista ed escludente che guarda a un passato ristretto.
Mi spiego.
La rivista online e newsletter Culture Type, che si occupa di “arti visive da una prospettiva Nera”, riporta ogni due anni le assunzioni nei musei e nelle istituzioni culturali statunitensi in una rubrica intitolata In ascesa. Nel 2022, il Brooklyn Museum, il Met e il Virginia Museum of Fine Arts hanno effettuato assunzioni di rilievo nel campo delle arti africane, mentre altre 63 istituzioni statunitensi hanno assunto persone che si identificano come Nere per una serie di ruoli curatoriali, amministrativi e dirigenziali. Dal 2020 al 2021, 112 istituzioni hanno effettuato assunzioni simili. La Vogel non tiene conto del modo in cui le persone con formazione o interesse per il settore sono arrivate a ricoprire posizioni di leadership nelle istituzioni statunitensi. Non fa alcuna distinzione per le posizioni di nuova creazione che riflettono un panorama culturale più complesso, di cui le arti dell’Africa sono una delle tante parti.
Ad esempio, nel 2021 la National Gallery of Art di Washington DC, ha istituito per la prima volta unǝ curatorǝ di arte afroamericana e afrodiasporica. Diversз curatorз con una formazione accademica e professionale in storia dell’arte africana e afroamericana sono salitз di grado, fino a dirigere i dipartimenti curatoriali del Guggenheim Museum e della National Portrait Gallery della Smithsonian Institution. Altriз hanno assunto la direzione di importanti istituzioni come il California African American Museum, The Kitchen (nel distretto delle gallerie di New York) e la Gund Gallery del Kenyon College. Questi esempi non tengono conto degli sviluppi internazionali, che pure sono significativi. Nel 2020, l’Art Gallery of Ontario ha costituito il Dipartimento delle Arti dell’Africa Globale e della Diaspora; anche il Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona, famoso in tutto il mondo, la Whitechapel Art Gallery e la Chisenhale Gallery hanno fatto nuove e coraggiose nomine di curatori Nerз o Africanз.
Come campo storico-artistico e curatoriale, “l’arte africana” è un costrutto occidentale e un fenomeno relativamente recente nei musei statunitensi, risalente alla metà del XX secolo. La collezione di arte africana del Brooklyn Museum, ad esempio, è nata sotto la direzione di Stewart Cullin, il curatore fondatore del Dipartimento di Etnologia. Cullin ampliò la collezione di arte africana del museo acquistando oggetti da mercanti europei e, secondo la pagina web del museo, spesso esponeva oggetti etnografici come oggetti d’arte. Il Brooklyn Museum si posiziona come una delle prime istituzioni museali degli Stati Uniti a collezionare ed esporre l’arte africana a partire dai primi anni del 1900. Il Met segna l’inizio del suo Dipartimento delle Arti dell’Africa, dell’Oceania e delle Americhe nel 1969, quando Nelson Rockefeller donò 500 oggetti della sua collezione provenienti dall’Africa subsahariana. Nel 1982, il Met ha aperto l’ala Michael C. Rockefeller per esporre queste donazioni in un’installazione permanente della collezione. (Per inciso, la Vogel ha iniziato la sua carriera al Museum of Primitive Art di Rockefeller, fondato nel 1954 e precursore della donazione del Met).
Come dimostrano gli esempi del Brooklyn Museum e del Met, molti oggetti d’arte africana che costituiscono la base dei dipartimenti di arte africana dei musei statunitensi provenivano da donazioni private di ricchi mecenati e non da acquisizioni specifiche effettuate dallз curatorз, come avviene oggi. Questз donatorз non avevano una formazione accademica e/o curatoriale nel campo dell’arte africana. Eppure, ancora oggi, gli oggetti da loro donati ai musei determinano ciò che viene studiato ed esposto.
A maggior ragione, i resoconti popolari e accademici sull’arte africana negli Stati Uniti tacciono sul ruolo dellз collezionistз afroamericanз, le cui abitudini e attività estetiche hanno costituito la base delle collezioni museali e dei dipartimenti di storia dell’arte degli Historically Black Colleges and Universities, come le Università di Hampton e Howard e lo Spelman College. L’inserimento della storia dell’arte africana all’interno dei musei e delle istituzioni educative statunitensi ha risposto tardivamente ai discorsi da tempo in corso nelle tradizioni intellettuali e culturali dellз Nerз d’America, dei Caraibi e dell’Atlantico Nero.
Nel suo articolo Arti Africane, la Vogel fa risalire il campo dell’arte africana negli Stati Uniti agli anni Sessanta e Settanta, quando i dipartimenti universitari di Storia dell’arte e Antropologia iniziarono ad assumere docenti che studiavano le arti dell’Africa. In quel periodo cominciarono a emergere anche curatorз con dottorato in arte africana. Tuttavia, molto tempo prima, poetз, scrittorз, teoricз, artistз e attivistз Nerз, come W.E.B. DuBois, Suzanne Césaire, Alain Locke e James Porter, per citarne alcunз, hanno discusso i meriti dell’identità Nera in relazione all’arte africana: già dalla fine del XIX secolo alla metà del XX secolo. All’inizio del XX secolo, artistз Nerз come Augusta Savage, Meta Warrick Fuller e Richmond Barthé lavorarono in metallo e incorporarono nelle loro opere le diverse iconografie e immagini del continente africano. Come le loro controparti europee, come Henri Matisse e Pablo Picasso, la loro ispirazione proveniva da maschere e sculture in legno del continente africano.
La Vogel sostiene di avere una visione lunga, tracciando una storia dell’arte africana fino agli anni Sessanta del Novecento, senza riconoscere che questa genealogia è almeno due volte più lunga di quella da lei presentata. Inoltre, questa storia dell’arte africana nelle istituzioni museali statunitensi, e nel più ampio panorama culturale, non riguarda solo le avanguardie europee e i modernisti, ma anche il posto dell’arte africana all’interno delle tradizioni filosofiche e dei movimenti artistici dell’America Nera, dei Caraibi e dell’Atlantico Nero. Per la Vogel, gli unici luoghi che contano quando si espone l’arte africana sono le istituzioni come il Met. La Vogel trascura, e in ultima analisi ignora, il modo in cui le istituzioni culturali alternative all’interno delle comunità Nere hanno sostenuto e si sono impegnate con le arti dell’Africa. C’è anche la realtà che la diversificazione della leadership curatoriale negli Stati Uniti presenta nuove opportunità per migliorare, rafforzare e rendere più paritarie le relazioni di scambio culturale con i musei e le istituzioni d’arte africane.
La Vogel esprime inoltre preoccupazione per quella che definisce “la famosa tradizione storica della scultura” e il suo abbandono rispetto alla più diffusa “arte e cultura africana contemporanea.” Per scultura storica intende forme d’arte, come sculture, olifanti (corni da caccia medievali) e maschere che hanno avuto origine nel continente africano, in gran parte prima del XX secolo. La Vogel sostiene la pratica di ricerca sul campo, che prevede viaggi in località rurali per osservare la produzione artistica in corso e per vivere con e tra i/le produttorз d’arte oggetto di studio da parte dellǝ ricercatorǝ. Secondo Vogel, questo tipo di lavoro antropologico sul campo ha prodotto una storia dell’arte “fondata sull’osservazione delle opere d’arte in situ e sulle relazioni personali dellз ricercatoriзcon i/le produttorз e i/le fruitorз dell’arte.” Moltз studiosз che praticavano questo approccio metodologico erano bianchз, una distinzione non menzionata da Vogel.
Per Vogel, quindi, l’arte contemporanea è in opposizione a quella tradizionale. Inoltre, elogiando i metodi antropologici, sostiene che chi trascorre tot anni in una zona rurale del continente ha maggiore competenza e autorità di chi è cresciuto nel continente e lavora con artistз viventi. Vogel sostiene che i/le curatorз recentemente selezionatз per guidare i dipartimenti d’arte africani non hanno la particolare esperienza della “generazione del lavoro sul campo.” Ipotizza che la loro selezione abbia dato poco valore alla formazione nelle arti tradizionali africane, che lei definisce la formazione “corretta”, ma a “altre competenze, soprattutto nella comunicazione, e a una familiarità con la cultura artistica africana contemporanea.” Tradizione e contemporaneità è una falsa dicotomia per due motivi. In primo luogo, presuppone che la contemporaneità si riferisca solo al XX secolo, in particolare al periodo successivo al 1950 (essenzialmente tutta l’arte dopo l’indipendenza del continente dall’Europa), e al XXI secolo. In secondo luogo, la generazione del lavoro sul campo si è affidata ad artistз viventi per studiare le opere storiche, senza riconoscere che lз artistз con cui hanno lavorato erano contemporaneз al loro tempo.
Non è chiaro se Vogel se ne renda conto, ma la generazione del lavoro sul campo nella Storia dell’arte e nella curatela era quasi esclusivamente bianca. Più di recente, le discipline umanistiche hanno rivisitato la loro storia e sembra improbabile che la Vogel non ne fosse consapevole. Molte delle sue critiche risultano prive di tono. La sua visione dell’arte africana è ancora incentrata su uno sguardo bianco, rafforzando l’idea che lз creatori d’arte africana debbano ancora stabilire il valore delle loro tradizioni artistiche storiche per il pubblico occidentale. Sarebbe piuttosto produttivo generare un modo di pensare concettuale e analitico in cui l’arte africana sia fatta senza giustificazioni o scuse. Il radicamento in una pratica artistica contemporanea introduce importanti possibilità di scambi significativi e collaborazioni durature con individuз e istituzioni del continente e della diaspora.
Per essere accreditatз e assuntз nei musei statunitensi o nell’accademia nel campo dell’arte africana, un tempo era necessario frequentare scuole di livello universitario come Harvard, Princeton, Yale e Columbia. A parte le difficoltà finanziarie nel perseguire una carriera curatoriale e museale nell’arte africana, i programmi di laurea in arte africana al di fuori di queste università erano ancora meno numerosi. Ad esempio, solo nel 2012 il Williams College (la mia alma mater), noto per il suo programma di storia dell’arte e per la formazione di direttori di musei, ha assunto un esperto di arte africana a tempo pieno. Ora questo pedigree non sembra più essere l’unico percorso, con grande dispiacere della Vogel. La studiosa dà voce ai suoi timori ed esprime un giudizio senza impegnarsi a fondo nel lavoro di questa “nuova” schiera di curatorз. Il suo giudizio immediato elimina ogni beneficio della retrospettiva. Questз curatorз appena selezionati non hanno occupato la loro posizione abbastanza a lungo da poter essere criticati per i meriti del loro lavoro. Le loro istituzioni lз hanno incaricatз di reinstallare per molti anni le loro gallerie d’arte africana e di effettuare impegnative ricerche sulla provenienza. La politica della competenza di Vogel riguarda le risorse e il capitale culturale. Si tratta anche, sebbene lei si rifiuti di riconoscerlo, di razza, genere ed esclusione, tutte aree che la disciplina storica dell’arte e le professioni museali hanno faticato ad affrontare.
Quando la Vogel scrive che “i/lз candidatз più convenzionali sono statз scartatз” per le posizioni nei musei statunitensi, il/la lettorз informatǝ, conoscendo la storia del settore e della disciplina, è portatǝ a pensare che intenda “bianchз”. D’altra parte, si ha l’impressione che la Vogel dia per scontato che i/le suoз lettorз siano bianchiз e che capiscano che si riferisca allз bianchз e che siano solidali con le sue opinioni. La Vogel usa la propria competenza e mezzo secolo di esperienza per discutere apertamente di chi ritiene sia adattз a curare l’arte africana. Ciò che è ancora più preoccupante è che la statura di African Arts offre alla Vogel una piattaforma per denigrare e punire i/lз colleghз di grado inferiore. Le dichiarazioni della Vogel e la pubblicazione di questo scritto da parte di African Arts illustrano ciò che la teorica e storica della cultura Saidiya Hartman chiama “i protocolli delle discipline intellettuali” che sono in gioco e la violenza ad essi associata. In Venus in Two Acts, la Hartman si confronta con il tentativo di scoprire qualcosa su Venus che non è disponibile negli archivi storici, e afferma,
La storia di resistenza che non sono riuscita a raccontare e l’evento d’amore che ho rifiutato di descrivere sollevano importanti questioni su cosa significhi pensare storicamente a questioni ancora contestate nel presente e alla vita sradicata dai protocolli delle discipline intellettuali.
Nel “dialogo” di Vogel si assiste a una perniciosa svalutazione e a un’azione di polizia nei confronti delle voci femminili Nere provenienti dagli Stati Uniti e dal continente africano. Non c’è da stupirsi che moltз dellз studiosз che Vogel attacca abbiano evitato la prospettiva storica dell’arte tradizionale.
Ci troviamo in un momento in cui un costrutto istituzionalizzato occidentale, come l’arte africana, sta perdendo la sua leggibilità, rilevanza e importanza. Lз artistз che il campo dell’arte africana ha a lungo evitato e relegato al “contemporaneo” hanno preannunciato questo momento quando negli anni ottanta e novanta del novecento sono statз lasciatз a discutere e ad affrontare l’impatto delle conversazioni sul multiculturalismo nei musei. Moltз di questз artistз hanno abbracciato il concetto di “post-Black” come spazio alternativo per il pensiero creativo e la pratica estetica. La curatrice e direttrice di museo Thelma Golden ha sviluppato e portato avanti questa idea nell’ambito della sua pratica espositiva presso lo Studio Museum di Harlem. Il “Post-black” è un esempio di tradizione alternativa che Vogel prende di mira invocando una politica di competenza e, nel processo, respinge sia gli interventi curatoriali consolidati sia gli studi cruciali. Allo stesso modo, gli scritti del compianto Stuart Hall sull’arte contemporanea e sui musei britannici illustrano la posta in gioco della politica della competenza di Vogel. Nel saggio Museums of Modern Art, Hall considera i limiti di alcuni concetti artistici e l’inclinazione ad attribuire un “post” a certe terminologie:
L’impulso che costituisce un particolare momento storico o estetico si disintegra nella forma in cui lo conosciamo. Molti di questi impulsi vengono ripresi o riattivati in un nuovo terreno o contesto, erodendo alcuni dei confini che hanno fatto sì che la nostra occupazione di un momento precedente sembrasse relativamente chiara, ben delimitata e facile da abitare, e aprendo al loro posto nuovi vuoti, nuovi interstizi.
Le nozioni di “arte africana”, “tradizionale”, “espertǝ” e “campo” della Vogel escludono le persone e le conversazioni non allineate con la ricerca storica tradizionale. Limita le definizioni di Nerezza e africanità. Pertanto, le affermazioni della Vogel rischiano di essere irrilevanti rispetto ai più ampi cambiamenti in atto al di fuori del campo dell’arte africana.
In sintesi, Vogel sostiene un campo in cui la sua esperienza, la sua voce, il suo pedigree, il suo approccio metodologico e le sue interpretazioni contano. Le recenti assunzioni da parte dei musei mettono in discussione la posizione, la visione del mondo e la capacità di Vogel di determinare la posizione delle arti africane nei musei e nelle istituzioni accademiche. Questa messa in discussione e controllo della legittimità dellз studiosз e dellз curatorз Nerз all’interno dei musei e degli spazi accademici non è una novità. Forse dovremmo lasciar morire l’arte africana come campo di studio. L’arte e la cultura materiale del continente non dovrebbero essere relegate in una prigione così specifica e limitante. La sfida è stata e sarà sempre quella di non abboccare all’esca di Vogel e di continuare a costruire su tradizioni scientifiche che definiscono il campo, come il concetto curatoriale di “post-Black” di Golden e gli scritti di Suzanne Césaire sul surrealismo, che si sono sviluppati a lungo al di fuori del campo dell’arte africana.
Questa articolo è stato pubblicato nella sua versione originale in inglese su Africa is a Country, con il titolo ‘Outside The Field of African Art’
Questo articolo è disponibile anche in: en

GRIOT
Condividere. Ispirare. Diffondere cultura. GRIOT è uno spazio nomadico, un botique media e un collettivo che produce, raccoglie e amplifica Arti, Cultura, Musica, Stile dell’Africa, della diaspora e di altre identità, culture e contaminazioni.