Latedjou | Di Língua Livre, Strascichi Coloniali E Delle Complessità Del Non Parlare La Lingua Dei Genitori

La lingua è uno strumento che consente diversi livelli di interazione, significato, comprensione. Forse è il superpotere più raro della razza umana, ma anche uno degli strumenti più potenti per la colonizzazione e, di conseguenza, per la decolonizzazione. Le complessità linguistiche sono particolarmente importanti nel definire le strutture, le interazioni e le dinamiche che plasmano la società, e se da un lato giocano un ruolo cruciale nel creare l’identità delle persone e nel formare un senso di appartenenza, dall’altro aprono l’abisso dell’oppressione, del trauma generazionale che celano.
Senza timore di avventurarsi in queste conversazioni, anzi rendendole il centro della sua pratica artistica, Latedjou è l’artista visiva e strumentista autodidatta che attraversa ed esplora questi temi attraverso incantevoli viaggi musicali e visuali. La sua personalità frizzante e curiosa, così come la sua sete di creatività, sprizza dalla sua voce mentre mi racconta le fasi del suo sviluppo artistico e il processo creativo del suo ultimo progetto, Língua Livre, che indaga la complessità del non parlare la lingua dei genitori.
Angolana-beninese, Latedjou parla cinque lingue, canta, suona violino, tastiera e percussioni. Non ha studiato musica a livello accademico, ma usa il suo intuito e i suoi sensi come bussole per guidarla nella composizione. Ricevere un violino da suo fratello—in retrospettiva un regalo molto fortuito—è stato l’innesco del suo impulso creativo all’età di 17 anni. Oggi residente a Luanda, Latedjou si è laureata in Francia, poi ha trascorso un anno sabbatico a Berlino prima di trasferirsi a Londra, dove—interessata all’arte contemporanea e al modo in cui rispecchia le complessità della vita reale—ha fatto un master in Analisi Critica e Creativa. Quando si trovava a Berlino, Latedjou ha finalmente avuto il tempo di prendere lezioni di violino e concentrarsi interamente sulla musica mentre lavorava in una galleria d’arte contemporanea.
Una volta tornata in Angola, ha iniziato a lavorare al suo primo EP, O Baile Dos Sentidos (2017), dove ha preso vita il suo tipico stile pizzicato. “Era proprio come una sorta di puzzle: avevo tutto ciò che avevo imparato con i miei insegnanti a Berlino, avevo il mio background da autodidatta, quindi è stato naturale fare musica da sola, così come sapevo farlo. Ho iniziato a lavorare con un registratore multitraccia ed è così che ho registrato il primo EP. Quando è uscito, ero davvero diventata dipendente da quel processo, quindi l’ho fatto di nuovo per il secondo album, Língua Livre.”
Essendo cresciuta in un caos ordinato culturale e linguistico che ha plasmato sia la sua identità che la sua ricerca artistica, lingua e linguaggio sono temi ricorrenti nei suoi progetti, e in Língua Livre, Latedjou segue una figura alla ricerca della propria lingua madre esplorando le complessità del crescere senza questa abilità linguistica (soprattutto nel contesto specifico dell’Angola dove le lingue locali occupano un posto piuttosto secondario rispetto alla lingua ufficiale) ed esaminando la violenza intrinseca degli strascichi di una lingua coloniale nella società contemporanea.
GRIOT: Il tuo ultimo EP, Língua Livre, segue un personaggio alla ricerca della propria lingua madre. Quante lingue parli? Qual è il tuo rapporto con queste lingue? Come si legano al tuo subconscio e come si manifestano nella tua realtà?
Latedjou: Parlo quattro lingue e mezzo, quasi cinque. In ordine di come le ho imparate: francese, portoghese, inglese, tedesco e sto imparando il Fon, che è una delle lingue locali parlate in Benin, la lingua che parla mia madre e che sto imparando con lei consapevolmente a un età adulta.
Sono cresciuta a Luanda, ma mia madre parlava sempre in Fon al telefono con le sue sorelle. È stato molto naturale per lei parlare in Fon e non in francese, la lingua ufficiale, perché è molto normale per i Beninesi parlare la lingua locale in Benin — cosa che non succede qui in Angola. Questo è dovuto al modo in cui i regimi coloniali hanno avuto una politica di assimilazione culturale molto mirata e qui in Angola è stato molto violento, anche se non se ne parla in quanto tale. Quindi crescendo non ho sentito mio padre parlare Kikongo, la sua lingua madre, quanto ho sentito mia madre parlare Fon in un paese straniero per lei. Mio padre parlava in Kikongo quando mia nonna tornava a casa; quando volevano dire qualcosa che non volevano farci capire. Sembrava un po’ come una lingua segreta e poi tornavano al portoghese. Con i miei genitori parliamo anche in francese che è la nostra lingua franca, la lingua in cui i miei si sono conosciuti e con cui ci hanno cresciuti.
Prima mi riferivo al francese come la mia lingua madre, ma ora sono molto specifica sui termini che uso. In francese, come in altre lingue coloniali, il termine “lingua madre” è usato per riferirsi alla prima lingua che si impara da bambini e che, per estensione, dovrebbe essere la lingua della madre. Per molti dei nostri paesi africani questo termine ha tutta un’altra dimensione. Potrebbe essere la lingua di tua madre o di tuo padre ma, più di ogni altra cosa, è la lingua della tua gente. “Lingua madre ”è persino usato in opposizione a ciò che rappresenta la lingua ufficiale, che invece detiene lo status di qualcosa di estraneo in un certo senso. Credo che tutte queste realtà abbiamo fatto emergere tutte le mie domande sul linguaggio mentre crescevo.
Sento il portoghese come una lingua che ho imparato, quindi a volte sento ancora un po’ lo sforzo. È un rapporto distante, perché sono cresciuta parlando francese, ma anche per il peso interiorizzato che deriva dal dover parlare correttamente una lingua ufficiale. L’ho sentito molto qui a Luanda, anche più di quanto non lo sentissi con il francese. Probabilmente perché ero qui, vivendo in un paese dove potevo ancora percepire come la violenza coloniale avesse permeato le nozioni di lingua in generale: il suo uso, il giudizio, la categorizzazione, la gerarchizzazione e la disumanizzazione che ne derivano — tutti questi elementi sono alcune delle conseguenze del dominio coloniale sulla cultura.
Diciamo che il portoghese ed io siamo in conflitto per quanto riguarda il contesto della colonizzazione, e volevo esplorare parte di questo conflitto attraverso Língua Livre. Sono molte le domande legate all’uso di questa lingua e sono argomenti delicati per me: il fatto che possa essere usato come riferimento per determinare da dove vieni, quale sia il tuo background sociale, culturale e la classe a seconda di come parli e delle parole che usi, e come tutto ciò può essere utilizzato per favorirti o sfavorirti in qualche modo, sia nel contesto sociale generale, sia nella sfera specifica del lavoro, per esempio. Per me tutto questo è indissociabile dalla storia di una lingua ufficiale obbligatoria, imposta in un contesto di violenza dove, di conseguenza, popolazioni locali di diversa estrazione culturale hanno stabilito con essa complesse relazioni. Quindi, la lingua ufficiale è un po’ la tua lingua perché ne hai bisogno e la parli per navigare ogni giorno, ma allo stesso tempo non lo è in un certo senso, perché non la parli entro i confini del suo canone imposto, o perché non è la lingua della tua famiglia.
In questa lingua ci sono anche molte parole che sono ingombranti e sono un riflesso diretto della sua storia di dominio e gerarchizzazione dei popoli. In particolare, sto pensando alla pletora di parole usate qui per riferirsi al tono della pelle, ai lineamenti, alla consistenza dei capelli o all’accento, per esempio, e a come tutte quelle parole partecipino attivamente all’oggettivazione e alterazione dei corpi, prendendo l’egemonia del bianco come riferimento dell’Essere legittimo e soggettivo. Tutti i paesi che sono sopravvissuti alla difficile situazione del colonialismo sono ancora alle prese con questi problemi, ma mi sembra che a volte qui non se ne parli apertamente come nella Diaspora. Forse a causa del presupposto che, poiché abitiamo spazi in cui la maggioranza di noi è Nera, non dobbiamo affrontare con fermezza e intenzionalità le complessità delle violenze e dei dolori che la supremazia bianca ha portato e ancora porta, ma dobbiamo farlo. Prendiamo ad esempio il colorismo, un sottoprodotto del razzismo ugualmente radicato nella gerarchizzazione dei corpi per sostenere il mito della supremazia bianca, e anche un forte strumento di alterazione sociale. Qui accade abbastanza frequentemente, ma non osiamo affrontarlo apertamente perché forse pensiamo che non sia una conversazione rilevante da avere.
Quali sono le analogie tra la tua storia e quella del protagonista del tuo EP?
Mi ritrovo in quel personaggio—mi piace giocare con i personaggi, è stata una cosa molto interessante che è successa abbastanza per caso nel primo EP per cui ho girato il cortometraggio sperimentale, Ancêtre de Sable Rouge. Ma c’è anche una parte di me che non ci si ritrova, perché le nostre identità sono così complesse che a volte mi ritrovo persino a rifiutarla. Le mie nozioni di identità sono cambiate mentre mi spostavo da un posto all’altro.
Nell’album era importante sottolineare il fatto che questo personaggio si dichiara apertamente orfano della sua lingua madre, perché c’è anche un sentimento di vergogna legato a chi non la parla. Quindi aveva un senso esporre la consapevolezza di essere cresciute/cresciuti senza quelle informazioni culturali.
Usi il mezzo filmico in un modo molto potente. Parlami di questa tua passione per il video e le immagini; dei luoghi che ci mostri, che cosa rappresentano?
Ho iniziato a esplorare il linguaggio visivo durante le riprese di O Baile dos Sentidos. Volevo davvero iniziare ad esplorare con i miei sensi e soprattutto con la mia intuizione, perché sono la bussola che uso per comporre. Ho davvero cercato di distaccarmi dal pensare troppo o dall’essere troppo critica. Ero qui a casa a Luanda, osservando oggetti, cose che corrispondevano alle parole e ai sensi, e le catturavo con la camera, con i miei occhi. Così ho iniziato a creare il primo video.
Ancêtre de Sable Rouge è stato girato principalmente in Benin, ma alcune delle riprese sono state fatte a Luanda, ed era legato a dei suoni che volevo richiamare: volevo vedere l’acqua, una donna; il rosso; e volevo abbracciare lo schermo, sentire le trame. Ho giocato con la camera, mettendola tra le tende, facendo close-ups ecc.
Ho anche diretto un cortometraggio chiamato Ndozi Blues, che mette in luce le conseguenze moderne di una regolamentazione coloniale che riguarda i nomi. Qui in Angola, può spesso essere difficile per i genitori registrare i propri figli con un nome in una lingua africana se lo desiderano. Il regolamento in questione richiede che il secondo nome del bambino sia in una lingua latina, in modo da determinare il sesso del bambino (poiché la maggior parte dei nomi africani non rivela il sesso). Questo non è quasi mai presentato come un motivo all’ufficio di registrazione – il che forse lo rende un regolamento piuttosto informale in quanto tale – ma i nomi nelle lingue africane vengono effettivamente rifiutati innumerevoli volte. Molto spesso, i genitori sono costretti a cambiare il nome del bambino sul posto. Il personaggio del mio film sperimenta il risultato di quella violenza istituzionale, poiché si trova coinvolta nella dualità del nome rifiutato, Ndozi, e del nuovo nome che gli viene dato in sostituzione, Sonha, che in realtà è la (quasi) traduzione portoghese della parola «ndozi», che in Kikongo significa «sogno». La realizzazione di questo film ha anche influenzato il mio rapporto con l’immagine in generale, con l’esplorazione dei colori sullo schermo e con la pratica del racconto attraverso le immagini.
Invece il video di Zola-Na-Luz-Água, il primo singolo di Língua Livre, segue un personaggio che sperimenta flashback traumatici ogni volta che entra in contatto con l’acqua e la luce. Entrambe le componenti servono come metafore per tutti quegli elementi ed eventi coloniali che sono molto presenti nella vita di tutti i giorni e che agiscono come fattori scatenanti che sono molto violenti per la nostra psiche. È stato interessante e intrigante portare in superficie quelle analogie attraverso la forma visiva.
Per Ai Tché Do Nu Mi ero in Benin. Ho fatto un viaggio nel nord del paese, era la prima volta che andavo in quella regione del Benin. La natura è davvero mozzafiato lì e tutto ciò che stavo filmando, stavo scoprendo e osservando per la prima volta, quindi penso che traduca bene il senso di essere in soggezione di ciò che si sta vedendo. In realtà ho iniziato a filmare prima di registrare la canzone, avevo solo la melodia in testa e non conoscevo la durata in ogni ripresa. Ai Tché Do Nu Mi, significa “me lo ha detto la mia anima”. È il gruppo di parole che si usa per tradurre la parola “intuizione” in Fon, e quando l’ho scoperto ho pensato che effettivamente c’è modo migliore per tradurre la parola “intuizione”. All’inizio volevo intitolare l’album “intuizione” e ed ero in cerca di altre le parole. È stato allora che mia madre mi ha spiegato il significato di intuizione in Fon, ed è così bello che ho pensato che sarebbe stato il nome di una canzone.
Si possono trovare molti messaggi nascosti, subliminali nel tuo lavoro, sia visivamente che a livello di significato. Parlami della copertina dell’EP: chi è quella donna? Cosa c’è fuori da quella finestra?
Mi viene quasi voglia di dire: non lo so! Questa copertina è stata realizzata da Moufouli Bello, un’artista visiva beninese. Per me è stato molto importante coinvolgere un artista visiva del Benin per la copertina. Lei lavora molto con il blu, io amo il blu e la combinazione di blu e rosso è fantastica. Lei ha avuto l’idea, ne abbiamo parlato e ci siamo capite subito, perché Língua Livre esplora il linguaggio e i suoi diversi strati; la differenza tra “língua” e “linguagem” (lingua e linguaggio), questa raccolta di elementi che usiamo per comunicare che non sono necessariamente una lingua; l’idea di accogliere voci che non provengono necessariamente da questa dimensione, ma che provengono da una comunicazione ancestrale, come una nonna o una bisnonna che cerca di mettersi in contatto, custode di segreti, conoscenze, tesori, quelle informazioni che a volte riceviamo, ma che non sappiamo da dove vengano. Penso che il personaggio sulla copertina incarni il mistero di quelle voci.
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Sono una persona molto eclettica con un’ossessione per la musica e la sociologia. Nata e cresciuta in Italia, Londra è diventata la mia casa. Qui creo beat, ballo, canto, suono, scrivo, cucino e insegno in una scuola internazionale.