Kader Attia | Il Corpo Postcoloniale – Sorvegliare Se Stessi Per Non Essere Sorvegliati

Kader Attia è tante cose, ma al momento è un uomo incredibilmente prolifico. Nel giro di un anno è riuscito a inserire nel suo programma le biennali di Gwangju, Shanghai e Venezia, un documenta a Kassel, e Manifesta a Palermo, per non parlare delle varie mostre che si svolgevano contemporaneamente in varie città del mondo.
L’artista algerino-francese classe 1970—divide il suo tempo tra Algeri e Berlino—ha tenuto mostre personali, acclamate dalla critica, alla Hayward Gallery di Londra, alla Fundacio Joan Miro, Barcellona, al MacVal in Vitry-sur-Seine, al Beirut Art Center e al KW Institute for Contemporary Art, Berlino. Nel 2016 è stato insignito del Premio Marcel Duchamp, seguito nel 2017 dal Premio della Fondazione Miró, Barcellona, e dallo Yanghyun Art Prize di Seoul.
Il suo intensivo lavoro di ricerca nel corso degli anni ha esplorato il tema della riparazione—sia simbolicamente, nel suo lavoro artistico, che intellettualmente, nei suoi scritti. Il presupposto di questa sua attività è che la riparazione è un processo infinito che riguarda qualsiasi sistema o istituzione. Attia afferma di essere arrivato al concetto di riparazione pensando al contesto del colonialismo e ai processi di resistenza. Per lui, la Resistenza è la conseguenza di una naturale reazione al colonialismo, così come la riparazione—spesso—è una risposta naturale alla distruzione. E al centro del suo lavoro The Body’s Legacies, Part 2: The Postcolonial Body (2018) c’è il corpo. L’installazione video di 48 minuti è un’esplorazione dello spazio del corpo immigrato all’interno delle società occidentali, svelando i tratti che gli sono stati attribuiti storicamente e che fino ad oggi continuano a plasmare le percezioni.
Sia che venga considerato particolarmente forte, sia che vengua sessualizzato o controllato nelle strutture capitalistiche del lavoro precario e dell’edilizia popolare, il corpo postcoloniale immigrato appare sempre come la rappresentazione dell’Altro, come parte di una narrazione che può essere fatta risalire al periodo coloniale e alla propaganda imperialista.
Il tristemente famoso scandalo di Luhaka del 2017 offre un adeguato punto di partenza per il suo film, anche se non è immediatamente ovvio. Parte del materiale precede la discussione su Luhaka, anche se molte persone che potrebbero avere familiarità con il caso, potrebbero riconoscere subito l’arco narrativo.
Per esempio, troviamo una serie di immagini di uomini anziani dell’Africa del nord e occidentale che vivono la loro vita negli spazi pubblici di Parigi. Una generazione di uomini andati in Francia come “lavoratori ospiti”, che oggi stanno discretamente sfatando quel mito del ritorno che suggerisce il termine “lavoratore ospite”. Sono fotografati in modi che giustappongono i loro corpi a contesti parigini di tutti i giorni, come se volessero fornire una tela su cui si possano porre questioni contemporanee di cittadinanza, di essere e di appartenenza.
Il 2 febbraio 2017, il ventiduenne Théo Luhaka interviene mentre la polizia, nel sobborgo parigino di Aulnay-sous-Bois, senza apparente motivo chiede a un suo amico di verificare l’identità. Luhaka viene arrestato. Un arresto condotto con una forza sproporzionata. Théo Luhaka riporta gravi ferite, inclusa una nel retto, causata dal tentativo di un poliziotto di inserirgli un manganello durante l’arresto. Il caso diede il via a una serie di proteste diffuse contro la brutalità della polizia e mise in luce l’emarginazione dei giovani nella periferia nord di Parigi.
In The Body’s Legacies, Part 2: The Postcolonial Body, le sopracitate narrazioni che circondano il corpo postcoloniale vengono scompattate in relazione al caso di Luhaka attraverso conversazioni con quattro protagonisti, tutti consci della politica del corpo in atto nella Francia postcoloniale. I protagonisti sono discendenti di persone schiavizzate e/o colonizzate e sono essi stessi probabilmente soggetti alla politica del corpo attuata nello Stato e che analizzano nel film. Discutono del caso, citando ripetutamente modelli di violenza che creano vite inimmaginabili e un desiderio paradossale tra i giovani emarginati di essere invisibili (in modo da non essere molestati) e visibili (in modo da essere riconosciuti come cittadini a pieno titolo della Francia). In questo modo, il corpo postcoloniale è costretto a vietarsi di apparire; sorvegliare se stesso per non essere sorvegliato dallo stato e dallo sguardo di coloro che si considerano pienamente cittadini della Francia.
The Body’’s Legacies, Part 2: The Postcolonial Body apre uno spazio di riflessione serio sulla politica del corpo nelle democrazie occidentali, sulle continuità del colonialismo, la violenza e lo stato, nonché sulla migrazione storica. Rivisitando il caso di Théo Luhaka dopo lo sdegno, l’installazione di Attia né indica gli aspetti sistemici e istituzionali, alludendo alla necessità di rivalutare, recuperare o persino riparare non solo l’organismo postcoloniale, ma anche i sistemi e le istituzioni che lo governano.
The Body’s Legacies, Part 2: The Postcolonial Body’ verrà proiettato il 6 (h 18 – 24) e il 7 settembre (h 16:30 – 24) presso WeGil (Salotto) al Festival ‘Short Theater – Visioni d’insieme’ (6-14 settembre 2019), Roma.
L’installazione è compresa nel biglietto di ingresso, unico e giornaliero, che include la lectio magristralis della femminista i Françoise Vergès, ‘Femminismo decoloniale’ ( 7 settembre | h 18.00, WeGil – Piscina | 1 h – Ingresso Libero), che insieme ad Attiah fa parte del collettivo artistico ‘Décoloniser les arts’.
In programma anche al Macro Pelanda il 10 e 11 settembre (h 20- 24), con ingresso gratuito.
GRIOT è media partner di Short Theatre – Visioni d’Insieme 2019. Scopri il programma completo del Festival.
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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.