Jojo Abot | “Nessun Posto Al Mondo Mi Deve Qualcosa”

di Eric Otieno Sumba - Pubblicato il 16/07/2018

Jojo Abot è un belissimo enigma, un robot spirituale, una cercatrice del divino. È anche un’artista multimediale che si esprime attraverso sonorità afro-ipnotiche, arte visiva e performance mozzafiato. Ha girato in tournée con icone come Lauryn Hill e si è esibita sui palchi di tutto il mondo, dal concerto di Capodanno a Times Square, New York, al festival WOMAD in Australia, all’Afropunk Fest di Johannesburg. Incarna a pieno il desiderio di creare, esprimersi e trasformarsi, sia in maniera indipendente che con altri.

Abbiamo incontrato a Johannesburg Jojo, un’artista unica nel suo genere, prima che partisse per la sua residenza al National Sawdust di New York, dove il 14 luglio ha tenuto la sua performance POWER TO THE GOD WITHIN. Di cosa abbiamo parlato? Della sua vita negli ultimi tempi e della pratica creativa.
griot-mag jojo-abot-artista-performer-ghana-intervistaGRIOT: Da quanto sei a Johannesburg?

Jojo Abot: Più o meno da dieci mesi. È stato un vero e proprio viaggio per me e Johannesburg, che sta crescendo. Resterò qui finchè mi troverò bene. So che passerò l’estate a New York, quindi si tratta di capire se vorrò stare in Ghana o in Brasile l’ultimo quarto dell’anno. In un certo senso è divertente che puoi completamente pianificare il tuo anno e che le cose vadano come vogliono andare. In genere durante questo processo cerco di essere aperta.

Viaggiare alimenta la tua creatività?


Bhè, sono sempre in giro.
Penso di non essere mai veramente ferma ovunque. Sono sempre pronta a entrare ed esistere in altri spazi. Come si può parlare di un’esperienza se non l’hai mai vissuta? Penso che in questo modo sia più semplice capire il valore della crescita che vivo quando viaggio. Non sento che c’è una parte di mondo che mi deve qualcosa, e quando entro in questi spazi non ho delle aspettative rigide. Finisco per ritrovarmici grazie a energie più grandi che si uniscono per far sì che anche le opportunità diventino reali. Per me si tratta davvero di essere presente e vedere il risultato finale che ne deriva.
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Bene, sei stata fedele al continente! Un paio di anni fa eri a Nairobi per rivitalizzare la comunità di creativi con una Residenza chiamata “Afri-Na-Ladi”. Raccontaci di più.

Sono andata a Nairobi per suonare all’Africa Nouveau Festival. E solo questa cosa era già eccitante. Mentre ero lì ho incontrato un gruppo di cinque ragazzi che ora sono gli EA Wave. Ho provato questa forte attrazione nei loro confronti. Ho sentito che avevano qualcosa di musicale e creativo che volevo esplorare, anche se non sapevo esattamente cosa fosse. Dovevo tornare a New York, ma ho detto loro che sarei tornata e che avremmo lavorato insieme. Alcuni mesi dopo ero di nuovo a Nairobi.

Afri-Na-Ladi è stato un tentativo molto audace di guardare a come potrebbe essere il nostro futuro come creativi. In quanto giovane creativa africana, mi chiedo sempre cosa potrebbe accadere se le realtà delle persone venissero cambiate solo attraverso l’esperienza e l’esposizione. La mentalità può cambiare e si può dare una spinta alle idee. È una questione di espressione creativa essere accessibile ai giovani, non essere confinata nella propria esistenza. Ciò richiede che il processo di crearenon di creazionesia accessibile alle persone che operano in diversi spazi, perché sono loro che porteranno avanti quel linguaggio. Se queste persone non hanno le stesse opportunità e risorse, allora come possono dar luce al loro miglior lavoro con le risorse che hanno? Così sviluppano il proprio linguaggio usando le risorse che hanno, piuttosto che uccidersi per lavorare con strumenti occidentali che non sono intrinsecamente i loro, o ai quali è difficile accedere.

Come hai vissuto la comunità creativa quando sei arrivata?

Credo che in alcune città succedano molte più cose all’interno dell’industria [creativa], che è un po’ più avanti. A Nairobi è ancora molto fresca. I giovani si stanno chiedendo chi sono. Naturalmente la storia ha un ruolo in quella sorta di perdita del sé, che col tempo può portare ad incuriorirsi e a desiderare di riprendere coscienza di se stessi. Essendo figli di una generazione che si prende rischi calcolati e mira a vivere secondo lo standard occidentale del successo, i nostri genitori ci dicono di andare a scuola, di prenderci una laurea e di raggiungere l’ideale occidentale.

In tutta questa fretta del vivere una “vita migliore e mirare più in alto”, i giovani cominciano a domandarsi, in quanto cittadini, cosa serve come prova, promemoria o misura della loro identità e del loro patrimonio. Questa curiosità porta a indagare se stessi; a chiedersi anche quale sia il vero suono Swhaili; a domandarsi quale sia la nostra connessione con il resto dell’Africa orientale, cosa significhi essere est-africano, come suona la musica tradizionale indigena. Molti di questi bambini hanno cominciato a meravigliarsi insieme all’ondata di risveglio collettivo che si sta manifestando a livello globale.

Credo che sia in quella fase che queste curiosità sul sé hanno iniziato a ispirare i giovani, a spingerli a ritrovarsi attraverso la sperimentazione e la scoperta. Gli elementi per una rivoluzione culturale e il risveglio erano tutti lì. Tutto quello che era necessario erano le risorse e una guida. Pù una guida, in realtà.

Accra, Nairobi, Johannesburg: come vivi l’Io in questi luoghi diversi?

Le negoziazioni sull’identità sono qualcosa che riconosco, ma scelgo di non indulgere. Il processo di negoziare effettivamente la tua identità all’interno di uno spazio che occupi nel tempo implica che hai bisogno di affermare la tua identità, come la interpreti all’interno e in relazione a quello spazio. Ad ogni modo, inizi a incontrare lo spazio che stabilisce o ti sovrappone un’identità a causa di chi gli altri percepiscono tu debba essere. Tra questi due, c’è bisogno di decidere e stabilire da soli chi sei disposto ad essere.

Questo succede a prescindere dal posto in cui ti trovi. Potrebbe essere lo stesso paese in cui hai vissuto in tutta la tua vita. L’identità cambia continuamente: quando siamo con le nostre madri, a quando siamo circondati dai nostri amici. Quando siamo in pubblico, rispetto a quando siamo in privato. Così nel tempo, viaggiando e occupando questi spazi, le conversazioni ruotano sempre di più intorno a chi conosciamo di noi stessi: chi siamo, versus chi siamo disposti a negoziare di essere.
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Un’altra cosa che si collega direttamente a questa idea del linguaggio personale è la conformità contro la deformità. Credo che mentre ci conformiamo nel tempo iniziamo a deformarci. Non c’è modo in cui possa esistere il vero sé mentre ci si sta ancora conformando. Per forza di cose, qualcosa dovrà spostarsi per fare spazio all’altro. C‘è anche un aspetto molto performativo nella vita. Punto. Quindi non si tratta solo della tua identità, come prescritta in base al colore della tua pelle: è il tuo sesso, la tua identità sessuale, la tua identità religiosa, il corpo che hai, le tue preferenze e così via. Ci sono tutte queste variabili da prendere in considerazione!

Se scegli di conformarti e rinegoziare la tua identità e la tua esistenza, inevitabilmente ti deformerai. Ci sono anche molti di noi che sono arrivati ​​a quel punto di deformazione ma non lo sanno perché “è così che va la vita”, giusto? Quindi, il mio essere nera lo vivo in maniera diversa mentre navigo il mondo? Assolutamente sì, perché la comprensione delle persone su chi dovrei essere e chi sono io è basata sul loro stesso senso di ego, esposizione, sulla loro esperienza, eccetera. Ma penso che ciò che è più importante in tutti questi costrutti sia essere me stessa: avvicinarmi ad un senso più ampio di comprensione del Sé, che è profondamente radicato.

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Immagini | Foto di Justice Mukheli – Per gentile concessione di JoJo Abot

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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.