‘Italiano Vero’ | Tommy Kuti Ci Presenta Il Suo Nuovo Album

di Claudia Galal - Pubblicato il 23/03/2018

La scena musicale italiana è attualmente dominata dai giovani idoli del rap e della trap, ma c’è ancora spazio per qualche personaggio interessante, che sia in grado di uscire dagli schemi e soffiare aria di novità sul pubblico sempre più ampio di questo genere.

Fra gli artisti più originali c’è Tolulope Olabode Kuti aka Tommy Kuti, rapper e produttore di origini nigeriane, cresciuto tra Castiglione delle Stiviere e Brescia, finalmente approdato a una major dopo tanti anni di gavetta tra contest di freestyle e mixtape, anche pubblicati con la sua vecchia etichetta creata da luiMancamelanina.

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Foto di Claudia Galal

I pezzi di Tommy Kuti sono difficili da etichettare con un genere preciso: le basi musicali sono in bilico tra l’hip hop della vecchia scuola e le ultime tendenze della trap, ma le sue spalle larghe celano uno spirito da cantautore moderno, un cantastorie del nostro tempo che utilizza le rime per descrivere la realtà che lo circonda.

Ci incontriamo in una Milano finalmente baciata dal sole, una primavera anticipata che sembra di buon auspicio per il lancio del nuovo album di Tommy, Italiano vero (Universal). Nove tracce che affrontano temi di stringente attualità in maniera schietta, diretta e ironica, impegnate ma capaci di comunicare con un pubblico ampio.

GRIOT: Il tuo volto scuro sulla copertina di un disco con questo titolo potrebbe disturbare diverse persone. Ti senti costretto ad affrontare certi temi, ti pesa parlare di Ius Soli, razzismo e integrazione?

Tommy Kuti: Sono contento di avere la possibilità di parlare di un argomento così importante come la legge sullo Ius Soli e di sfruttare la mia musica per spingere la gente a ragionare su certi temi. Mi rendo conto che molte persone, che magari non si erano mai fatte molte domande e non si erano mai sedute a riflettere sul diritto di cittadinanza, trovano un modo e un pretesto per farsi un’opinione attraverso le mie canzoni.
griot mag _tommy kuti italiano veroMi scrivono molto spesso ragazzi italiani, magari figli di leghisti e razzisti, proprio per ringraziarmi e dirmi che li ho aiutati ad aprire gli occhi, perché prima non avevano nemmeno capito quali fossero i termini della questione a causa delle informazioni ricevute dalla televisione, dai nonni, dai genitori, dagli zii… Sono onorato di parlare di queste cose, è giusto che la musica veicoli certi messaggi e abbia un impatto sociale.

Ti senti il peso di una responsabilità oppure trovi che per te sia un percorso naturale?

Non direi di sentire un peso, anzi, è una responsabilità che assumo consapevolmente e volentieri. Non tratto mai certi temi dal punto di vista della critica sociale in senso stretto, né mi piace sfruttare la strategia della costruzione di un nemico, cosa che invece avviene dall’altra parte. Non parlo di razzismo con rabbia, ma racconto semplicemente il mondo che mi circonda, senza necessariamente accusare né insultare nessuno. Lo faccio sempre con semplicità, naturalezza e una certa dose di ironia.

La strada giusta per affrontare certi temi è lasciarsi andare a un po’ di leggerezza. Per esempio, a volte ho la sensazione che le persone perse nel conflitto sì/no Ius Soli, come politici e intellettuali, creino dei dibattiti così altisonanti da farci perdere di vista la semplicità della questione.

Guardando la televisione e leggendo i giornali, mi pare proprio che permanga una forte tendenza a complicare le cose più del dovuto. Di sicuro la raffigurazione dell’immigrato, sempre e solo come criminale o clandestino da parte di certa informazione e di certi partiti, ha impedito che nell’opinione pubblica si formasse il concetto di ragazzo afroitaliano di seconda generazione.

Senza contare che quello della cittadinanza non è un problema che riguarda solo gli africani, ma in Italia vivono tantissimi ragazzi di seconda generazione di origini diverse, tutti accomunati dalla stessa frustrante situazione.

Pensi che la componente sociale sia intrinseca nella natura stessa dell’arte oppure che sia sempre una scelta dell’artista?

Credo che sia una scelta. Nel mio caso, in particolare, quella di inserire temi sociali è davvero una scelta che faccio consapevolmente, considerato il mio percorso di vita e le mie esperienze. Ogni giorno vivo a stretto contatto con il problema dello Ius Soli che non c’è, perché ho tanti amici e parenti coinvolti, ragazzi e ragazze di seconda generazione che non hanno la cittadinanza italiana, nonostante siano e si sentano italiani a tutti gli effetti.

Il pubblico del rap e della trap è molto giovane, lo dici nel pezzo Cliché, che contiene il featuring di Fabri Fibra, ma non si tratta solo di un luogo comune. Negli anni hai modificato il tuo modo di scrivere per assecondare un pubblico più giovane oppure è stato un percorso naturale?

Devo riconoscere che ultimamente il mio pubblico sta diventando eterogeneo. Si tratta sempre di ragazzi giovani, finalmente anche di seconda generazione, mentre paradossalmente all’inizio erano soltanto italiani.

Quasi tutte le canzoni che sono finite dentro a questo disco erano già pronte prima di iniziare a lavorare con la casa discografica. Sono cambiati i mezzi a mia disposizione–prima mi facevo le basi da solo e oggi posso lavorare con veri produttori–ma il mio modo di esprimermi è rimasto lo stesso, i temi sono gli stessi, i concetti che esprimo anche. Magari ho acquisito più maturità nella scrittura, ho imparato a esporre le mie idee in maniera più lucida e più chiara, ma il mio universo di riferimento non è mutato.

Il mio pubblico è cambiato, anche perché sono cresciute le persone che mi seguivano agli esordi e sono state sostituite da altre.

Per quanto riguarda i rapper più giovani di me, che ho già 28 anni e ho iniziato tardi, non mi sento in competizione con loro, anche se condividiamo lo stesso pubblico per una larga parte. Facciamo musica per ragioni diverse: io desidero comunicare alle coscienze delle persone, farle ragionare su determinati argomenti e portarle a riflettere, senza dimenticare ovviamente la componente dell’ironia e dell’intrattenimento. Però, è vero, ultimamente mi stanno facendo notare che sono vecchio…

The Way I Am, una delle prime tracce del disco, s’intitola come uno dei pezzi più famosi di Eminem. Lui era un bianco in un mondo di neri, tu invece sei un nero in un mondo di bianchi. Ti senti una sorta di Eminem al contrario?

Sì, il ragionamento intrinseco è proprio quello, mi diverte che tu mi faccia questa domanda. Quando ho visto il film 8 Mile, mi sono sentito rappresentato dalla storia di Eminem/Rabbit, perché durante la mia gavetta ai contest di freestyle ero sempre l’unico nero. Poi spesso ero l’unico nero anche nella vita, per esempio nella mia classe a scuola. Ho vissuto il disagio di sentirsi soli all’interno di un contesto consolidato, ma poi in qualche modo ho avuto la mia piccola rivincita, la rivincita della minoranza. Il paradosso era che mi sentivo in minoranza anche all’interno della comunità nera: per i bianchi ero quello nero, per i neri ero quello nero che voleva fare il bianco, perché non avevo i loro interessi, non giocavo a calcio, e mi interessavano altre cose.

The Way I Am è l’ultimo pezzo che ho scritto e anche quello che mi rappresenta di più, perché ho cercato di mettere in musica tutti i miei conflitti interiori, i subbugli della mia personalità. Mi sono guardato dentro e ho capito qual è il mio modo di essere, così l’ho accettato, ho fatto i conti con me stesso. È un punto cruciale dell’album, che è una sorta di concept, un viaggio nel mondo di Tommy.

Credo di essere il primo rapper nero italiano, sono proprio un oggetto strano e spesso mi è toccato lottare più degli altri. Ho notato che persino nel mondo della discografia nessuno sa bene come trattarmi, tutti mi fanno sentire come una novità e al tempo stesso colgo anche un certo imbarazzo, una specie di ansia a non fare figuracce.

Parlando di certi temi, come razzismo, ius soli ecc., sono subito inserito a priori nella categoria dell’attivismo politico e sociale, ma in realtà nella mia musica c’è anche altro. Quella è una componente importante della mia personalità, ma ce ne sono tante altre. E non parlo di certi temi solo perché sono nero, ma perché è la realtà che mi circonda. La mia quotidianità di giovane uomo nero cresciuto in Lombardia, a Brescia, in piena Padania, lo rende inevitabile. Se non parlassi di questo, di che cosa dovrei parlare?

Quali sono i tuoi riferimenti culturali, nella musica ma non solo?

Un libro che mi ha cambiato la vita è stato l’Autobiografia di Malcom X. Sono cresciuto in Italia, della lotta dei neri americani non mi aveva parlato nessuno, ma a 21 anni ero molto arrabbiato e alla ricerca di stimoli. Questo libro mi ha spinto a fare qualcosa per cercare di cambiare la situazione e ad approfondire la storia dei diritti civili e della comunità afroamericana negli Stati Uniti, riportando poi la riflessione sul piano italiano.

Ovviamente mi piace molto il rap americano, da LL Cool J e Tupac a Kendrick Lamar. Tupac, in particolare, mi ha sempre colpito per la sua capacità di veicolare messaggi importanti con la musica, nessun altro ha mai avuto la sua forza. Tuttavia, devo ammettere che mi sono appassionato prima al rap italianoFabri Fibra, Club Dogo, Vacca, Mondo Marcioe poi sono passato al rap americano.

Però, il mio modello principale è mio padre, che è riuscito ad arrivare in Italia trent’anni fa senza avere contatti. Non conosceva nessuno, per la prima volta vedeva la neve e si trovava immerso in un contesto sociale pieno di razzismo e ignoranza. Eppure ha fatto crescere e studiare un Tommy Kuti e altri quattro figli: siamo cinque fratelli e non ci è mai mancato nulla.

Immagine di copertina | Foto di Claudia Galal

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Metà italiana, metà egiziana, nata e cresciuta nelle Marche, passata per Bologna, adottata da Milano, lavoro nel campo della comunicazione e dei media. Scrivo di musica, street art e controculture, sono affascinata dalla contaminazione culturale a tutti i livelli.