Italiani Brava Gente? Risponde Vasco Forconi

Fino a qualche anno fa, prima che entrassi all’università—ma anche successivamente, seppur in misura minore—ho vissuto quel vuoto culturale che mi ha sempre portato a credere e pensare che l’Italia, rispetto ad altri paesi europei, potesse vivere più facilmente con la propria coscienza perchè la colonizzazione dei paesi del Corno d’Africa non era stata crudele e violenta. Ci sono stati dei momenti, tornando ancora più indietro nel tempo, quando a scuola il giorno dopo dovevi portare le due pagine di storia, in cui solo la Gran Bretagna e la Francia erano stati dei paesi colonizzatori.
Vasco Forconi, giovane curatore romano, oggi tenta di riportare in superficie la storia e l’esperienza coloniale italiana attraverso la collettiva video Italiani brava gente | Amnesie e memorie del colonialismo italiano. Un progetto importante—soprattutto nel mondo delle arti visive italiano—che affronta la memoria complessa del colonialismo italiano usando il filtro dell’amnesia, della cancellazione di un periodo storico.
Le violente occupazioni italiane dell’Etiopia, dell’Eritrea, della Libia e della Somalia, spiega Forconi, accompagnate dalla diffusione di politiche di razzializzazione che servivano a giustificare la presunta inferiorità del corpo e dell’identità dell’altro colonizzato, e a stabilire i presupposti per l’affermazione dell’italiano in quanto soggetto dominante, rappresentano la traccia più evidente di una mancata rielaborazione all’interno della sfera pubblica di memorie violente, stereotipi razziali e cronache revisioniste che sono sopravvissuti nel tempo.
Oggi questo passato lo ritroviamo in superficie, lo viviamo nel nostro quotidiano, in forme diverse e sempre violente.
Attraverso tre lavori molto diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di decostruire gli immaginari e le narrazioni generate durante l’epoca coloniale italiana, viene messo in discussione il falso mito degli «italiani brava gente», ovvero quello di un colonialismo in fondo docile e mai violento.
Ho fatto qualche domanda a Vasco Forconi durante la mia visita alla mostra.

GRIOT: Perché hai deciso di fare questa mostra? Da dove nasce questa tua esigenza?
Vasco Forconi: È un tema di cui mi occupo in modo privato da tanti anni. L’amnesia coloniale italiana è una sorta di anomalia nel sistema delle arti visive mondiale perché il post-coloniale e la decolonizzazione sono due orizzonti di pensiero di cui si parla molto all’estero, quasi all’eccesso, mentre se ne parla poco all’interno del nostro sistema arte. Questo perché il colonialismo italiano è stato nascosto sotto il tappeto, creando un vuoto di memoria. E anche fuori, chi studia l’Italia non riconosce e non vede il passato coloniale del paese. Parlando con Wu Ming 2 ho scoperto che molti studiosi e ricercatori, intervistando giovani migranti che arrivano dall’Etiopia, dalla Somalia, dalla Libia, hanno constatato che non sapevano che l’Italia avesse avuto un passato coloniale violento, al pari di altre potenze coloniali.
Questa mostra quindi arriva in un momento in cui c’è bisogno di mettere a sistema narrazioni che includano anche le arti visive. C’è bisogno di parlarne in rete, senza chiudersi. E questo lo dico perché qui abbiamo quelli che si delineano una zona di ricerca e se la tengono stretta, i gatekeepers. Ma credo che il bene comune, la causa comune sia molto più grande della rivendicazione individuale.
Nel suo piccolo “Italiani Brava Gente” prova a fare questo, offrendo tre sguardi. C’è lo sguardo esterno dell’artista sudafricana Bridget Baker, cresciuta a Londra, quindi sottoposta per gran parte della sua vita a un sistema di pensiero profondamente post-coloniale. Arrivata in Italia è rimasta stupita dall’assenza di narrazioni. Con il suo lavoro, The Remains of the Father, compie un’azione apparentemente molto semplice ma in realtà complessa: visualizzare un archivio, l’archivio privato di Giovanni Ellero, un etnologo che lavorava per il Ministero degli Esteri durante l’epoca fascista coloniale. Questo le ha permesso di inscrivere tutto l’orizzonte, gli immaginari che il colonialismo ha creato in quel che gli studiosi chiamano “difficult heritage”, un’eredità complessa con la quale noi dobbiamo dialogare. La Baker sente il bisogno di aprire questo archivio e rimetterlo in scena attraverso questa giovane ricercatrice eritrea che compie un’opera di traduzione molto lenta di A Contribution to the Birth of the Colonial Style. La riapertura dell’archivio è quindi la rielaborazione, la ricostruzione di questi archivi fino quasi allo sfinimento. Come se dicesse, “Dobbiamo consumarli questi archivi perchè sono rimasti chiusi per troppo tempo”.

Wu Ming 2 e il collettivo palermitano Fare Ala invece con il progetto Viva Menilicchi realizzano una mappatura dei luoghi legati alla memoria coloniale presenti a Palermo [vie, strade, luoghi, monumenti], un archivio urbano espanso che in qualche modo va rimesso in discussione. E tra le varie cose pescano una storia molto interessante, ironica: una manifestazione fatta dagli anarchici e dai socialisti palermitani nel 1896. Questo ci fa capire che l’Italia è stata colonialista sin dalle origini e che il colonialismo in qualche modo è servito a riunire e formare, così come per tante nazioni, un’identità nazionale, seppur fragile e frammentata.
Il progetto si chiama Viva Menilicchi perché queste persone organizzarono una contestazione contro la politica coloniale di Crispi [Francesco] sconfitto dall’imperatore etiope Menelik II nella battaglia di Adua e, durante una “passeggiata di beneficienza” organizzata per i caduti d’Africa, quado questa si fermó, gridarono “Viva Menilicchi”.
La famosa lingua di Menelik deve a lui il suo nome, e nel video viene evocata in tutta la sua irriverenza. È una storia che si mescola nella narrazione della Palermo contemporanea, con le uccisioni di alcuni africani, come Loveth [Eward], una ragazza nigeriana morta nel 2012 in via Barcellona. Uccisioni dimenticate, seppellite, che vengono legate a un discorso post-coloniale e alla memoria di questi luoghi ancora presenti nella città.

Alterazioni Video e Luca Babini propongono Black Rain (2011), un lavoro dichiaratemene scorretto che racconta Lampedusa attraverso una pioggia di uomini e donne [neri] che invade l’isola. Il loro lavoro cerca di decostruire quest’ossessione, non solo italiana ma mondiale, di essere invaso dall’altro. Che poi: che cos’è l’altro?
È un video problematico, in parte, perché c’è un regime di sguardo, un uso del corpo e altre questioni molto complesse, come la mostra, nella quale non c’è nessun artista afroitaliano.
Infatti. Spesso noto che c’è una vostra difficoltà—anche se non voglio fare una distinzione tra un noi e un voi ma concedimelo in questo caso—di inserire all’interno di queste contro-narrazioni, quindi di questa decostruzione degli immaginari, voci e corpi che in prima persona hanno vissuto e continuano a vivere questi processi. Perché?
Beh… questo riflette un problema evidente, che è il sistema dell’arte italiano e l’assenza di voci afroitaliane [nelle arti visive], mentre nella letteratura e nel cinema ci sono dei soggetti che hanno voci autorevoli. La problematicità di questa mostra, dello sguardo che mette in scena, della quale sono completamente consapevole, mi ha portato a chiedermi io, curatore maschio, bianco, europeo, quanto fossi legittimato.

C’è da dire che questo processo in Italia è avvenuto molto in ritardo e di conseguenza anche i processi culturali ci mettono tanto a svilupparsi. E anche per me, individuare degli artisti [afroitaliani] che si occupano di queste tematiche è più lungo. Lo sguardo è fondamentale, e naturalmente questa mostra propone uno sguardo problematico e allo stesso tempo riflette la problematicità di un sistema che in qualche modo non ha ancora accolto quello sguardo. Non è una mostra che ha una pretesa enciclopedica: è un frammento di un discorso molto più amplio che va svolto collettivamente.
Un’altra questione problematica è che questa mostra parla agli italiani bianchi, che di questa storia non hanno mai sentito parlare, e forse non ne vogliono neanche sentir parlare. E non si vuole generare un senso di colpa coloniale ma far scattare la scintilla su la tua identità deve, può essere messa in discussione.
In Italia sembra ci sia l’ossessione dell’essere bianchi…
In Italia il processo di costruzione della razza è stato orchestrato e all’inizio ha previsto due tipologie di alterità: l’altro, del Sud Italia, il terrone, e l’altro, l’Africano, il… sappiamo chi [il ne*ro]. Se ti vai a leggere le cose che ha scritto Lombroso, c’era la razzializzazione del meridionale e la razzializzazione del colonizzato. E poi, durante il fascismo, per necessità demografiche il sud è stato risucchiato dentro questo grande calderone italico. Quindi…secondo me non c’è un’ossessione dell’essere bianchi, ma un’incapacità di mettersi in discussione. Per una grossa parte della mia vita nessuno ha messo in discussione la mia identità. Per me la mia identità è stata la norma, una sorta di grado zero.
Sono tante le diramazioni. Non c’è una strada giusta. Credo che la questione sia riuscire a mostrare la complessità, coscienti che questa mostra offre uno sguardo parziale, che riflette un problema di sguardo più ampio. Questo è: riuscire a mostrare la complessità del fenomeno e iniziare a parlare di identità come qualcosa che va negoziata.
“Italiani brava gente | Amnesie e memorie del colonialismo italiano” resterà aperta fino al 3 novembre alla Fondazione Volume, Roma, dalle 17 alle 19:30.
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Immagine di copertina | L’uomo con le ali dorate, da ‘Black Rain’ (2011), di Alterazioni Video e Luca Babini – still video – Tutte le altre immagini | Per gentile concessione di Fondazione Volume!
Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.