‘Human Archipelago’ | Teju Cole E Fazal Sheikh Esplorano Il Concetto Di Ospitalità Nel Loro Nuovo Fotolibro

La parola ‘ospitalità’ suona sempre un po’ antica. Nel mondo globalizzato dove ogni viaggiatore “low cost” con il giusto passaporto, il giusto look e il vocabolario adatto, può essere un ‘local’ in ogni parte del mondo, il ruolo dell’ospitalità—al di fuori del settore alberghiero—sta tramontando. Di questi tempi si può essere tolleranti o cosmopoliti, ma di rado ospitali. Dunque è molto interessante che il premiato autore Teju Cole e l’acclamato fotografo Fazal Sheikh abbiano deciso di trattare di questa antica virtù nel loro nuovo libro, Human Arcipelago.
Secondo la prospettiva degli autori, il libro è un tentativo di trovare un nuovo modo per parlare di problematiche ben note che tendono a ripresentarsi. In questo senso, i due fotografi (Cole è anche un fotografo) hanno fatto una ricerca nell’archivio di Sheikh, che per vent’anni ha catturato i foto ritratti di persone sfollate in tutto il mondo. Sheikh ha anche catturato i paesaggi che alcune delle persone che ha incontrato chiamavano casa. In questo processo, è stata sollevata la questione dell’odierna importanza dell’ospitalità e dell’accoglienza come espressione umana di responsabilità e solidarietà reciproca, una sfida che Teju ha accettato con uno straordinario entusiasmo letterario.
Non sorprende che Human Arcipelago combini con successo la fotografia documentaristica di Sheikh e la faits divers di Cole, una forma letteraria nata in Francia conosciuta per la sua brevità, e sicuramente un precursore del moderno tweet. Il gioco di micro-belletristic —la fusione fluida di saggistica e poesia—da una parte e le potentissime immagine dall’altra, che Teju Cole ha già avuto modo di testare nel suo precedente libro Blind Spot (2017), eleva tutti i generi racchiusi in questo libro. Immaginando ogni combinazione di testo e immagini come un’isola, il libro nella sua interezza è un arcipelago metaforico. Infatti, ci si può soffermare su alcune di queste isole più che su altre, e se a volte si è come catturati dagli espressivi ritratti spesso in bianco e nero dei protagonisti fotografati da Sheikh, qualche pagina dopo si rimane colpiti ed emozionati dalla geniale prosa di Cole o dalle sue lettere indirizzate alle persone che hanno perso la vita mentre cercavano disperatamente di trovare rifugio. Di nuovo, ci si trova a pensare come certe frasi sarebbero perfette per l’economia dei like di Twitter o Instagram, in quanto con ogni immagine e citazione, gli autori colpiscono nel segno.
Per fortuna, è facile resistere alla tentazione, preferendo invece capire e assorbire le storie profondamente umane di questo libro. L’interazione tra i testi di Cole e le immagini di Sheikh rivelano molti filoni di indagine con cui potremmo già essere familiari, ma che sembrano essere dimenticati nel tran tran quotidiano, come: “Non esistono stranieri, solo versioni di noi stessi, molte delle quali non abbiamo accettato e dalla maggior parte delle quali vogliamo difendere noi stessi. Poiché il diverso non è straniero, è inaspettato; non alieno, ma qualcosa che rimane nella memoria; ed è la casualità di questo incontro con la parte che conosciamo ma di cui non siamo consapevoli di noi stessi che manda un segnale d’allarme”.
In Human Arcipelago, il trasferimento, il dislocamento—o la vera e propria mancanza di un luogo (placelessness)—diventano la metafora paradossale dei nostri tempi, che può essere evocata sia dalla figura dei viaggiatori pseudo-nomadi low cost con più passaporti, sia dai migranti apolidi o dagli sfollati. Tuttavia, è solo l’ultimo di questi gruppi che può utilizzare politicamente la mancanza di un luogo (placelessness) a servizio dell’umanità tutta e nello spirito di ospitalità come principio condiviso. Sheikh e Cole hanno fatto un ottimo lavoro da tutti i punti di vista, ri-focalizzando la nostra attenzione su temi fondamentali che sono al centro di quel progetto collettivo chiamato umanità.
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Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.