Him Noir | Questo Artista Indossa Le Frasi Razziste Che Gli Dicono In Giro

In uno dei vari princìpi fu Tommy Kuti, rapper bresciano che circa due anni fa girava con una t-shirt con stampate a chiare lettere la frase “Non Sono Straniero Sono Solo Stranero.” Semplice, chiaro, diretto. E divertente. Una volta però mi ha raccontato che alcuni africani non l’avevano presa tanto bene questa maglietta. Gli sembrava che volesse rinnegare le sue origini. Incomprensioni.
In un altro princìpio, oggi, c’è Isaiah Lopaz – Him Noir, artista americano che da un po’ di mesi a questa parte ha ricevuto molta attenzione dai media internazionali per il suo progetto ‘Things You Can Tell Just By Looking At Him’ – Cose che puoi dire semplicemente guardandolo in faccia, – in cui indossa magliette con su stampati invece i commenti razzisti o le frasi offensive legati ad espisodi che gli sono successi da quando vive a Berlino. Un modo “provocatorio” per combattere l’ignoranza dilagante.
Il peggior commento gli è stato rivolto in un bar. Era in compagnia di due tedesche e una di loro, direttrice di un asilo, mentre parlavano della cultura americana gli dice, “Tu non hai una cultura perchè discendi dagli schiavi.”
Lopaz è originario di Los Angeles, viene da una famiglia modesta della classe operaia e ha vissuto i primi anni della sua vita a Watts, un distretto residenziale che è stata anche la casa del grande artista Kerry James Marshall, ai tempi teatro di una segregazione abitativa “legalizzata” che Marshall ha più volte raffigurato nei suoi maestosi dipinti. Alcuni invece si ricordano questo quartiere per via della “Watts Rebellion,” avvenuta nel 1965.

Chiesa, istruzione e disciplina sono stati i capisaldi dell’educazione di Lopaz ed è sempre stato incoraggiato dalla madre a scrivere e a diventare un artista per poter essere soddisfatto del suo lavoro.
Ama Los Angeles per diverse ragioni, in particolare perché è una città in cui i suoi nonni si trasferirono perchè sentivano che lì potevano godere di alcune libertà che non avevano negli Stati rurali del sud. Da giovane artista che aveva appena finito la scuola d’arte, Lopaz sapeva che avrebbe dovuto vivere in una grande città per sviluppare il suo talento e mostrare il suo lavoro,” e in America sembrava che le opzioni fossero stare a Los Angeles o spostarsi a New York,” racconta.
Essendo nato e cresciuto a Los Angeles, non mi entusiasmava restare inchiodato lì. Tutti quelli che conoscevo che si erano trasferiti a New York si sbattevano per sopravvivere e quello stile di vita non faceva per me: tre lavori, vivere in appartamenti angusti. Non c’è assolutamente niente di sbagliato con il tirare a campare, ma volevo essere libero di scegliere in che modo avrei dovuto farlo.
Dopo una visita ad alcuni suoi parenti che vivevano ad Amsterdam, scatta la scintilla per l’Europa.
Prima di laurearmi sono andato a trovarli. Era la prima volta che uscivo dal paese. Dopo avergli fatto visita sono andato a Londra per una settimana, o giù di lì, e ho immediatamente capito che mi sarei trasferito nel vecchio continente.
Parigi, Londra, Berlino, Barcellona, Amsterdam, Bruxelles. C’erano tanti posti che mi facevano pensare che avrei potuto farcela e avevo anche l’impressione che la vita per me, gay, in Europa sarebbe stata più facile.
Peccato che non si immaginava che l’essere nero avrebbe fatto di lui un outsider nelle stesse comunità gay e queer, e all’epoca aveva appena svelato alla sua famiglia, con molta difficoltà, la sua omosessualità.
In Germania arriva a ventisei anni e frequenta due semestri come studente in residenza all’Istituto d’Arte Städel, a Francoforte – Städelschule in Frankfurt am Main.
Era un sogno poter studiare con Wolfgang Tillmans. Mi accettò come uno dei suoi studenti ma quando entrai nel programma lui aveva appena lasciato. Non mi trovavo bene con il nuovo insegnante, c’era un’aria molto conservatrice e io venivo da una scuola dove si respirava lo stesso clima.
Francoforte è stata comunque una bella città. Grazie a uno degli studenti ho incontrato un gruppo di artisti, scrittori e attivisti con i quali passavo la maggior parte del tempo.
Non ci sono neanche stati poi così tanti episodi di razzismo. Ricordo che una volta ero in un alimentari e una donna mi vide mettere dentro la mia borsa della spesa le cose che volevo comprare, che è una cosa che alcuni qui in Germania fanno perchè se non hai la tua borsa la devi pagare. A un certo punto mi guarda e mi dice in tedesco ‘Ehi, non dovresti fare quello che stai facendo perchè sei nero.’ Non voleva essere cattiva o mostrarsi superiore a me. Credo che sapesse che avrei potuto avere problemi se un dipendente mi avesse visto, anche se i clienti bianchi l’avrebbero fatta franca.
GRIOT: Quando ti sei trasferito in Germania avevi più o meno 26 anni. Cosa è cambiato nella tua Berlino dal tuo arrivo?
Isaiah Lopaz: Da quando vivo qui Berlino ho visto molte trasformazioni. Quando mi sono trasferito era il 2007. Ancora ricordo la sensazione di tutto quello spazio a disposizione. Nel pomeriggio potevi camminare per strada e non incorrere in nessuno per diversi isolati.
C’è stato molto sviluppo e sono sorti nuovi edifici in città e ho l’impressione che qui si stesse vivendo un grande boom. Mi ricordo di quando scoppiò la crisi finanziaria. Quando arrivai fu più difficile trovare un lavoro, mentre ora penso che sia un po’ più semplice.
Quando mi sono trasferito non conoscevo molti neri. Non ne vedevo molti ma anche questa cosa è cambiata nel tempo. Ora siamo in tanti e mi sento che facciamo parte di una famiglia, di una comunità, di essere qui per amare, darci sostegno e ispirarci a vicenda. Questo è quello che al momento amo di più di Berlino.
Cos’è che ti piace di più della tua cultura, a dispetto di chi dice che non ne hai una?
La cultura Black è sempre in continua evoluzione e da nero sono molto più interessato a definire cosa significhi per me piuttosto che stare a contemplare o sfidare ciò che significa per gli altri.
Noi neri definiamo elementi e sfaccettature della cultura Black in molti modi diversi. Il mio modo di vederla potrebbe essere diverso dal modo in cui un’altra persona la interpreta, ma mi va bene che spesso ci siano momenti di riconoscimento, spazi in cui ci ritroviamo a parlare la stessa lingua, spazi in cui proviamo le stesse sensazioni.
Innovazione, creatività e ingegno sembrano essere i pilastri della cultura nera. Sono questi gli elementi che ritrovo ogni volta che entro in contatto con altri neri provenienti da tutto il mondo e questo è un regalo che Berlino mi ha fatto: la capacità di comunicare con neri provenienti da tutto il mondo!
Alcune volte siamo semplicemente sintonizzati sulla stessa frequenza, altre volte l’unica cosa che ci accomuna è il fatto di vivere in una società razzista. Ecco.
Ad oggi hai realizzato 23 t-shirt. Come è iniziata la cosa? Quali sono stati i commenti più fastidisiosi e offensivi che hai ricevuto?
Il progetto Things You Can Tell Just By Looking At Him documenta tutti i commenti razzisti, le micro-aggressioni, i pregiudizi e gli insulti razzisti che mi hanno rivolto, in inglese, non in tedesco, da quando vivo qui a Berlino. Ci sono stati molti altri incidenti che non ho potuto stampare sulle magliette perchè era difficile capirne il contesto.
Al momento il progetto si concentra su come razza e razzismo si muovono attraverso le parole. In futuro mi piacerebbe esplorare altri modi di illustrare situazioni in cui l’oppressione razziale è rafforzata senza necessariamente usare le parola ma attraverso gesti, movimenti e performance che hanno a che fare con la Supremazia Bianca e il Privilegio Bianco.
Mi è sempre stato chiaro sin da subito che Berlino non fosse come altre città europee che avevo visitato o nelle quali avevo vissuto. L’essere nero era qualcosa che molti tedeschi bianchi e altri europei bianchi si sentivano in dovere di spiegarmi. Per loro in realtà non venivo da Los Angeles, ma dall’Africa. E naturalmente le persone pensavano fossi un pusher, sai com’è, sono nero e molti neri spacciano.
Le ragazze a cui insegnerò, per via di questo nuovo lavoro di insegnante che ho preso, automaticamente mi ameranno perchè sono nero.
Andare a una cena dove ognuno deve portare una cosa dal proprio paese…”Grandioso, Isaiah può portare del cibo africano.” Capisci? No cibo nigeriano o etiope, ma cibo “africano.”
I primi due anni ero molto solo. Quando ti sposti in una nuova città, vuoi conoscere gente nuova, ma per molti rappresentavo la loro idea di “nero” e non la mia, o l’idea che ho di me stesso.
È questo che fa il razzismo: non permette ai non-bianchi di essere umani, di essere visti come individui. Guardando al progetto in maniera olistica, è questo quello che vedo.
Ho avuto per moltissimo tempo i capelli rasta, che ho deciso di tagliare per molte ragioni. Sapevo che se li avessi tagliati avrei avuto un po’ più di pace nella mia vita, ma non è stata la ragione principale e alla fine non ha aiutato come uno si poteva immaginare.
Ancora oggi la gente mi ferma per strada, nei bar, alle feste e mi chiede se ho della droga da vendere, e quindi sono felice di aver tagliato i miei dread per varie ragioni, perchè sarebbe stato brutto credere che avrei potuto farlo per sembrare un Negro migliore. No, quest’idea la rifiuto categoricamente. Non c’è niente che io possa fare perchè la questione è la razza.
Il punto è che esisto, che sono vivo e che non andrò via, e questi sono problemi perchè vivo in una società che non potrà mai opprimermi completamente ma mi potrà respingere in base al concetto che hanno di identità.
Le persone si immaginano che frasi del genere possano essere pronunciate solo dai “privilegiati,” da gente che non ha mai vissuto forme di discriminazione. Eppure anche nella comunità gay e queer di Berlino hai vissuto episodi singolari. Per esempio il fatto di non credere che potessi essere omosessuale perchè nero o scoprire che in alcuni club non mettevano hip hop perchè un genere troppo agressivo e sessista. Secondo te perchè anche in questo ambiente c’è così tanta ignoranza?
Una cosa che ho capito da persona “razzializzata” è che il razzismo è un sistema di oppressione che favorisce l’essere bianchi. I bianchi poveri restano comunque bianchi. I bianchi che fanno parte della comunità LGBTQ sono sempre bianchi. I bianchi che hanno commesso crimini sono bianchi.
Da tempo ho abbandonato l’idea che esista una solidarietà innata tra gruppi marginalizzati.
Il mondo potrebbe essere un posto diverso se fosse così, ma è una finzione che ci fa avanzare veramente poco. Non sono neanche certo di aver mai sentito che uomini bianchi e gay potessero provare un senso di solidarietà nei miei confronti.
La razza attraversa la classe, la religione, le possibilità…e così i bianchi che sono marginalizzati devono lavorare su loro stessi per arrivare a un punto in cui capiscono o sentono di doversi sganciare dal sostenere l’oppressione razziale.
Un esempio di quanto ti sto dicendo è legato a un’esperienza personale che ha a che fare con una mentalità diffusa qui in Gemania sull’omofobia. Qui si scrive e si parla di omofobia come se fosse un problema islamico, arabo e turco che colpisce la comunità gay, di maschi gay e bianchi naturalmente.
La discussione ignora il fatto che ovviamente ci siano musulmani LGBTQ dalla Turchia e da paesi dove si parla arabo, persone che spesso hanno a che fare con l’omofobia, ma c’è una cosa che trovo molto pericolosa di questa retorica: diffonde l’idea che l’omofobia dilaghi nelle comunità non bianche. Ignora il fatto che l’omofobia continui ad essere un problema che ha un forte impatto – o che potrebbe avere – sulle vite della comunità LGBTQ mondiale in generale.

Un’altra cosa che ovviamente trovo problematica è che si ignora che l’omofobia venga praticata dalla società dominante che, nel mio caso, è la Germania bianca. La razza invita quelli che abbracciano questa retorica a liberarsi di queste soluzioni o strategie che indeboliscono o aboliscono l’omofobia – e, ti dirò, non sono sicuro che questa dovrebbe essere una nostra battaglia, – ma sicuramente ci impedisce di parlare dell’omofobia come un problema.
La razza disconnette e crea un punto focale dove la loro rabbia, frustrazione e paura per le loro vite sono direzionate verso tutte le persone non bianche. Non importa quali siano le radici storiche dell’omofobia, o se si tratta di una nazione prevalentemente bianca il cui leader politico appartiene a un partito chiamato Unione Cristiano-Democratica.
Dopo i recenti attentati di Berlino ti sentiresti di girare per strada con le tue t-shirt?
Sono molto addolorato per le vittime di questi attacchi. Per essere chiaro, non indosso tutti i giorni queste magliette e non sono neanche in vendita. Credo sarebbe un atteggiamento da irresponsabili. Non le indosso nella mia vita di tutti i giorni perchè non sono state pensate per provocare i membri di una società prevalentemente bianca e in cui vivo poi.
Non voglio innescare situazioni di disagio per me o altri neri a casua di questo progetto. Sicuramente ci sono alcune situazioni strane e poco confortevoli ma faccio del mio meglio per minimizzarle.
Dove sta andando Him Noir?
Him Noir si sta espandendo. Ho ricevuto una sponsorizzazione e altre richieste di collaborazione.
Sono stato invitato a fare una mostra sulla serie Things You Can Tell Just By Looking At Him e ho in programma di parlare a un talk per artisti.
Al momento sto pianificando di viaggiare con questo progetto per l’Europa e documentare le esperienze di altri neri che vivono in Europa. Verrò anche in Italia. È solo una questione di quando. Ci sono anche altri modi di usare le magliette per parlare di razza e li sto sperimentando in questi giorni.
Ho scoperto che hai inziato il nuovo anno con un altro nuovo progetto artistico legato alle campagne pubblicitarie che hanno a che fare con gli aiuti allo sviluppo. Di cosa si tratta nello specifico? Cosa ti hanno chiesto di fare?
Glokal e ISD mi hanno chiesto di creare tre immagini che critichino le illustrazioni e le fotografie usate per queste campagne pubblicitarie.
Mi è stata data totale libertà e spero che le immagini usate come parte della campagna serviranno ad ispirare un dibattitto e una critica centrati su queste narrative di potere e povertà. Delle immagini create, una è stata scelta per essere affissa sui cartelloni per strada.
Sono molto fiero del lavoro che ho fatto per questa campagna. Il pezzo che ho creato si chiama “The Myth Of The Great African Handout.”
Potenzialmente potrebbero essere organizzate molte discussioni pubbliche da Glokal e ISD su questo tema, ma al momento non ne sono sicuro. Sarei felice di creare più immagini che critichino il modo in cui i neri vengo rappresentati nella cultura visiva.
Berlino è casa ormai per te. Hai incontrato quelli che oggi sono i tuoi più cari amici ma in un’intervista con il New York Times hai detto che non ci resterai per sempre perchè vuoi qualcosa di più per la tua vita. Qual è il posto, il luogo dove pensi di poter essere una faccia come tante altre in mezzo a una folla?
Si ritorna sempre al punto di partenza. I miei nonni si spostarono dal sud verso ovest, sia per il loro spirito di avventura, sia per trovare nuove opportunità. Volevano vivere meno razzismo, che era quello che offrivano quegli Stati, anche se erano consapevoli che lo avrebbero trovato, non importa in quale città avrebbero vissuto.
Sessant’anni sono passati ma nonostante ciò ho a che fare con gli stessi problemi, in una terra che è lontanissima dalla mia. Alle volte ho l’impressione che le persone pensano che il mio vivere qui in qualche modo è il risultato di un favore che mi è stato fatto e che dovrei tollerare i loro comportamenti perchè la Germania è meglio di qualsiasi altro paese da cui pensano io venga.
Berlino è la mia casa ma non mi sono mai sentito a mio agio con la cultura tedesca e questo distacco è causato da come sono trattato. Le persone spesso commentano, “Bhè, perchè non te ne vai e basta? Se non ti piace, perchè devi restare?”
Questa mentalità non è che risolva la questione, piuttosto suggerisce che il problema è come se fosse mio e che ho il lusso di potermene andare. Non sempre la gente ha questa fortuna. Restiamo per amore, per studio, per carriera. Alcune volte non abbiamo case dove far ritorno.
Se lascio Berlino il razzismo con cui avrò a che fare sarà diverso ma la mia ragione per averla lasciata non cambierà. Quelli che mi dicono di andarmene continueranno a vivere nella società in cui hanno sempre vissuto, un posto in cui non avrebbero niente da perdere mentre mi suggeriscono di andarmene, e non avranno nulla da perdere se me ne andassi, eccetto l’immisurabile valore che avrei potuto aggiungere a questa società. Questa è un’altra cosa che fa il razzismo.
C’è un posto dove mi sento libero. Il razzismo che ho incontrato lì è una tipologia di razzismo con cui posso convivere. Però ora non ti posso dire che posto è. Lo terrò per me. Voglio essere me stesso, non una semplice faccia che si confonde nella folla. Voglio vivere senza quelle limitazioni e quella violenza che una società razzista mi impone.
Tutte le immagini | Courtesy of Isaiah Lopaz
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