GRIOT X Jazz:Re:Found | Cosa è Successo A Sangue Misto – Sound, Identità E Rappresentazione

Sangue Misto – Sound, Identità e Rappresentazione è stato il secondo di due appuntamenti che abbiamo costruito e organizzato su invito di Jazz:Re:Found Festival a Torino lo scorso weekend (1-2 dicembre.)
Se il primo incontro, Appuntamento ai Marinai, ha raccontato la comunità italo-eritrea di Milano attraverso la premiere dell’omonimo documentario di Ariam Tekle, seguito da un Q/A in diretta Skype con l’autrice del progetto (moderato da Johanne Affricot), con Sangue Misto – Sound, Identità e Rappresentazione (moderato da Michele e Cedric Kibongui) ci siamo spinti oltre, esplorando l’output artistico, gli aspetti socio-politici, la rappresentazione e gli orizzonti della scena musicale afroitaliana contemporanea. Durante questo secondo panel abbiamo affrontato temi molto importanti per questo variegato e (intenzionalmente) confuso paese che non sembra rendersi conto di quanti colori, etnie e subculture si racchiudono sotto il termine ombrello “cultura italiana”.
Cosa significa essere un artista italiano con origini africane? Quali sono le nostre referenze culturali e come influenzano il processo creativo e il linguaggio espressivo scelto dall’artista? Come unire la comunità artistica afroitaliana ed arrivare, magari, alla creazione di generi musicali afroitaliani autoctoni come, ad esempio, il grime in UK o l’afrotrap in Francia? E infine, c’è bisogno di creare degli spazi di aggregazione (come Afropunk Fest) che forniscano la visibilità e la rappresentazione che ci viene negata dai media tradizionali e altri contesti artistici?

Per rispondere a queste domande, abbiamo invitato sei artisti attivi nella scena musicale italiana—Mudimbi, Technoir, David Blank, Vhelade e Tommy Kuti—ad unirsi al dibattito e a dirci come la pensano, e una cosa è certa: essere afroitaliani non ha per tutti lo stesso significato e non comporta lo stesso vissuto. Infatti per alcuni di loro il nesso tra “sangue” e cultura non appare essere così immediato, mentre per altri l’intersezione di mondi diversi nell’espressione del loro estro creativo è inevitabile, come ha spiegato il rapper bresciano-nigeriano Tommy Kuti: “Io ultimamente sto davvero riscoprendo la mie origini. Avete presente 8 Mile, il film con Eminem, l’unico rapper bianco tra i neri? Ecco, il mio percorso musicale in Italia, nei vari contest eccetera, è stato esattamente l’opposto. Io sono cresciuto in mezzo ai padani ed ero molto insicuro sul mio essere africano, spesso e volentieri quasi me ne vergognavo. Però crescendo, e conoscendo maggiormente la mia storia, ho imparato davvero a riscoprire le miei origini e a utilizzarle come punto di forza, unendo quell’universo, che è già parte di me, tramite la musica che mi hanno sempre suonato i miei genitori e le feste africane, al rap italiano, che è ed è sempre stato la mia più grande passione. Sono nato in Nigeria, sono cresciuto in Italia, ho girato il mondo, e tutte queste influenze sono palpabili nella mia musica.”
Il punto di partenza è molto diverso, ma la conclusione è simile per il rapper trentunenne Mudimbi. Nato a San Benedetto del Tronto da madre italiana (bianca) e padre congolese, è cresciuto con la madre circondato da parenti tutti italiani. Solo di recente ha iniziato ad indagare le sue origini: “Mi sono reso conto che la mia storia è molto tipica per le persone di colore, penso sia l’esperienza di molti italiani cresciuti con un solo genitore italiano che si sono ritrovati a chiedersi a una certa età (a me è successo verso i 14-15 anni) l’altra metà del mio colore, quella scura, che cosa significa? Che cosa non so io? Che tipo di esperienze non ho vissuto e che tipo di lingue non ho sentito parlare? E concordo con Tommy: a una certa è abbastanza naturale cercare di voler capire quali sono le nostre radici culturali e musicali. Dal punto di vista della musica, le mie radici africane non si sono fatte sentire, perché non sapevo dove fossero, nessuno me le aveva raccontate. Quindi anch’io finalmente sto andando a curiosare, anche perchè – ad essere onesti – sta andando di moda: si sono finalmente resi conto che l’Africa ha veramente troppo da offrire! E oltre a questo fatto, se fino a qualche giorno fa mi sentivo un po’ “paraculo” a cavalcare il cavallo vincente, pensando di fare cose un po’ più africane, adesso mi rendo conto che in realtà Mudimbi, come molta altra gente, sta solo cercando di capire chi è Mudimbi al 100%. Quindi le mie radici da ora in avanti influenzeranno di più sia quello che scrivo, sia la musica su cui vado a scrivere,” ha confessato.
Se Mudimbi e Tommy Kuti sono arrivati ad una successiva maturazione, Vhelade ha un vissuto artistico esperienziale completamente diverso: “Io sono afrosarda e sin dalla nascita mi è stato trasmesso un forte orgoglio sardo e africano, sia dalla mia famiglia paterna che da quella materna. Sono cresciuta con il mpondu, con la musica zairese e tutta la musica africana, ma anche con la musica italiana, e quella elettronica. I miei genitori sono artisti e hanno sempre cercato di ricordarmi chi sono e da dove vengo, e il mio disco si chiama Afrosarda proprio per questo, e anche perché mi ero stancata delle solite domande, “Ma di dove sei? Lo parli bene l’Italiano!” Perciò ho deciso racchiudere nella mia musica tutto ciò che sono, anche cantando in varie lingue perchè comunque il mio primo biglietto da visita è la mia origine e personalmente mi sento una cittadina del mondo: verde, rossa, gialla, non lo so!”
Uno dei tanti aspetti sottovalutati degli italiani con altre origini è il bilinguismo. Infatti, alcuni degli artisti che hanno partecipato a Sangue Misto sono poliglotti. Uno di questi è David Blank (parla italiano, inglese e yoruba) il quale, con il suo singolo Stasera No, dal suo album d’esordio Cuor Leggero (2017), si è trovato a scrivere un testo in italiano per la prima volta. “Scrivere quella canzone è stata una vera e propria sfida con me stesso,” ha speigato, “perché sono nato e cresciuto in Italia ma ho vissuto anche a Londra, dove scrivevo e cantavo solo in inglese. Poi quando sono tornato in Italia per iniziare il mio progetto solista in inglese, mi hanno detto: “Scusa, sei italiano, non c’è nessuno che lo fa, perché non ci provi?” Alla fine ci ho pensato molto e sono fiero di quello che sono riuscito fare, vorrei portare avanti questo processo ma non è facile da trilingue sottostare alle necessità discografiche,” ha sottolineato David.
Per Jennifer, dei Technoir, invece il lato africano della sua identità è sempre solo stata un’imposizione esterna, un’etichetta, perchè nonostante il colore della pelle, lei è cresciuta da italiana tra italiani [bianchi]: “Vi racconto la mia storia: sono nata nel 1991 e a due anni sono stata adottata da una famiglia italiana di Genova. Quindi la mia cultura è italiana e non ho mai avuto modo di indagare le mie origini. Ascolto musica afroamericana, e ciò non significa che non mi interessi quella africana, ma la musica che facciamo con Alexandros è elettronica-soul e segue quella tradizione. Ho letto un libro scritto da una ragazza adottata che diceva che si sentiva come una noce di cocco: se la taglia a metà ti accorgi che dentro è bianca e fuori è nera. Io spesso mi sento così e non posso fare o essere quello che non sono.”
E come per Jennifer, le principali influenze musicali di molti afroitaliani vengono proprio dagli Stati Uniti, luogo in cui la storia di autodeterminazione e emancipazione del popolo nero ha prodotto un output culturale a cui tutto il mondo si ispira da ormai quasi un secolo. Ma al di fuori degli Stati Uniti, verso cui nutriamo un forte magnetismo—forse proprio per l’analogia con l’essere minoranze e dover sopravvivere in una cultura dominante come sottocultura— in altri paesi, come la Francia, l’Inghilterra o il Portogallo, le culture africane si sono mischiate alle tradizioni locali fino ad arrivare alla creazione di generi autoctoni. Al contrario, in Italia, in parte per questioni demografiche e socio-spaziali, questo fenomeno non si è ancora verificato. Tuttavia, sono anche altri i fattori che incidono, in primis la mancanza di rappresentazione nei media mainstream. “Io sono cresciuto con un padre super nazionalista e patriottico, amo la musica nigeriana, che mi divertivo a cantare in chiesa, però sia io che i miei cugini, che vivono in Nigeria, abbiamo sempre ascoltato anche hip hop e rnb afroamericani,” ha confessato David Blank, con cui si è trovato d’accordo anche Tommy Kuti. “Mi rendo conto che un ragazzino nero di 14 anni che abita in Italia vuole qualcuno che lo rappresenti, ed è chiaro che c’è una forte carenza di opzioni. Io non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che ho visto un nero fare freestyle in TV dopo la prima edizione di Saranno Famosi del 2001,” ha fatto notare il rapper bresciano.
E infatti i casi di personaggi neri in quel caso clinico che è la televisione italiana sono veramente pochi, ma ci sono stati e ci sono tutt’oggi. Tuttavia, ad essi si lega un’antipatica retorica per la quale è sempre necessario dare una giustificazione alla loro presenza in quel contesto, una sorta di drammatizzazione legata alla loro storia di vita a cui l’italiano “tradizionale” non si deve sottoporre per essere “accettato” dal pubblico, come ha spiegato Vhelade: “Nel 2004, a Markette gospel, eravamo 20 tra ragazzi e ragazze nere, io facevo la cantante. Poi al Chiambretti Night il corpo di ballo era interamente composto da neri, oltre alle cantanti, e la cosa al tempo fece molto scalpore, ma nessuno sapeva che molti erano Italiani. Negli anni 90’ c’era un’apertura diversa, adesso basta accendere la tv per essere bombardati di notizie deviate che lavano il cervello. Quest’estate tutti i giorni c’era qualche nero, africano o migrante che faceva qualcosa di brutto, tant’è che alcuni miei parenti sardi sono stati condizionati, nonostante l’apertura mentale della mia famiglia e l’avere in casa me.”
Ormai è un chiaro dato di fatto che la narrazzione legata all’immaginario mediatico – e quindi sociale – dell’Italia multietnica contemporanea sia completamente distorta, in quanto riduce senza logica i tanti complessi aspetti legati al tema dell’immigrazione alla sola crisi del Mediterraneo e al fenomeno sbarchi e barconi. Ma la situazione in questo momento storico sta cambiando, ci assicura Tommy Kuti, le case discografiche sono alla ricerca dell’oro nero. Difatti lui ha firmato con la Universal e Mudimbi, che parteciperà alle selezioni della prossima edizione di Sanremo Giovani (15 dicembre) con la Warner Italia. Ma nonostante questa recente apertura, sono diverse le criticità da affrontare nel processo di creazione di una comunità artistica afroitaliana coesa nel nostro paese, e spesso arrivano da entrambi i fronti, ha fatto notare David Blank: “Secondo me tanta gente ha la cosiddetta “house nigger syndrome” che comporta il sentirsi sempre l’unico nero nella stanza, quindi se sei con gli altri neri non ti senti nessuno, mentre sei sei l’unico nero tra i bianchi sei la star. Ora le cose stanno cambiando, ma per quanto riguarda la creazione di un genere autoctono, è una cosa che può derivare solo dalla comunità.”

Anche Mudimbi condivide questo pensiero, e sottolinea che prima di iniziare a capire come unirci, dobbiamo capire quali sono le caratteristiche che ci dividono come italiani: “Noi italiani con origini africane siamo cresciuti senza esempi positivi di gruppo, di aggregazione. I producer che hanno inventato la dubstep in Inghilterra, ad esempio, abitavano tutti sulla stessa strada e dicevano “costruiamo insieme qualcosa, divertiamoci, adattiamoci.” Se non abbiamo tutti le palle di fare questo passo, quei pochi che ci provano non sanno dove aggrapparsi e l’artista per primo ha il compito di crederci e rendersi un punto di riferimento, perchè alla fine se spacchi e diventi famoso, io voglio essere come te.”
Certamente non è tutto oro quel che luccica, poiché questa produzione artistica, che volenti o nolenti facciamo nostra in mancanza di esempi nazionali, riflette sia il successo e il potere, che è lo stigma del popolo afroamericano, e rispecchia in generale le profonde contraddizioni della società americana.
Dunque in un paese come l’Italia, che per di più ha sempre presentato divisioni interne sin dalla sua nascita, indipendentemente dalla questione immigrazione, emerge con forza la necessità di unire la comunità artistica creando spazi di aggregazione che forniscano una piattaforma, un punto di incontro ma anche una forma di autodeterminazione per artisti afroitaliani e con altre origini. Un esempio potrebbe essere l’Afropunk Fest—al quale abbiamo partecipato un anno fa a New York—ma in un format che rifletta, rappresenti e dia visibilità alla storia e alle caratteristiche uniche della nostra comunità afroitaliana e internazionale. “Le mie origini sono greche e pugliesi e penso che noi italiani siamo fortemente divisi e separati tra di noi. Secondo me c’è bisogno di uno spazio come Afropunk, però stando attenti a non ghettizzare e non separare, perchè secondo me in America il problema è proprio quello ancora. Noi possiamo imparare da quell’esempio e magari migliorarlo,” sostiene Alexandros dei Technoir. “Potremmo creare un Afropunk ma che racconti le nostre storie e che includa anche comunità più piccole, come quelle asiatiche e sudamericane, che soffrono di altrettanta discriminazione in Italia,” ha suggerito Jennifer (Technoir), e Tommy Kuti ha evidenziato il ruolo del carnevale di Notting Hill a Londra, un evento che ha permesso a milioni di inglesi di scoprire la storia delle culture afro-caraibiche e ha assunto una forte importanza per la tradizione folkloristica della capitale inglese.

Come ha sottolineato Mudimbi, le comunità multietniche sono già presenti sul territorio italiano da decenni e già iniziano ad emergere i primi segnali di fusione a livello musicale, quindi la creazione di nuovi luoghi di aggregazione artistica e sociale è ormai un fenomeno inevitabile. Tuttavia, avverte che bisogna prestare attenzione a non provocare l’effetto opposto, visto che in Italia propositi del genere vengono di solito criticati perché di facile strumentalizzazione politica. In realtà le riprensioni contro iniziative che hanno l’obiettivo di valorizzare la culture afrodiasporiche, accusandole di costituire una sorta di privilegio inverso, faticano a stare in piedi, in quanto le stesse accuse non vengono rivolte a festival, contest e eventi musicali il cui roster di artisti è monocromatico, bianco, hanno fatto notare Johanne Affricot e Celine Angbeletchy. Ma obiezioni di questo tipo vengono solitamente bollate per evitare di andare veramente al nodo del problema, ovvero la presenza di una cultura mediatica egemone che esclude la diversità e alla quale la rete ha finalmente iniziato a mettere i bastoni tra le ruote.

In ogni caso, anche se la comunità artistica non interagisce ancora abbastanza e serve un cambio radicale nella narrazione mediatica per fornire nuovi necessari modelli, il nostro panel ha sicuramente costituito un primo passo avanti verso questo importante obiettivo. Per la prima volta in Italia gli afroitaliani stanno veramente iniziando a farsi sentire, in un panel, e con questo incontro ve ne abbiamo dato solo un assaggio.
Un ringraziamento speciale a Jazz:Re:Found per aver ospitato il nostro spazio attraverso il quale abbiamo aperto due importanti momenti di riflessione e dibattito critici.
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