George Clinton | Lo Stregone Del Funk

Probabilmente se chiederete a George Clinton di raccontare la sua lunghissima storia, il maestro del funk più torrido e visionario, una delle figure chiave nella nascita e nell’evoluzione del suono black contemporaneo, comincerà così: “tutto è iniziato una notte di tanti anni fa mentre ero in macchina a Toronto con il mio amico e fantastico bassista William “Bootsy” Collins. Era una notte come tante altre, o almeno così ci sembrava, quando all’improvviso un fulmine per tre volte consecutive colpì e illuminò a giorno la nostra macchina.
Ci guardammo e superato lo spavento capimmo che avevamo una missione da compiere. A tutti i costi!”.

Ora, siete liberi di credere o meno a una storia del genere (che comunque è una di quelle che se non fossero vere, bisognerebbe assolutamente inventarle), ma non c’è dubbio che su questa e altre cose George Clinton (e noi siamo dalla sua parte) non ammette repliche. Per lui tutto è cominciato così, in quella notte a Toronto e soprattutto con quel fulmine, con quel segno. “Doveva essere una notte del 1975, o qualcosa del genere”, aggiungerà Clinton, probabilmente prima di sorridere per poi riprendere a raccontare un’altra delle sue storie.
Un anno dopo quella notte particolare, George Clinton (nato a Kannapolis, North Carolina, nel 1941 e cresciuto a Plainfielde nel New Jersey) insieme ai suoi tanti musicisti realizzò un disco, Mothership Connection, destinato a cambiare radicalmente la sua storia e quindi di riflesso anche e soprattutto quella del funk. Quel disco infatti sprigionava una visione totale, dirompente e allucinata del funk: un classico, qualcosa che anticipava i tempi e mostrava la strada e che era legata al pulsare continuo e sensuale del basso, alle urla dei fiati e al battito della mani.
E ancora: gli abiti di scena che Clinton e i suoi discepoli indossavano, uno stile che prese il nome di ‘African Glamour’ e l’America di quei giorni, il funk e il rock che facevano l’amore, e un’astronave che era pronta a portarti via in una dimensione lontana e sconosciuta. Quel disco era firmato dai Parliament, una delle formazioni che faceva parte dell’universo di Clinton.
Egli infatti aveva formato una vera e propria scuola, Parliafunkdaliment, frequentata da una trentina di musicisti, divisa in tanti piccoli gruppi, ognuno dei quali aveva un proprio contratto discografico.
I nomi di questi gruppi dicevano già molto: Funkadelic, Bootsy Rubber Band, Horny Horns, Brides of Funkstein, Parlets e più tardi anche P-Funk All Stars. Per tutto il resto parlava, a voce alta, il suono funk elaborato da George Clinton.
Gli anni ’70 furono quelli più belli e ispirati sia per George Clinton e sia per il funk. In quei giorni insieme a Sly and the Family Stone e a James Brown – il padrino del soul e del funk – Clinton propose il suo stile profondamente innovativo, coinvolgente, diretto. E pensare che in realtà la sua biografia artistica era cominciata molti anni prima: in un piccola barberia nel New Jersey, dove Clinton interpretava i successi del doo-woop – uno dei primi esempi di black pop.
A metà degli anni ’60 George Clinton si trasferì a Detroit per firmare un contratto come autore, cantante e produttore con la celebre Motown, l’etichetta di Berry Gordy che lanciò il suono “della Giovane America”. Quando Gordy decise di trasferire la sua etichetta a Los Angeles, Clinton rimase a Detroit perché aveva intuito che senza la Motown poteva trovare nuove possibilità per la sua carriera.
Molti anni più tardi anche la generazione dell’hip hop e della nuova cultura urban trovò in lui un maestro da rispettare e da celebrare e molti dei suoi classici furono “campionati” più volte dai beatmaker hip hop, soprattutto da quelli della West Coast. Proprio come ha fatto recentemente Kendrick Lamar, il nuovo maestro di Compton.
Protagonista di primo piano negli anni ’70, punto di riferimento obbligato nei decenni successivi (soprattutto quando ha collaborato come produttore con i Red Hot Chili Pepper), George Clinton, nonostante anche un lungo periodo segnato pesantemente dalla dipendenza, rimane un artista che è necessario (o meglio obbligatorio) scoprire e conoscere se si vuole ripercorrere la storia di quella grande emozione che conosciamo con il nome di Black Music.
– di Alberto Castelli
Produttore, giornalista, conduttore radiofonico, dj, musicista. Ho cominciato molto presto a far uso di vinile, la droga più potente del mondo. Alcuni la chiamano Musica, quella nera soprattutto, la musica dell’anima.