Black Is King | Beyoncé Inverte Gli Stereotipi Coloniali E Mostra Le Fantasie Spezzate Dei Neri Americani

di GRIOT - Pubblicato il 03/08/2020

Un anno dopo l’uscita del remake di Il Re Leone (Jon Favreau, 2019), Disney e Parkwood Entertainment pochi giorni fa hanno pubblicato il nuovo album visivo di Beyoncé, Black is King. Nato dall’album della cantante The Lion King: The Gift, il film include un favoloso cast di artiste e artisti, tra cui Moonchild Sanelly, Pharrell Williams, Tiwa Savage, WizKid, Yemi Alade, Jay-Z e molti altri; e anche la madre, Tina Knowles-Lawson, la super modella Naomi Campbell, l’attrice Lupita Nyong’o, la cantautrice Kelly Rowland e la modella Adut Akech, già apparse nel video Brown Skin Girl. Per non parlare del team ingaggiato nella produzione: il regista e cantante hip-hop ghanese Blitz Bazawule, l’artista e regista britannico-nigeriana Jenn Nkiru, i direttori creativi Ibra Ake (nigeriano-americano) e Joshua Kissi (ghanese). Inizialmente concepito per accompagnare la colonna sonora Lion King: The Gift, Black is King è una celebrazione della cultura afroamericana e di “alcune” culture africane.

Identità, eredità culturale, memoria, Black is King narra “dell’eccezionale viaggio di un giovane Re, Simba, attraverso il tradimento, l’amore e la scoperta della propria identità. I suoi antenati lo guidano verso il proprio destino e, con gli insegnamenti di suo padre e l’aiuto del suo amore d’infanzia, sviluppa le virtù necessarie per riconquistare la sua casa e il suo trono […] Black Is King è l’affermazione di un obiettivo importante, con splendide immagini che celebrano la resilienza e la cultura dei Neri,” si legge nella nota stampa.

Accusato di essere un altro irritante e narcisistico progetto stile Wakanda–o Zamunda–prima ancora che uscisse, dopo averlo visto diventa chiaro che le cose sono un po’ più complesse. Splendidamente anacronistico, visivamente affascinante e accattivante, Black is King è uno sguardo alla cultura Nera e alle culture africane, attraverso musica, danza e spiritualità. Lontano dall’omogeneizzare in maniera semplicistica la diversità di migliaia di culture africane, il film esplora le tradizioni di popoli diversi, come gli Yorùbá o Himba, al fine di riabilitare nel suo immaginario l’identità Nera americana, necessariamente regale.

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Frame dal visual album

Il più grande successo di Beyoncé rimane la sua capacità di invertire gli stereotipi coloniali che colpiscono i Neri (inclusi i discendenti degli Indiani Africani), spesso associati a primitivismo e oscurità. Nella sua celebrazione della Nerezza, interiore ed esteriore, la star americana associa il Nero alla purezza, all’elevazione spirituale e ad alti valori morali. Senza cadere in una sorta di misticismo, l’artista riesce a riumanizzare il corpo Nero, riappropriandosi dell’animismo e di simbolismi biblici. Come Mosè per gli Israeliti, la nascita del futuro Re, il suo rifiuto e la riabilitazione finale segnano l’inizio di una nuova era di liberazione e libertà di espressione. Associando il viaggio delle diaspore Nere americane a quello del popolo ebraico, Beyoncé crea una frattura con l’interpretazione razzializzante della Bibbia, che pone gli Africani e le sue diaspore nel gradino più basso delle civiltà umane. Al contrario, afferma che il suo popolo è il popolo eletto.

Ma nonostante le molte qualità, Black is King solleva alcune questioni che meritano di essere portate alla luce. Anche se visivamente meraviglioso, l’estetica del film stona in diversi punti. Oscillando incessantemente tra l’afrofuturismo, l’epica e lo stile dei video musicali Afrobeat, Black is King a volte manca di coerenza in termini di transizione di scena. La tavolozza dei colori, oltre alla luce, spesso passa da un estremo all’altro, a volte in modo visivamente sgradevole. In termini di narrazione, il lavoro sul suono è stato essenziale poiché riempie alcuni problemi di coerenza nella narrazione. Tracce e dialoghi tratti da Il Re Leone puntano a guidare lo spettatore per tutta la storia, ma non senza insidie, soprattutto se non si è visto il remake della Disney.

Il secondo difetto estremamente evidente è l’americanocentrismo della sua rappresentazione dell’Africa, che tende ad apparire come una mitica Canaan in cui i moderni Neri americani hanno l’opportunità di curarsi dalle ferite provocate dalla deportazione dei loro antenati, dalla schiavitù e dalla discriminazione sistemica. Ma questa immagine di Canaan esclude dalla narrazione la maggior parte degli Africani. E non fatevi ingannare dalla presenza di molti cantanti nigeriani o ghanesi nel film–cosa che potrebbe far credere che Beyoncé punti a un pubblico africano. Non è così. Lord Afrixana, Shatta Wale o Tiwa Savage (featured nel video Already) fanno parte dello storytelling di Beyoncé di ricerca dell’identità, una narrazione quindi indirizzata ai suoi fratelli americani.

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Testa china e occhi chiusi: in questo frame video un gruppo di personaggi maschili dipinti di tè blu, siedono sui rami di un albero con gli occhi chiusi, mentre una voce fuori campo domanda “Chi sei? Chi siete?”.

L’analisi ben approfondita di Boluwatife Akinro e Joshua Segun-Lean evidenzia che l’Africa di Beyoncé è la cornice delle fantasie spezzate del Nero americano. Sfortunatamente, si tratta di un’Africa periferica ed esotica, in cui la maggior parte degli africani possono non riconoscersi. L’americanocentrismo della produzione di Beyoncé tende a inglobare il mondo anglosassone, respingendo tutto il resto. Cancella la diversità dell’Africa e dell’essere Neri in diverse parti del mondo, e universalizza la Nerezza sotto la narrazione della Storia americana dell’oppressione dei Neri (e dei gruppi del Vicino Oriente) sin dai tempi della schiavitù. In termini di messaggio che si va a diffondere, la questione è molto problematica dato che la maggior parte dei Neri europei, o dei Caraibi, tende a identificarsi con i Neri americani, e allo stesso tempo interiorizza e trascende insidiosamente una sofferenza che non è loro.

Un’altra questione di Black is King è… Beyoncé stessa! Anche se va lodato il fatto che abbia fatto degli sforzi enormi per fare un passo indietro e far brillare altri talenti nel raccontare la storia, ancora una volta, da quando uscì Lemonade, si è presentata nelle vesti della sua divinità africana preferita: Oshun. “I am Beyoncé Giselle Knowles-Carter, I am the Nala, sister of Naruba, Oshun, Queen Sheba, I am the mother” [Sono Beyoncé Giselle Knowles-Carter, sono la Nala, sorella di Naruba, Oshun, Regina Sheba, sono la madre.”] Gli Yorùbá probabilmente si sentiranno lusingati per l’ammirazione che Beyoncé ha nei confronti della loro dea in Mood 4 Eva. Tuttavia, l’approccio narcisistico della cantante americana nei confronti di una religione africana pone lo stesso ricorrente problema evocato in precedenza: l’universalizzazione dell’Africa, questa volta sotto un’esotica aura nigeriana. Se consideriamo quanto è diversa la cultura italiana da quella ucraina o serba, non vi sentireste offesi se un estraneo dicesse che l’antica religione norvegese sostanzialmente era la stessa di quella dei romani o dei greci perché erano tutti europei? Bene, immaginate di spiegare a un etiope e a un angolano che c’è poca differenza tra loro e un congolese, che non c’è differenza tra Mami Watta, Oshun ed Erzuli Freda, perché alla fine sono africani.

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