Feeding The Machine
I due musicisti inglesi confenzionano un lavoro stimolante, che attraversa generi musicali ed epoche, trovando una sintesi, una forma non definita, stimolante e propulsiva. Due maestri all'opera.

Basterebbe il primo brano, Asynchronous Intervals, a rendere Feeding The Machine uno degli album dell’anno. Una cavalcata tutta fatta di dinamiche delicatissime, sfumature sottili che fanno innamorare per la fragilità e la contemporanea solidità che esprimono. Un crescendo orgasmico e psichedelico, un manifesto di undici minuti per due musicisti che si stanno esprimendo al massimo: volano senza nessuna rete di sicurezza ad accoglierli, sulle ali di un talento cristallino e una capacità di interplay più unica che rara.
Il nuovo disco a firma del duo inglese Binker and Moses è un passo in avanti enorme in quella che era già una ricerca musicale importante e intrigante. Gli album Dem Ones e Journey to the Mountain of Forever, i due live Alive in the East?” e Escape the Flames avevano convinto tutti della bontà (anche da un punto di vista “pop”) di un progetto basato esclusivamente su batteria e sassofono. Nessun altro strumento, nessuna sovra registrazione o basi. L’essere membri imprescindibili della chiacchierata e popolare scena jazz londinese ha sicuramente aiutato la diffusione di un progetto che, fosse uscito da qualunque altra parte, forse non avrebbe avuto lo stesso riscontro.
Ma ad aiutarsi sono stati in primis loro due. La creatività e maestria tecnica di Boyd e Golding è semplicemente innegabile: si esprime in ogni progetto che toccano e ne ha fatto due dei musicisti più presi sul serio di una scena che sta attraversando la fisiologica fase di critica (spesso gratuita) verso un fenomeno che da premesse non per forza pop, si è invece trasformato in qualcosa di molto cool e alla portata di quasi tutti—cosa che ovviamente non va già a puristi e gatekeepers del jazz.
In Feeding the Machine Binker and Moses aggiungono al mix la musica elettronica di Max Luthert; la cifra rimane comunque quella di un minimalismo massimalista. Il contributo di Luthert si limita ad azzeccati tappeti fatti di droni e pochissimi suoni, riverberati ed espansi al massimo tramite l’uso di vari effetti: i protagonisti assoluti rimangono dunque batteria e sax. Gli strumenti giocano con i tessuti sonori al di sotto, usandoli come punto di partenza e tirandoli da una parte e dall’altra, sfruttando la tensione costante ma immobile dei droni come volano ulteriore per spiccare salti virtuosi in tutte le direzioni. In Active-Multiple-Fetish-Overlord a un certo punto elettronica e sax si confondono l’uno nell’altro, con quest’ultimo che sembra scomporsi in stringhe di codice che cadono e ricadono su se stesse, a comporre un messaggio digitale e analogico che lascia senza fiato.
Ma è in Accelerometer Overdose che si raggiunge un secondo picco assoluto, dopo quello del brano di apertura. Qui infatti emerge con chiarezza qualcosa che ci era stato mostrato latente. Lo avevamo percepito, ma scomposto in parti diffuse, in un gioco degli specchi possibile grazie al batterismo incredibile di Moses Boyd. Ad emergere è il groove, in tutto il suo splendore. Dopo un intro pronto a depistarci ancora, ecco che dietro l’angolo veniamo colti in contropiede: un groove meraviglioso emerge dalla nebbia sonora con la stessa epicità di un supereroe che appare all’improvviso nel momento topico dello scontro con i cattivi. Un groove che lascia scie brevi e irregolari come quelle di un fuoco d’artificio, ma capace anche di imporsi con l’autorevolezza di un quattro quarti pronto a far muovere il collo forsennatamente.
Ora che le carte in gioco sono state scoperte in Feed Infinite si riuniscono tutti pezzi: Boyd e Binker ci hanno portato esattamente dove volevano. Il primo, nei brani restanti può definitivamente scatenarsi in incredibili virtuosismi, mai fini a se stessi ma realmente geniali e intrisi di gusto. Il batterista di origine caraibica si muove in un territorio completamente suo, a metà tra i due Tony più importanti per la storia della batteria del ventesimo secolo. Il puro e ritmicamente inafferrabile batterismo jazz post rivoluzione di Tony Williams e l’insegnamento dell’afrobeat di Tony Allen, con i suoi accenti spostati ovunque ma che in qualche modo riescono sempre a farci ritrovare la strada di casa, come fossero astratte molliche di pane ritmiche. Queste evoluzioni, unite al tappeto elettronico, finiscono a tratti per evocare generi elettronici tipicamente inglesi (come il grime, ma anche la pura elettronica sperimentale) che Boyd ha già dimostrato di saper interpretare in modo originale e creativo nel suo album solista di debutto—lo splendido Dark Matter del 2020. Quando si parla di musica come massima espressione dell’Atlantico nero, delle connessioni diasporiche tra Africa, Stati Uniti e Caraibi è esattamente a questo che si fa riferimento. Anche se qui troviamo una sintesi identitaria quasi sconvolgente e commovente, uno stato di grazia tale da superare ogni categorizzazione e finire per imporre uno standard nuovo, difficilmente raggiungibile da altri.
Binker Golding non è da meno. Anzi, a tratti pare essere il vero ago della bilancia. Il suo sax sembra essersi avvicinato molto alle sonorità di moda d’oltreoceano, in particolar modo quelle provenienti da Los Angeles. È spesso immerso in effetti che ne aumentano la portata evocativa e ricordano le evoluzioni di Sam Gendel e Patrick Shiroishi, seppur con tutt’altra capacità virtuosa. Alterna quindi momenti di lirismo puro, che attraversano scale pronte a toccare anche la musica indiana – come nell’ultima traccia, Because Because—a prestarsi lui stesso al gioco ritmico insieme a Boyd, grazie all’uso reiterato della respirazione circolare: un mantra ipnotico che finisce per far cadere tutti quanti in loop demoniaci che incantano e anestetizzano il cervello – ponendosi a metà tra la monocordicità dei droni e la vitalità ritmica della batteria.
L’unico difetto che riesco a trovare a questo disco è che vorrei sentirlo suonato dal vivo il prima possibile. È uno di quei rari album che riescono a coniugare tendenze di moda (come detto ad esempio il groove vagamente afrobeat e le sonorità jazztroniche) a maestria senza tempo e luogo. La sincerità, il genio e l’urgenza creativa che traspaiono da Feeding The Machine difficilmente possono lasciare indifferenti, tanto i cultori di jazz, quanto gli appassionati di musica di qualunque tipo.
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Giulio Pecci
Classe ‘96, laureato in Lettere, scrivo di musica e cultura in giro, organizzo rassegne, sono DJ, e mi nutro di black music, jazz, elettronica, hip-hop, afrobeat e tanto altro.