Fate Largo

Guardiamo questa foto. Se dovessimo descriverla cercando la massima sintesi diremo che ritrae un uomo e una ragazza. Ma possiamo essere più precisi, visto che conosciamo altri dettagli.
La foto ritrae un celeberrimo uomo afroamericano e una ragazza che, a 11 anni, ha subito l’amputazione degli avambracci e delle gambe, a seguito di una meningite fulminante che le ha causato anche evidenti cicatrici sul viso.
Tutti sappiamo che l’uomo è Barack Obama, 55 anni, Presidente degli Stati Uniti d’America. Quasi tutti – ormai – sappiamo che la ragazza è Beatrice “Bebe” Vio, 19 anni, italiana, campionessa paralimpica e mondiale di scherma, nonché prima atleta del mondo a gareggiare senza quattro arti. La foto è dell’Ottobre 2016.
Facciamo un salto indietro, allora, ma restando sempre dentro lo sport. Iniziamo dal 1904. Siamo ancora negli Stati Uniti d’America e parliamo sempre di Olimpiadi. Precisamente della III Olimpiade, che si svolge a Saint Louis. Vi partecipano 651 atleti, quasi tutti americani. Le donne sono solo sei. Sì, esatto, avete letto bene: sei. Gareggiano in mezzo agli uomini, in modo “non ufficiale” e solo in competizioni marginali.
Durante i Giochi di Saint Louis non ci sono solo le competizioni “regolari:” per la prima volta vengono organizzati dei giochi paralleli, cosiddetti “speciali.” Magari penserete a giochi paralimpici, ma purtroppo no, non lo sono.
Sono dei giochi oltraggiosi che passeranno alla storia come una delle maggiori vergogne dello sport. Le chiamano “Giornate Antropologiche” e, secondo gli organizzatori, avrebbero lo scopo di collezionare dati scientifici e mettere a confronto i risultati della superiore razza bianca con quelli dei cosiddetti “atleti naturali,” provenienti da popolazioni che vivono allo stato primitivo. I dati ottenuti permetterebbero di costruire un’accurata gerarchia razziale. Fra i partecipanti a queste gare ci sono, per esempio, pigmei, eschimesi, mongoli, pellerossa, inuit.
Alcune gare sono ispirate a quelle olimpiche – corsa, tiro con l’arco, lancio del peso, salto in lungo, salto in alto, – altre competizioni “selvagge” create ad hoc per il diletto del pubblico – lotta nel fango, arrampicata, corsa dentro barili, lancio di una palla contro un palo del telegrafo.
Quasi nessuno dei partecipanti ha la minima conoscenza circa le specialità che deve affrontare. Nel peso ci sono solo 3 partecipanti, che si ritirano dopo il primo lancio. Alcuni corridori non capiscono cosa sia il nastro teso come linea di arrivo e si fermano prima o ci passano sotto. Il lancio del giavellotto, poi, è un vero fallimento. Gli organizzatori sono stupitissimi che i “selvaggi” non siano capaci di lanciarlo: dovrebbe essere un’abilità naturale, per questi primitivi.

L’organizzazione cerca di far “gareggiare” gratis questi uomini, alcuni dei quali presi dalle riserve o da spettacoli di freak. Ma qualche “atleta” si rifiuta e assume un agente per farsi rappresentare, come un attore, perché in effetti è una terribile pantomima quella che va in scena.
Il pubblico di bianchi, invece, paga e assiste in migliaia di persone, divertendosi come al circo. Attenzione: non parliamo del Medioevo, ma di poco più di cento anni fa, negli Stati Uniti d’America, durante un’Olimpiade.
Mancano ancora 16 anni per arrivare 1920 e ai Giochi di Londra, quando le donne, per la prima volta, possono partecipare ufficialmente alle Olimpiadi e confrontarsi anche in competizioni destinate solo a loro.
Poi vengono il 1936 e Berlino, dove il nero Jesse Owens vince quattro medaglie d’oro in faccia a Hitler. Eppure, quando torna negli Stati Uniti, deve entrare negli hotel dove è invitato per i gala solo dall’ingresso posteriore, per via del colore della sua pelle.

È nel 1948, invece, che il medico britannico Guttman organizza una prima sfida fra veterani di guerra con danni alla colonna vertebrale. I primi giochi per atleti disabili, invece, si svolgono nel 1960: succede in Italia, alle Olimpiadi di Roma. Otto anni dopo, a Città del Messico, due atleti neri chiamati Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo dei 200 metri, salgono sul podio e davanti al mondo levano al cielo i pugni inguantati di nero per protestare contro la discriminazione dei neri americani, trattati da uomini solo sulle piste d’atletica e non fuori, nel mondo.
Nel 1984 a Los Angeles l’arciera neozelandese e campionessa paralimpica Neroli Fairhall, è in assoluto la prima atleta paraplegica fra donne e uomini a competere anche alle Olimpiadi dei normodotati.
Neri, disabili, donne, minoranze, persone troppo a lungo escluse dallo sport e dalla vita. Di questo abbiamo parlato.

Io credo che vedere in una foto dell’ottobre 2016, alla Casa Bianca, il primo Presidente afroamericano della storia ritratto vicino a una donna disabile che è insieme una campionessa paralimpica celebre in tutto il mondo, sia la commovente dimostrazione che l’umanità, in qualche modo confuso e complicato e lento, continua disperatamente ad andare avanti e tendere al meglio.
Questa foto racconta di quanta strada abbiamo fatto, di dove siamo arrivati oggi, sempre più lontano dagli obbrobri del passato. E di dove – si spera – possiamo ancora arrivare.
Questa foto ci può far sognare, per il futuro, di vivere in un posto in cui le giornate antropologiche si possano diradare persino sui social network. Là dove dilettanti d’umanità si esibiscono a colpi di giudizi odiosi e performance inqualificabili, come quelle con cui hanno attaccato Beatrice Vio.
Fate largo, perdenti, che qui siamo di fronte a due campioni. La loro foto, da sola, batte ogni record.
Testo di Riccardo Gazzaniga
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