Gabriel Hilair Ci Parla Di Dúdús, Piattaforma Creativa Contro Il Brasile Omofobo E Razzista

Nel 2013 Nayara Justino vinse la corona di Miss Globeleza, la regina del carnevale, scelta dal voto popolare dello show brasiliano più seguito del Brasile – del potente network televisivo Globo. Pochi giorni dopo però la corona le fu tolta perché molti brasiliani bianchi (e non solo) non approvavano che una donna “così nera” potesse vincere quel titolo. Ricevette diverse minaccie e insulti razzisti e Globo, come colpo di grazia, la rimpiazzò con la mulatta Erika Moura che per la cronaca non aveva ricevuto nessun voto dal pubblico.

Ma come è possibile? Scherzi? Il Brasile è bello perché i brasiliani sono di mille colori. E poi vuoi mettere Pelé, Ronaldo, Ronaldinho, il Carnevale di Rio, Copacabana, quei mandolini piumati che si muovono a ritmo di samba? Questo è il Brasile che qui in Italia i più conoscono.
Poco tempo fa ho intercettato su Afropunk un progetto sofisticato che cerca di mettere in luce, attraverso la moda, l’arte e la creatività, le eccellenze creative e artistiche afrobrasiliane che difficilmente trovano spazio nella scena locale: Dúdús. L’idea è nata nella testa dell’attivista, stylist e cultural producer Gabriel Hilair, una forza della natura, di soli 18 anni, da cui prendere ispirazione.

Gabriel vive a San Paolo, ha scelto una vita cosmopolita e al momento è disoccupato. Campa grazie all’aiuto dei suoi amici e dei lavori da freelance che fa, “durano sempre poco,” mi confessa.
Viene da Itajubá, una piccola città di 100.000 abitanti nella regione del Minas Gerais, la stessa che ha dato i natali al fotografo Sebastião Salgado, teatro, a novembre 2015, del più grosso disastro ambientale della storia del Brasile, quando due dighe contenenti rifiuti tossici crollarono e tutto lo schifo finì nel Rio Doce, raggiungendo poi la foce.

Ti sei trasferito a San Paolo, una città enorme e, se non sbaglio, paragonandola a un’altra grande città, è l’opposto di Rio de Janeiro: è molto bianca, è considerata la città degli affari e della moda e il costo della vita è molto alto. Spiegami perché questo trasloco.
No, non sbagli. San Paolo è una città bianca e alla luce di questo posso dirti che la razza definisce la tua classe. Nonostante sia la città brasiliana con la più alta percentuale di popolazione nera fuori dall’Africa, è una città bianca perché è ricca. E viceversa. Proprio come la mia piccola città.
È però anche la capitale della moda, come hai giustamente osservato, e mi sono trasferito qui perché mi hanno proposto un lavoro come fashion producer e anche perché mi chiesero di tenere delle conferenze e dei seminari di art education, e quando ho iniziato mi facevano venire qui quasi tutte le settimane.

GRIOT: Che mi dici della tua famiglia?
Gabriel Hilair: Noi neri qui in Brasile siamo l’unico gruppo sociale che non conosce le proprie origini e questo è uno dei più grandi crimini contro la nostra storia perché ci hanno rubato la possibilità di conoscere le nostre vere radici.
Il mio cognome è francese e quindi sicuramente porto il nome di famiglia di qualcuno che schiavizzò i miei antenati, come trovi sul sito Forebears che mostra le origini dei nomi di famiglia. La mamma di mia madre era una casalinga bianca e il papà un autista nero. Non si tratta di una coincidenza – donne bianche e uomini neri – perché qui in Brasile è ancora in atto un processo di sbiancamento della popolazione.

Qui la razza definisce la tua classe di appartenenza, come nel resto del mondo, ma soprattutto da queste parti, e Itajubá, la cui popolazione per la maggior parte è nera, è una periferia che va sempre più gentrificandosi. Spuntano università federali e private, licei privati, filiali di società importanti. Tutto questo renderà sempre più bianca e meno nera la mia città.
Ho vissuto solo con i miei nonni materni, fino a 10 anni. Sono figlio unico. Mia madre è una assistant manager e mio padre lavorava in fabbrica. Oggi fa il cameriere.

Cosa ti piace di più della tua cultura?
Per fare questa intervista con te, oggi, milioni di africani in passato sono stati rapiti, portati in Brasile, schiavizzati e uccisi. A causa di questa violenza il mio corpo in qualche modo è segnato dalle lotte che i gruppi marginalizzati hanno sempre fatto nella storia.
Parlare di questo collettivo [Dúdús] è una responsabilità che ho scelto di abbracciare, ma riaffermando che sono una persona che produce cultura, senza usarlo come tema.
Le persone cha fanno parte di questo collettivo tuttavia sono la cosa che amo di più della mia cultura perché la costruzione del pensiero africano e il suo sbocciare nei paesi della diaspora africana, come il Brasile, ha senso solo quando si parla di collettività e non del singolo individuo.

Sei un membro del Brazil’s Militant Intersectional Black Movement. Quando hai iniziato a fare attivismo? E quanto è difficile essere attivisti in Brasile, denunciare il razzismo, le discriminazioni di genere e parlare di identità?
Nel 2015, quando avevo 16 anni, scrissi su Facebook il mio primo post sul prendere posizione, sui protagonismi e privilegi. Era una “Lettera Aperta al Movimento dei Bianchi Pro-Black”. In una settimana è stato condiviso più di 10.000 volte ed è diventato virale. Ho iniziato a collaborare con Revista Fórum, uno dei più importanti media online indipendenti.
Da allora non mi sono più fermato. Ho cominciato a viaggiare in Brasile per parlare di questioni razziali e, nonostante sia diventato maggiorenne da poco, ho viaggiato per tutto il paese per tenere conferenze e fare workshop d’arte.

Ho scelto di parlare di razzismo e della fobia della comunità LGBT per combattere e capire quello che vivo e, vista la visibilità, sono stato aggredito e ho ricevuto minacce di morte.
Il mio attivismo va a intervalli perché ho paura di uscire di casa e dover combattere contro il mondo. Più ne sono consapevole, più realizzo quanto siano costanti e devastanti gli atti di violenza che subiamo e sembra che fuori dalla mia stanza non passi giorno senza dolore e disagi mentali.
In Brasile noi neri e la comunità LGBT, soprattutto quelli attivi nella militanza, non moriamo solo perché uccisi: soffriamo di depressione.
Perché secondo te il Brasile soffre di tutto questo razzismo e colorism? Perché i neri si vergognano di essere neri?
In Brasile c’è un’egemonia bianca che privilegia solo sé stessa a svantaggio dei neri. Non sono mai esistite navi cariche di schiavi bianchi, i bianchi hanno sempre goduto dei loro diritti e per 400 anni nel mio paese non c’è mai stata una schiavitù di bianchi. Ecco perché esiste il razzismo in Brasile.

Dopo l’abolizione della schiavitù è stata incoraggiata l’immigrazione di persone [bianche] nel paese e visti gli obiettivi è inizato quel processo di sbiancamento del popolo brasiliano, per questo soffriamo anche di colorism.
Detto questo, i neri brasiliani si vergognano di quello che sono perché i bianchi li usano solo per lavori servili. Siamo cresciuti vedendoci schiavizzati nei libri di scuola, senza eroi, senza personalità nere, senza insegnanti, con i neri che nei media erano sempre rappresentati in posizioni di lavoro di sottordine.

Cosa vuol dire essere nero e gay in Brasile?
Lo scorso luglio, quando avevo 17 anni, decisi di andare via di casa perchè l’omofobia era un tabù e nel cercare sostegno trovai questo centro che riceveva persone LGBT. Il problema è che non ce n’era nessun centro che accogliesse minori, da nessuna parte.
Sfortunatamente, e non sono un’eccezione, molti giovani LGBT neri e poveri attraversano questa situazione e il movimento LGBT in Brasile non tocca i nostri problemi. Le linee guida del movimento sono principalmente focalizzate su cose come il diritto a sposarsi, ma altre questioni urgenti come il dare sostengo ai giovani LGBT non vengono neanche dibattute. È una cosa semplice ed è essenziale per molti giovani che a causa del loro orientamento sessuale o la loro identità di genere non hanno vita facile in famiglia.

Io sono fortunato perchè ho amici che mi hanno offerto un rifugio fino a quando non sono stato in grado di rimettermi in sesto, ma mi portavo addosso il peso di stare per strada. Mi prostituivo per sopravvivere, come tanti altri, solo perchè il movimento LGBT non lavora con le lenti della classe e della razza, o delle persone uccise. In Brasile ogni 12 minuti un giovane nero viene ucciso e il paese ha tra i più alti tassi di omicidi contro la comunità LGBT.
Dúdús è una piattaforma creativa che nasce proprio dal desiderio di dare una voce e uno spazio agli artisti afrobrasiliani. Quando e come è nata? Quali sono le vostre attività principali? Cosa avete realizzato da quando avete cominciato? Come funziona?
Dúdús in Yoruba significa ‘nero, scuro’, ed è anche il nome della piattaforma collaborativa nata da un gruppo su Facebook e creata esattamente un anno fa per raccogliere l’interesse della seconda edizione della manifestazione Ocupação Preta [tradotto: Occupazione Nera] che ho organizzato a Itajubá.
Visti gli incontri che il gruppo ha organizzato, lo abbiamo mantenuto attivo anche dopo la fine della manifestazione e di conseguenza abbiamo incluso altri artisti neri che hanno iniziato a inviare idee e progetti. Cercavano pareri e consigli su come concretizzarli.
Quindi attraverso lo scambio idee e il crowdfunding, questi progetti hanno cominciato a concretizzarsi e a luglio ho creato una pagina facebook e un profilo Instagram in cui pubblichiamo i lavori, raccogliamo le risorse necessarie per realizzare progetti di giovani creativi neri, divulghiamo il lavoro di artisti neri, anche quelli non necessariamente aiutati o finanziati da Dúdús.

Sosteniamo non solo i brasiliani ma anche gli artisti africani perché il potere di connessione dei media digitali è un potente strumento per irrompere nella diaspora e connetterci alle nostre origini. Pensa che un po’ di tempo fa abbiamo aiutato i nostri follower a scegliere le migliori mostre di San Paolo che esponevano artisti neri.
La piattaforma è aperta a ricevere qualsiasi progetto o lavoro di persone nere, specialmente nelle arti visive, anche se lavoriamo in diversi ambiti: fotografia, moda, cortometraggi, video musicali, performance ed esperimenti del suono.
Che ruolo ha la moda nella tua vita?
Vestire me stesso, i neri e fare degli shooting con loro è un modo per diffondere i miei princìpi, ricostruire la mia, la nostra rappresentazione sociale come individui neri. È un modo per provocare e, alla luce della crescente ostilità contro i nostri corpi, è un costante atto politico.
Le mie aspirazioni sono renderci visibili, combattere la derisione e la stereotipizzazione dei neri e queste forze che mi guidano attraverso lo strumento estetico, danno un significato diverso ai corpi dei neri in tutto il mondo.

Infatti credo che uno dei modi più efficaci per fronteggiare la discriminazione razziale e di genere sia attraverso le arti e la creatività. Essendo anche un personaggio pubblico che tiene conferenze, che differenza hai notato tra le due strade?
La differenza tra i due modi è che mentre simbolicamente e politicamente mi sento più rappresentato dai movimenti intersezionali neri, il mondo creativo, delle arti mi rende invisibile. Se tra i militanti neri LGBT sono percepito come un potenziale fratello, anche se non amano il mio modo di vestire alternativo o i posti che frequento, nell’ambiente creativo e artistico non è raro che la mia presenza in altri susciti l’impulso di controllare le loro cose o cercare sicurezza.
Stai lavorando a nuovi progetti ora?
Sì, sono stato invitato dall’artista André Niemeyer a produrre una mostra con artisti neri alla Casa da Luz, un centro culturale a San Paolo, dove si trova l’atelier. Sto anche scrivendo una sceneggiatura per un corto chiamato Hackqueers da Diáspora. Documenta la vita della comunità LGBT nera che con l’aiuto dei social media e della creatività hackera la diaspora, ci connette tutti l’uno con l’altro e alle nostre radici.

Che consiglio daresti ai brasiliani neri che si sentono marginalizzati a combattono per trovare un posto nella scena creativa e artistica brasiliana?
Siccome sono nero, mi dicono che non posso amare, non posso mostrare la mia sensibilità o addirittura che non posso provare affetto. Devo essere forte, tutto il tempo. Quando ero piccolo ho subíto abusi psicologici e ho represso qualsiasi forma di affetto e fragilità che potesse mostrare che sono sensibile, quindi umano.
La pressione sull’individuo nero che viene visto come una persona che apparentemente non sente nulla e gestisce bene tutte le situazioni è un’eredità del colonialismo e della schiavitú, che ci vedevano come oggetti e non persone. Essere forti per noi non va bene perché significa negare la nostra umanità.
Vista la mia necessità e voglia di parlarne, per gestire quelle debolezze che non posso avere perché sono nero, creo.

Quindi ai neri brasiliani suggerirei di permettersi di essere deboli, possiamo essere forti insieme, creare. Come ha detto Diane Lima, il mio più grande riferimento della scena creativa afrobrasiliana, “il processo creativo è il posto dove risiede il potere perché è un posto di scelte,” e attraverso questo spazio possiamo scegliere di guarire, liberarci dalle manette del razzismo e negoziare la nosra umanità.
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Immagine di copertina | Gabriel Hilair per GRIOT (c) Murillo José
Tutte le immagini e video | Per gentile concessione di Gabriel Hilair e Dúdús
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Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.