Delphine Diallo | “Avere Fiducia Nelle Donne Mi Ha Reso Una Persona Migliore”

La pandemia Covid-19 ha costretto molti di noi confinati a casa a fare il punto della nostra vita. I “questo sì, questo no”, le tante domande che spesso ci poniamo oggi hanno una forma diversa, quella che solitamente conosciamo ma che tendiamo a nascondere perché crediamo sia più semplice continuare con la nostra vita piuttoso che fermarci e metterci in discussione. Pochi giorni fa ho incontrato via skype Delphine Diallo, fotografa e artista visiva di base a Brooklyn, New York, e quando mi ha rivelato la sua decisione di spostarsi con il suo studio a Dakar, Senegal, mi sono entusiasmata per lei.
Nata a Parigi da madre francese e padre senegalese, la carriera di Diallo nell’industria visiva copre un arco temporale di vent’anni e il risultato è una miscela di stili e media diversi che danno al suo lavoro la forma di un continuo processo circolare incentrato su femminilità, nerezza e comunità emarginate.
I suoi scatti sono apparsi in svariate pubblicazioni, tra cui The New York Times, Essence, Vogue Portogallo, Aperture, e ha esposto alla Biennale di Dakar (Senegal, 2012) Resignifications Imagining the Black Body and Re-Staging Histories (Firenze, Italia, 2015) Paris Photo (2018), Art Basel Miami – No Commision (2018), per citarne alcune.
Che si tratti di un ritratto in bianco e nero, di un collage o di un progetto 3D, la voce e il lavoro di Diallo parlano chiaro. La necessità di rimanere fedele ai suoi principi e valori, il bisogno di rafforzare le donne nere e le persone di colore, sono come un mantra obbligatorio ma allo stesso tempo spontaneo che ha sviluppato durante le varie fasi della sua vita, e riflettono sia la sua visione che il suo attivismo sociale, il suo processo di guarigione connesso alla spiritualità, il Divino Femminile e l’unione del suo yin e yang—le identità francese e senegalese.

Consapevole dei passi in avanti compiuti dalle industrie visive in termini di diversità e rappresentazione, Diallo insiste sull’importanza di portare la conversazione a un livello più alto, di elevare il nostro pensiero critico per raggiungere il punto in cui diventerà fondamentale avere una maggiore diversificazione della narrazione legata al corpo nero, nonché costruire una lascito più solido riconducibile alla produzione di artisti della diaspora africana, con un occhio di riguardo per quelli provenienti da paesi che sono meno sotto i riflettori.
GRIOT: È probabile che la situazione che stiamo vivendo in qualche modo abbia alimentato la tua voce interiore, del tipo ‘Il tuo tempo a New York è finito Delphine. Devi andare in Senegal.’ È un grande cambiamento nella tua vita. Quando sei stata l’ultima volta?
Delphine Diallo: Sì, una sorta di insegnamento. Sono stata in Senegal solo una volta nella mia vita, quando avevo dodici anni. Mio padre si sentiva così in colpa per non avermi mai mandato prima a farmi conoscere dalla famiglia. In quell’occasione ho incontrato mia nonna per la prima volta e ho provato delle sensazioni meravigliose. Non le ero famigliare, né lei a me. Ricordo che tutta la famiglia faceva la fila per parlare con lei. Anch’io. Da bambina europea, cresciuta in Europa, non avevo idea di cosa fosse una società matriarcale. Mia nonna era quel tipo di donna, piena di saggezza.

Mi sono trasferita a New York perché era l’unico posto al mondo pronto ad offrirmi la possibilità che stavo cercando. Da quando ho messo piede nel mondo della fotografia, ho lavorato con persone e organizzazioni di grande talento. Tutto ciò non sarebbe mai potuto accadere se fossi rimasta a Parigi.
Ho raggiunto un certo livello oggi qui a New York. Ho avuto un grande mentore, Peter Beard [venuto a mancare il 19 aprile 2020], ed è stato l’insegnamento più veloce ed efficace che potessi avere perché diceva sempre la verità, specialmente quella più dura quando si trattava del mondo della moda. Ecco perché quando ho iniziato questo percorso sono andata abbastanza veloce; mi ci sono voluti solo due anni per definire la mia visione. Non ho mai cercato una qualche forma di approvazione, a nessun livello: né dall’industria dell’arte, né da quella dell’intrattenimento, né da quella commerciale. Il mio pensiero era, ‘Hanno i loro fotografi, non hanno bisogno di una donna nera. Io ho bisogno di una visione per le donne nere.’

Il tuo lavoro infatti si focalizza sulle donne nere. Come artista e come donna, da quando hai iniziato la tua carriera, hai visto dei cambiamenti significativi nella rappresentazione della nerezza e delle donne nere?
Sì, naturalmente, c’è stata un’evoluzione, è diventato così ovvio. Ma è tutto molto lento e l’industria visiva deve ancora rendersi conto di quanto l’oppressione delle donne nere sia molto presente, e di come questa oppressione sia legata al genere. Ed è arrivato il momento di parlarne, perché è tutto legato alla colonizzazione, e anche oltre.
Nonostante l’industria sia più aperta di prima, è come se ora noi artisti neri ci trovassimo a competere l’uno contro l’altro, e solo pochi alla fine vinceranno e si troveranno le porte aperte. È come negare l’esistenza di una scena fotografica nera eterogenea, diversa, come se non controllassimo noi la narrazione. Questo è ciò che mi infastidisce. Il modo in cui il mondo dell’arte ci vede e vuole coinvolgerti per me è ancora problematico, non è adatto a me.

La volgare interpretazione delle donne nere è ancora evidente, e a causa dei pochissimi esempi di grandezza per molte può essere dura. Certo, abbiamo Tony Morrison, Maya Angelou, ma se guardi la storia, erano come guerriere solitarie. E oggi non voglio più che succeda, ecco perché fotografo persone a me simili, metto al centro del mio lavoro e nella mia vita le donne nere.
In una recente conversazione hai dichiarato: “Avere fiducia nelle donne mi ha fatto reso una persona migliore”. È un messaggio potente. Che percezione hai avuto dell’essere donna nelle varie fasi della tua vita?
Il mio rapporto con le donne è iniziato negli ambienti sportivi. Sono cresciuta con mio fratello, eravamo migliori amici e quando avevo sei anni mia mamma mi iscrisse a Ju-jitsu. Eravamo un gruppo di bambine, ci volevamo bene, ma la mia comprensione dell’essere donna è iniziata realmente quando ho scoperto la pallavolo. Ero in una squadra di 11 donne, ci allenavamo quattro volte a settimana e tutti i fine settimana avevamo le gare. Scherzavamo, sudavamo, vincevamo e perdevamo insieme. È stato il tempo migliore. L’energia, l’adrenalina che avevo nascevano grazie allo stare insieme a quelle ragazze.
Dopo quel periodo misi da parte il mio essere donna e la mia comprensione delle relazioni con le donne in generale, perché a sedici anni iniziai una relazione durata quattordici anni, fino all’inizio della mia vita adulta. Quando finì, scoprii che ci sono donne che in maniera consapevole scelgono di odiare altre donne, e questa cosa mi fece molto male perché io non provavo alcun odio.

Quando nel 2008 mi sono trasferita a New York ho affittato questo appartamento con due amiche [Diallo mi mostra il suo grande appartmento e studio], ma in dieci anni ho vissuto con dieci coinquiline diverse. Il più delle volte è andata bene, a volte no, ma se dovessi farlo di nuovo lo farei perché vivendo con loro mi sono resa conto delle insicurezze che le donne hanno perchè non hanno un uomo, e di come ciò le spinga a comportarsi male con altre donne. Se siamo una comunità di donne possiamo darci amore l’una con l’altra. Le donne possono creare un mondo fantastico ma non riescono a vederlo, non riescono a trovare il modo di aiutarsi a vicenda. Questa nozione è molto presente nei paesi africani, dove ci sono meno soldi e le donne sanno come affrontare la condizione femminile: con principi e regole. Le donne che vivono nelle società patriarcali occidentali hanno completamente dimenticato cosa significhi essere donna e collaborare. Mi ci sono voluti dodici anni per capire le relazioni tra donne.
Hai sempre fotografato le tue amiche, ma nel progetto Women of New York (2019) hai cambiato approccio, fotografando donne che non conoscevi. Com’è stato il viaggio dallo scattare foto a persone con cui avevi una forte relazione, a fotografare persone sconosciute? Che effetto ha avuto su di te?
Ha cambiato il mio rapporto con le donne. Quando ho realizzato Women of New York ho fotografato 140 donne e ho imparato il potere di una singola foto. Dovevo davvero mettere in discussione il modo in cui il mio lavoro stava evolvendo e, soprattutto, riconoscerne i limiti. Perché era limitato alle sole persone che conoscevo, e così mi sono resa conto che dovevo espandere la mia arte ad altre persone, ma allo stesso tempo non volevo esprimere alcun giudizio quando arrivò il momento di selezionare chi includere—l’atto del selezionare è qualcosa legato molto all’energia maschile. Quindi capii che l’unico modo per diventare più onesta con il mio lavoro era fotografare donne che non avrei mai immaginato di fotografare.

L’ho anche sognato, così ho lanciato una call per sole donne e la risposta è stata piuttosto sorprendente, ho ricevuto 140 messaggi. E quando ho appeso le immagini sul muro, una ad una, è successo qualcosa. Prima di tutto mi sono resa conto che c’erano tante donne bianche quante donne nere. Ho sentito che il lavoro era stato compreso al di fuori della questione razziale. Il fatto poi di aver fotografato così tante donne che non avrei mai immaginato di fotografare—per via della mia concezione estetica—ha aperto compleamente una nuova estetica. Le ho anche filmate, chiedendo loro del rapporto che avevano con New York, parlandoci, a volte ascoltando qualcuna a lungo. Insomma, è stata un’espressione molto onesta, bella, sensibile, emotiva delle donne, e non l’avevo mai vista.
Da questo progetto ho imparato a essere più empatica, perché ero pronta, e anche a capire meglio la bellezza che risiede in ogni singola donna. Per me l’arte è davvero una scusa per parlare della mia esperienza di vita, quindi spero che le persone che ammirano gli artisti siano sempre più ispirate dalle loro esperienze di vita.

Scatti principalmente in bianco e nero. Che relazione hai con questi due colori?
Da artista, non potevo scattare a colori quando ho iniziato perché non mi permetteva di trovare la forma del mio lavoro. Se ti mostro tutte le mie opere in bianco e nero, riesci a vedere la forma. Riesci a riconoscere la mia firma. Se avessi iniziato a lavorare a colori, avrei avuto difficoltà a definire la mia forma. I primi dieci anni mi hanno permesso di trovare la mia forma e da due anni scatto a colori, perché sono pronta. In questo momento sto studiando la mia palette, è uno sviluppo lento perché è difficile processare il proprio mondo.
Ma il mio stile bianco e nero a volte non è stato capito, e questo a causa di un’interpretazione che il bianco e nero sono Malick Sidibé, Seidou Keita, e il lavoro dei neri non dovrebbe più essere in bianco e nero. Ma è una cattiva interpretazione di cosa è l’Africa. Non si tratta del mio lavoro. La fotografia è uno strumento molto diverso. Se scatto in bianco e nero è perché vedo qualcosa lì fuori che immagino in bianco e nero, perché nel mio cuore vedo una forma in bianco e nero.
E così ho scoperto la mia mente, il mio stato di sogno, i miei sogni nitidi, e poi ho riconosciuto il misticismo in loro. La mia interpretazione delle mie opere è collegata al mio stato di sogno e lo stato di sogno per me non ha ancora colore. Quindi tutte le opere che vedi, ad esempio la donna come un dipinto bianco, rappresentano il mio percorso di mettere a nudo l’antica conoscenza dell’archetipo femminile—che non è più dormiente in me—che tutte le donne hanno.

L’energia e la sensazione di tutto questo è qualcosa che molti nel mondo dell’arte non capiscono, non capiscono cosa stia facendo nel mio lavoro, che non è solo curare le donne di colore: sto trasformando spiritualmente l’oppressione che le donne di colore hanno vissuto secoli fa. Quando realizzo un’opera il processo è molto intenso, non cerco di seguire una tendenza.
Le donne di colore sono ancora i miei soggetti principali, ma il passo successivo sarà lavorare più a un livello energetico, di guarigione. Tra dieci o quindici anni mi piacerebbe avere un corpo di lavori che nella mia intenzione deve curare lo spazio e le donne di colore. Perché se curi le donne di colore, curi il mondo.
L’atto di curare è legato alla spiritualità, che traspare molto nel tuo lavoro. Qual è il tuo rapporto con la spiritualità nella tua vita quotidiana?
Ho la mia scuola di spiritualità, una mia pratica personalizzata perché ognuno di noi ha uno spirito diverso. Gli spiriti creativi non amano essere controllati, quindi era importante anche per la mia arte trovare disciplina. Non sarei potuta diventare un’artista se non avessi avuto disciplina. E volevo trovare il mio modo di narrare, per cui dovevo studiare molto. Ero drogata di libri—mitologia comparata, filosofia orientale, religioni—e ho praticato arti marziali, kung fu, Qi gong per comprendere dove sarebbe andata la mia narrazione. La prima domanda che mi sono posta quando sono diventata fotografa è stata: “Dov’è il soggetto e perché è importante?” Quindi, la crescita spirituale era importante. Non potrei fare il mio lavoro senza prima comprendere le persone a livello spirituale. Così come il lavoro di scambio, discussione, di ascolto delle mie sorelle, dei loro problemi, aiutandole, supportandole fisicamente. Il mio primo obiettivo è trovare persone che stanno raggiungendo in modo diverso la destinazione della loro spiritualità.

Negli ultimi dieci anni le donne sono cresciute molto e sono pochi gli uomini che hanno capito questa crescita. Alcuni di loro ti supportano perché si rendono conto di ciò che sta accadendo; ascoltano, accettano, e sono dei veri e propri partner che sanno che questo mondo dovrebbe passare a un’energia più femminile. Ma la maggior parte del resto non capisce. E questa cosa in questo momento ha iniziato a influenzare il mio lavoro, e non voglio essere ingannata dagli uomini. Penso che in questo mondo ci siano uomini buoni, ma sono ingannata dalla cultura, dalla società ed è per questo che come artista devi trovare il tuo spazio per la tua trasformazione.
La donna è già un essere spirituale. Non lo sa, ma lo è, perché crea la vita, ha il ciclo, è connessa con la luna ed è più in contatto con le emozioni. E quando ho il ciclo mi isolo per tre giorni per concentrarmi sulle mie emozioni. Queste emozioni che canalizzi dal ciclo non sono solo tue, sono le emozioni dell’intero pianeta che si riversano all’interno del tuo stato di coscienza. È per questo che oggi è molto doloroso per le donne, perché dobbiamo affrontare molta energia di questa follia che arriva da tutto il mondo. Lo stiamo facendo, ma ecco perché è necessario avere una pratica spirituale.

Quando ti trasferirai in Senegal? Cosa ti aspetti da questo cambiamento?
Penso che per me sia fondamentale spostare il mio lavoro altrove, perché credo sarà più profondo se potrò creare oggetti significativi con la stessa fotografia, ed estendere la narrazione al continente africano. Inoltre, in questo momento sento il bisogno di rallentare. Voglio prendermi il mio tempo. Il mio lavoro non crescerà se non cambierò il mio rapporto con lo spazio e il tempo.
Sono diventata più saggia e calma, e in questa pandemia il tempo è più diluito, riesco a fare ottime conversazioni con gli amici, ne siamo consapevoli, le persone si stanno riprendendo il tempo. Naturalmente non sei in vacanza, sei in una pandemia, confinato in casa, ma non puoi negare che anche in vacanza non ti poni queste domande. Il flusso che stiamo vivendo in questo momento si sta sciogliendo, come gli orologi di Dalí. Stiamo vivendo nel tempo di Dalí.
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Immagine di copertina | Delphine Diallo – Foto di Cory Rice
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Arti visive, performative e audiovisive, cultura, musica e viaggi: vivrei solo di questo. Sono curatrice e produttrice culturale indipendente e Direttrice Artistica di GRIOTmag e SPAZIO GRIOT, spazio nomade che promuove la sperimentazione multidisicplinare, l'esplorazione e la discussione.