“Dalla Fattoria Alla Tavola” Su Una Terra Rubata
Molti degli stravaganti locali culinari di Città del Capo si nascondono dietro un falso ethos di sostenibilità esclusivo con profonde radici storiche, scrive Mary Fawzy

Ci si sente piccoli entrando nella Groot Constantia di Città del Capo, la più grande e antica azienda vinicola del Sud Africa. Lo scenario immacolato e i filari di viti tradiscono il lavoro svolto nella terra, ma non ci sono lavoratrici/lavoratori in vista. Nella cantina dei vini è esposta una cronologia che inizia con l’arrivo di Simon van der Stel, che divenne il governatore della Colonia del Capo nel 1679. Si apprende che la terra gli fu “concessa” dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali nel 1679, sebbene il “come” sia convenientemente omesso. Groot Contsantia è stata costruita e inizialmente sostenuta dal lavoro in schiavitù, un fatto che il sito web dell’azienda casualmente paragona alle Grandi Piramidi e al Colosseo.
Le aziende vinicole sono una parte importante della cultura gastronomica celebrativa di Città del Capo. Nel distretto di Cape Winelands—Stellenbosch, Paarl, Franschhoek e Somerset West—i vecchi quartieri un tempo abitati da persone schiavizzate, sono stati trasformati in caffè, come a Spier Wine Estate. Tutto in questi luoghi parla di “vecchio mondo”: i loro nomi, l’architettura coloniale olandese del Capo e i cimeli, come le mappe coloniali appese ai muri. Commercializzato come un richiamo a un’epoca in cui il Capo era un “ospitale punto di ristoro” per “esploratori e viaggiatori”, queste tenute si trovano su terre sottratte con la forza e distribuite gratuitamente dal governatore. In molti stabilimenti, l’atto di proprietà firmato da van der Stel viene visualizzato senza menzionare chi c’era inzialmente o il genocidio compiuto per acquisirlo: di per sé una difesa aggressiva della proprietà della terra coloniale.

Da nord africana che è cresciuta nell’Africa australe, mi sono abituata all’immaginario coloniale di alcune aree, compresa la prevedibile clientela, in gran parte bianca. Ma al di fuori di ciò che è “normale” in Sud Africa, è alquanto bizzarro vedere l’esistenza di queste fattorie rurali europee del XVII secolo nella parte più meridionale dell’Africa. La storia sbiancata di questi “siti patrimonio” preserva solo il potere dei bianchi in un paese che ancora soffre la tangibile eredità dell’Apartheid.
Se molti pensano che Città del Capo sia come una città europea, dissentono sul fatto che sia una cosa positiva o meno. Tutti concordano che sia una città per la diversità, se misurata esclusivamente in termini di dati demografici. Questa “diversità” è anche popolare tra le scrittrici/tra gli scrittori che ne descrivono la variegata scena gastronomica. Ma guardando al paesaggio, a chi possiede ristoranti e Winelands, si riescono a scorgere le dinamiche di potere di questa città: diversità non presuppone equità.
GASTRONOMIA E DISUGUAGLIANZA
Nella scena gastronomica di Città del Capo, la disuguaglianza inizia con la proprietà della terra. A Città del Capo infatti i principali terreni (compresa Constantia) furono designati con il amrchio “solo bianchi” sotto il dominio coloniale, mentre le terre meno desiderabili e più lontane vennero assegnate alle persone Nere. L’espropriazione della terra è continuata attraverso il Group Areas Act del 1950 durante il regime dell’Apartheid, quando la terra fu assegnata separatamente e rispettivamente a “Neri, Persone di Colore e Indiani (questi diversi gruppi razzializzati sono stati raggruppati sotto il termine generale di “Neri “). I Neri furono reinsediati abbastanza lontano da essere fuori dalla vista, ma abbastanza vicini da essere accessibili come manodopera.
La frase “dalla fattoria alla tavola” viene sempre più utilizzata per associare i migliori ristoranti di Città del Capo alla terra che li circonda. Mentre fattorie incontaminate fiancheggiano la terra più rigogliosa del Capo, le township densamente popolate si trovano su terreni sabbiosi e soggetti a inondazioni. Secondo un audit fondiario del 2017, i bianchi—meno del 10% della popolazione del Sud Africa—possiedono il 72% dei terreni agricoli. Inoltre, solo il 3% delle aziende vinicole è di proprietà dei Neri, come ha scoperto di recente la giornalista gastronomica Ishay Govender. Sebbene in Sud Africa sia ancora un argomento controverso, sin dal 1994 gli sforzi di ridistribuzione della terra fatti dal governo sono stati estremamente limitati, anche se le fazioni bianche di destra vorrebbero far sembrare il contrario.
Nel 2011, un rapporto di Human Rights Watch ha rilevato che l’industria della frutta e del vino in Sud Africa è piena di violazioni dei diritti umani, compreso il “dop system” in cui in pratica i proprietari pagavano i lavoratori con vino a buon mercato, di conseguenza creando alcolismo generazionale. Altre prove suggeriscono che da allora le condizioni di lavoro non sono migliorate in modo significativo. Groot Constantia nel 2017 non ha passato due audit etici condotti dalla Wine and Agricultural Ethical Trade Association (WIETA) , che ha citato “una grave non conformità” alle condizioni di lavoro etiche. La Commercial, Stevedoring, Agriculture and Allied Workers ‘Union (CSAAWU) riferisce che le ripugnanti condizioni di vita a Groot Constantia sono diffuse in tutto il Capo Occidentale. Nel 2019 hanno organizzato una protesta dei contadini/delle contandine alle ambasciate norvegese e svedese (i maggiori paesi importatori di vino sud africano), invitandoli a spingere a favore di standard di lavoro etici. Durante la pandemia di Covid-19, e il relativo divieto di alcol in Sud Africa, i lavoratori/le lavoratrici agricoli/agricole sono stati/state i/le più duramente colpiti/colpite e molti/molte sono stati/state tagliate/tagliati. Mentre i proprietari stanno affrontando la perdita di profitti, i lavoratori/le lavoratrici devono affrontare sfratti, fame e barbonismo.
Nonostante tutto questo, molti di questi ristoranti e fattorie vengono salutati come etici per via della loro “sostenibilità” e dell’idea “dalla fattoria alla tavola”. Il greenwashing, in cui vengono utilizzate corrette pratiche ambientali per sanificare pratiche di lavoro non sane, è comune, giustificando prezzi esorbitanti per i pasti prodotti con i bassi salari delle/dei lavoratrici/lavoratori agricole/agricoli. Per i Neri/le Nere “dalla fattoria alla tavola” in Sud Africa significa essenzialmente: dalle fattorie che non possiedono, ai tavoli in cui non sono i/le benvenuti/benvenute.

Ogni volta che Città del Capo viene votata come una delle migliori destinazioni al mondo, si menzionano sempre i suoi eccellenti ristoranti. Mentre in Occidente le dinamiche razziali del lavoro nei ristoranti possono essere nascoste, spesso con una demarcazione razziale tra chef.fe e lavapiatti invisibili, a Città del Capo è impossibile ignorarle. I media che si occupano di viaggio frequentano le aree visibilmente ricche, “un tempo bianche”, di Città del Capo. Sia le guide locali che internazionali dei “Migliori ristoranti”, in gran parte includono ristoranti di proprietà bianca, in aree a maggioranza bianca, mentre la cucina africana è marginalizzata—se presente—riflettendo il razzismo istituzionale che caratterizza questa città. Nei riconoscimenti di viaggio e nelle liste “best of” in cui si trova Città del Capo, non c’è spazio per le realtà della maggioranza che vive e lavora lì. Negli ultimi anni i media sud africani che si occupano di cibo hanno compiuto alcuni sforzi per aumentare la diversità, ma sono ancora dominati dal bianco e il cibo, la terra e la giustizia del lavoro spesso sono esclusi dalla conversazione.
Questo stato delle cose nel 2019 ha portato alla formazione di una rete di persone di colore all’interno dell’industria alimentare denominata SA POC at the Table (South African People of Colour). La fondatrice, Ishay Govender, ha citato il senso di frustrazione provato per anni verso i media di proprietà dei bianchi e una visione limitata delle numerose culture culinarie della nazione. C’è anche un numero crescente di chef, attiviste/attivisti e operatrici/operatori culturali che promuovono le culture culinarie africane, che sono ancora viste come inferiori rispetto alla cucina europea. Le scuole di cucina perpetuano questa idea, con chef sud africani/sud africane che si diplomano senza che venga insegnato loro come preparare comuni ricette sud africane. Quando un_ studente di una scuola di cucina durante un esame ha provato a cucinare frattaglie, la scuola ha rifiutato il piatto, costringendol_ a ripianificare il suo menu. Nel frattempo, i cibi culturali appartenenti a persone di colore come i panini gatsby, il pap (un tipo di porridge di mais) e gli insetti, come i vermi mopane, talvolta vengono appropriati dagli chef bianchi che ne traggono poi profitto. Gli/Le chef.fe Neri/Nere hanno anche parlato del razzismo e della classificazione che durante la loro carriera hanno vissuto nelle cucine. Sebbene le culture del cibo Nero stiano trovando spazio nei media che parlano di cibo, grazie a questi sforzi, nella realtà rappresentano ancora una minoranza.

Nel corso della storia di Città del Capo, l’allontamento forzato di persone ha profondamente influenzato le sue tradizioni e i suoi costumi alimentari, separando le persone dai loro sistemi alimentari e costringendole ad adottare metodi coloniali di agricoltura, produzione e alimentazione. Oggi il trauma coloniale continua con la corporativizzazione del cibo e il lavoro di sfruttamento necessario per accedervi: dalle fattorie agli impianti di lavorazione, agli ambienti abusivi delle cucine professionali.
Il panorama dei ristoranti sarà sempre dominato da coloro che hanno accesso al capitale, e in un Sud Africa senza riparazioni, restituzione e un fiorente movimento anticapitalista, i beneficiari del colonialismo continueranno ad avere il potere e a gestirlo in modo strumentale ai loro bisogni. Invece di delirare su Città del Capo come “destinazione gastronomica per eccellenza”—o di essere complici di fantasie “dalla fattoria alla tavola”—il cibo tradizionale e i media di viaggio dovrebbero porsi attivamente questa domanda: se centinaia di anni dopo, le persone che possiedono la terra e i ristoranti sono i discendenti dei coloni e le persone che lavorano la terra e nei ristoranti sono i discendenti dei colonizzati, allora, cosa è cambiato realmente?
Questo articolo di Mary Fawzy è apparso originariamente su Vittles il 15.02.2021. È stato accorciato e modificato da Eric Otieno con il consenso dell’autrice.
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