Claudio Coccoluto | Di Brexit, Del Fabric, Della Club Culture E Delle Droghe Nelle Disco

Di questi tempi il mondo sembra provare un certo gusto nell’andare sempre più alla rovescia. Una spiccata capacità di riparare i danni senza mai risolvere i problemi, politiche sociali più obsolete che innovative e una rivoluzione tecnologica alla quale non sappiamo tenere testa, delineano la sagoma di un’umanità capricciosa e poco consapevole, cui unico vero trend sembra essere l’annullamento dell’alternatività – nel senso più ampio ed inclusivo del termine. Per questo motivo ho voluto parlare con una figura alternativa ammirata da giovani e adulti che non ha voglia di andare a raccontare storie a nessuno e più che marciare su traguardi passati si concentra su quelli futuri.
DJ internazionale, produttore, collezionista di vinili, Claudio Coccoluto è da decenni una delle icone più seguite nel panorama della musica house e del clubbing. Abbiamo fatto una chiacchierata sui progetti della sua rinnovata label, su Brexit, sul Fabric e sul futuro della club culture.
GRIOT: Hai avuto un’estate molto intensa con date sia in Italia che all’estero. Su quali progetti stai lavorando al momento e che cosa hai in piano per il 2017?
Claudio Coccoluto: Al momento sto lavorando a diversi progetti per la mia label The Dub Records che è rimasta congelata per diversi anni. Con mia grande sorpresa mio figlio si è messo a fare il produttore e il DJ e questo è stato il fatto decisivo che mi ha spinto a far ripartire i lavori. È un paradosso, l’ultima cosa che mi sarei aspettato è che mio figlio seguisse le mie orme. Ma è successo, e questo mi ha dato nuove prospettive e mi ha rivitalizzato sotto tutti i punti di vista: mi sento di nuovo il ragazzetto alle prime armi che sta cercando di portare lontano la sua passione! Perciò l’anno scorso abbiamo fatto un re-styling della label, abbiamo ricominciato a produrre e nel 2017 The Dub compierà vent’anni. Per questa occasione stiamo preparando una serie di iniziative tramite cui vorrei riproporre dei temi a me cari dal punto di vista musicale, che hanno una ragion d’essere e una presa sulle persone che va al di là delle mode del momento.
Visto questo tuo nuovo approccio nel fare musica e la grande esperienza alle tue spalle, come è cambiato il ruolo di dj e produttori rispetto a quando hai iniziato la tua carriera?
Dunque c’è un punto di vista sociale ed uno personale. Quello sociale è che il dj è comunque percepito come quello che mette la musica alle feste. E tendenzialmente all’ottanta percento delle persone in pista importa poco se sta suonando con una chiavetta USB o con un vinile. Io penso che il contenuto sia sempre più importante dello strumento con il quale lo esprimi.
Da un punto di vista personale, invece, mi identifico molto con lo strumento con cui mi esprimo. Il mio strumento è il giradischi, mentre lo strumento di un ragazzino che nasce nel 1992 non può essere che un lettore digitale o altro. L’importante è la curiosità di fare cross-over tra tutto quello che la tecnologia ti offre per esprimerti perché non è detto, e questa è sempre una mia opinione personale, che tutto il nuovo sia meglio.

Quando devo esprimermi mettendo i dischi, non riesco a farlo attraverso la tecnologia, che per altro mi circonda e mi interessa come arricchimento personale e culturale. Quando metto la musica, ho bisogno di toccare i dischi, di sfogliarli, di tirarli fuori dalle copertine. Ho un’assoluta idiosincrasia quando si tratta di scrollare i file. Perché dovrei ricordarmi i nomi di ognuno di loro? Invece quando maneggio i dischi, mi ricordo la copertina, o il nome dell’autore o del brano, ma non necessariamente tutte e tre le cose.
E allora i gesti di tirare fuori un disco, di muoversi in console in un certo modo, di accendere il giradischi, di mettere il braccetto sul disco e cercare il tempo a mano, per me hanno un che di artigianale e anche di teatrale. Cioè è uno spazio scenico che riesco a riempire così e non mi vedrei mai nella stessa situazione, a premere dei bottoncini. Ma questo attiene alla mia cultura personale quindi io continuo come ho sempre fatto perché so che se sto bene io, faccio stare bene gli altri, che è la mia funzione poi.

Fare il lavoro del dj o del produttore di musica è diventato sempre più popolare con gli anni e tuo figlio, appunto, è un giovane aspirante. Cosa consigli a chi vuole intraprendere questa carriera?
Secondo me non c’è una ricetta. Il consiglio che si può dare, ed è quello che do anche a mio figlio, è di ampliare la propria sfera di conoscenza e di non fossilizzarsi su un genere musicale, perché è il tipico errore di chi inizia a fare musica. Un altro passo falso che fanno in tanti, e che ho fatto anch’io, è pensare che il passato sia tutto da buttare.
Nel mondo della musica il riciclo è sempre all’ordine del giorno e magari senti che in una traccia c’è il seme di un’altra traccia che è stata fatta 20 anni prima, è importante capire come si sviluppano certe cose. Soprattutto, penso che la musica sia un’arte nobile.

Il DJ è al servizio della musica, non è un manipolatore o peggio ancora uno sfruttatore. Se hai l’approccio giusto con la musica, sono sicuro che la musica ti ripaga sempre. Devi avere molta passione, molta curiosità e la determinazione a perseguire il tuo obiettivo, poi la modalità la scegli tu e la personalità farà la differenza.
So che hai lunghissimo trascorso in Inghilterra. Io mi sono trasferita a Londra anni fa per la sua alternatività culturale, politica e musicale, ma negli ultimi mesi ho avuto diverse delusioni, a partire da Brexit alla chiusura del Fabric ed altri locali. Tu che ne pensi?
Sì, io dal 1995 ho girato l’Inghilterra da capo a piedi, dalle piccole piste della Cornovaglia ai grandi locali. Effettivamente sono rimasto molto stupito, anche se è giusto dire che il voto di Londra è stato diverso da quello del resto del paese, e più che una questione politica mi sembra un voto di pancia influenzato dal populismo spicciolo.
Per quanto riguarda il Fabric, mi sono informato e penso che la questione sia diversa. Ho letto che c’erano già stati dei problemi in passato e che una sentenza favorevole al Fabric lo aveva fatto riaprire, ma che il locale non ha ottemperato a risolvere i problemi legati alla sicurezza. Probabilmente questo precedente ha indispettito le autorità ed ha fatto sì che si sia arrivati a prendere questa decisione. Io posso facilmente fare il parallelo con il Cocoricò perché più o meno è successa la stessa cosa.

Avendo molta esperienza nel clubbing, sia italiano che inglese perché ho lavorato al Ministry of Sound di Londra per tanti anni, posso dire che sappiamo tutti in quali mari navighiamo e quali sono i pericoli da evitare. In questo caso probabilmente un po’ di prudenza preventiva avrebbe evitato una così forte reazione, ma come al solito le ragioni sono più economiche che di vera sicurezza. Questo fa riflettere proprio perché lavorando in questo ambiente e sapendo che purtroppo è inevitabile che non ci siano le ripercussioni che conosciamo, la sicurezza dovrebbe essere una forma di autotutela e un dovere morale che non dovrebbe essere imposto dalle autorità.
Pensare che fare uso di sostanze sia l’aspetto principale del clubbing mi preoccupa come DJ, come persona, come padre. Ha talmente preso il sopravvento che dobbiamo stare attenti noi DJ a non diventare il veicolo di questa propaganda. Questo è ciò che mi ha spinto a suggerire un re-styling dal punto di vista dei colori e della luminosità anche al Goa di Roma, locale di cui sono socio.

In generale, penso che dovremmo interrogarci sul perchè si è così deboli verso le dipendenze e sul perchè questa società accetti così facilmente di dipendere da qualcosa, che siano i social media o le droghe.
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Sono una persona molto eclettica con un’ossessione per la musica e la sociologia. Nata e cresciuta in Italia, Londra è diventata la mia casa. Qui creo beat, ballo, canto, suono, scrivo, cucino e insegno in una scuola internazionale.