Biennale Di Berlino | Non Abbiamo Bisogno Di Un’altra Recensione

di Eric Otieno Sumba - Pubblicato il 30/09/2018

Quando è tempo di Biennale si capisce subito perché a Berlino c’è un’atmosfera inquieta di sofisticatezza pseudo-artistica di basso profilo ovunque e—come è normale aspettarsi—la capitale tedesca vuole disperatamente rimanere la metropoli artistica più figa della storia dell’universo.

In una mattina di agosto stranamente fresca dopo la grande ondata di calore del 2018, concentro le mie energie nel sembrare un personaggio serio del mondo dell’arte nel cortile del KW Institute for Contemporary Art, una delle location della Biennale nel quartiere Mitte di Berlino. Sorseggio performativamente il mio cappuccino, lo stesso che ho dovuto pagare in contanti perché grazie alla la politica del “solo-contanti” si evita di dover spiegare agli studenti di storia dell’arte americani ossessionati con la privacy il motivo per cui cui non vengono accettati pagamenti in BitCoin—e Berlino non era la capitale del BitCoin?

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Mitte, Immagine di Eiswek – via BelinBiennale

La decima Biennale, intitolata We don’t need another hero – Non abbiamo bisogno di un altro eroe, si è conclusa il 9 settembre e, per fortuna, l’entusiasmo per il team curatoriale interamente nero con il tempo si è affievolito.

Gabi Ngcobo—la curatrice—sta concludendo un tour della location con un gruppo, mentre i suoi prossimi interlocutori la attendono. La crew televisiva di una testata franco-tedesca le chiede subito di togliersi gli occhiali da sole per la telecamera. Di lì a poco, l’intervista incomincia a pochi metri dal mio tavolo e, grazie al leggero vento, riesco a sentire dei frammenti di conversazione. Troppe delle domande poste sono già state affrontate sul sito della Biennale, ma Ngcobo risponde con una pazienza che molti personaggi del mondo dell’arte non avrebbero per un giornalista mal preparato.

Dopo l’immenso obsolescente spettacolo di irrilevanza che è stata la nona Biennale di Berlino, le aspettative erano molto alte per questa edizione. “Hanno chiamato le donne nere per sistemare le cose”, dice un artista afro-olandese non partecipante che incontro più tardi quel giorno.

Conosciuta per essere uno degli eventi artistici più politici in Europa, questa decima edizione ha riportato Berlino in piena forma organizzando un anti-biennale che ha seriamente fatto del rifiuto un modus operandi, dandoci il definitivo inno al rifiuto, I’m not who you think, I’m not e un sacco di arte in grado di stimolare spunti di riflessione.

La storia ci insegna che il rifiuto secco e duro ha dato vita a movimenti iconici: schiaffeggiando un ufficiale, Mekatilili wa Menza, una donna leader, nel 1913 rifiutò la buffoneria coloniale inglese in quello che oggi è il Kenya; dicendo “No”, Rosa Parks iniziò il boicottaggio degli autobus a Montgomery nel 1955. Allo stesso modo, c’è un’aria di celata importanza  intorno al cosiddetto (non) Manifesto. Una chiamata all’azione e allo stesso tempo un promemoria del fatto che abbiamo già eroi(ne) ci invita a tornare indietro e a imparare da coloro che hanno già provato a portare in vita utopie imperfette. Alternativamente, immaginatevi Bessie Head, Fela Kuti, Audre Lorde, Donna Kukama, Tina Turner, Grace Jones, Nina Simone, Edouard Glissant, May Ayim, Jota Mombaça e i Fallists insieme in una stanza che discutono lo stato del mondo al giorno d’oggi—che bello sarebbe vedere il trailer di questa discussione!

Nulla poteva possibilmente prepararmi per l’immensa installazione di Dineo Seshee Bopape, che ti fa sentire come in una realtà parallela in cui un’officina di attivisti che stampano magliette incontra uno scenario post apocalittico di rottami sparpagliati, e una tonalità di arancione acceso incontra una performance di Nina Simone e un parco parigino in cui gli uomini un tempo venivano esposti in degli zoo. Entrare nell’installazione lascia molto confusi: non si capisce né cosa guardare, né dove camminare, anche i visitatori di gallerie più esperti sarebbero disorientati, figuriamoci i consumatori di arte per svago. Certo è che non c’era niente da consumare qui, a parte la grande palla da discoteca di cartone di Jabu Arnell Discoball X, che con la fotocamera giusta si aggiudicherà sicuramente qualche “mi piace” su Instagram. Nella sua interezza, il lavoro di Bopape è stata una sconvolgente iniziazione ai temi di cui la Biennale fa un trattato, oltre che a fornire eccezionali occasioni per twittare. Me ne sono andato chiedendomi con angoscia cosa stava (sta) succedendo, un domanda che—si spera—si siano fatti in molti ultimamente.

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Untitled (Of Occult Instability) [Feelings] (2016), di Dineo Seshee Bopape –  via BerlinBiennale
Ciò nonostante, c’erano molti chiarimenti non-obbligatori, incluso quella seccatura che si auto-perpetua che è la supremazia bianca: il soggetto dei diversi, ma profondamente critici lavori video di Grada Kilomba e Mario Pfeiffer. Mentre Kilomba traduce il fastidio attraverso il mito greco di Edipo, Pfeiffer lo porta a casa in Again/Noch einmal, mostrando come in Germania continua a manifestarsi strutturalmente e istituzionalmente. Al contrario, Natasha Kelly esplora l’autodeterminazione in Milli’s Awakening, come anche un’installazione video con ritratti intergenerazionali di donne nere e del movimento delle donne nere in Germania.

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Milli’s Awakening (2018), video, di Natasha A. Kelly – via BerlinBiennale

In un’altra sezione, la performance di Okuwi Okwupwasili, Bronx Gothic, e l’installazione multimediale di Tessa Mars, The Good Fight, ricordano ai visitatori la lunga storia della resistenza femminile contro la dominazione patriarcale, razzista e sessista in contesti coloniali e contemporanei.

Toli Toli, di Minia Biabany, porta i visitatori alla realizzazione che la conoscenza ancestrale non può essere solo scritta o parlata, ma anche tessuta. Le trappole per i pesci di bamboo che penzolano con eleganza presso l’Akademie der Künste rifuggono l’inaspettata difficoltà dell’artista di trovare pescatori in Guadalupe che potessero insegnarle come costruire le trappole. Di conseguenza, Biabany traduce esteticamente l’orrore della perdita di un’importante eredità ancestrale che viene data per scontato.

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Toli Toli (2018), di Minia Biabiany – via BerlinBiennale

Nelle vicinanze, in una strana inversione della maniera tradizionale di osservare i dipinti, l’opera in più parti A file for a Martyr to a Cause di Lynette Yiadom Boakye restituisce lo sguardo ai visitatori da uno sfondo apparentemente malinconico e ombroso, facendo diventare l’osservatore l’oggetto osservato.

Fin dall’inizio la Biennale è stata caratterizzata da dei format nuovi come la “serata club digressiva” presentata da Keleketla Library di Johannesburg a Yaam, la cena-performance dell’artista con base a Berlino Isaiah Lopaz, e la performance visuale di spoken word di Koleka Putuma, in collaborazione con il leggendario archivio berlinese Each One Teach One.

Quando lascio la Biennale quel giorno d’Agosto, lascio uno spazio e un luogo che ha ospitato un necessario esercizio di decostruzione, disapprendimento, sconvolgimento e, in definitiva, decanonizzazione dei canoni artistici globali. Me ne vado con la realizzazione che le dinamiche di potere e lo sguardo maschile che continuano a modellare i canoni artistici sono in un continuo stato di obsolescenza storica. Me ne vado sapendo che era l’ora, che è stata l’ora di una Biennale come questa per molto tempo, una Biennale che riflette e si fa testimone di un momento storico che è già in corso.

Dopo una Biennale così, certo non abbiamo bisogno di un’altra recensione. Ma di nuovo, questo non è quello che pensate che non sia.

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English – We don’t need another review 

Immagine di copertina | Team curatoriale della Decima Biennale di Berlino. Da sinistra: Thiago de Paula Souza, Gabi Ngcobo, Nomaduma Rosa Masilela, Yvette Mutumba, Moses Serubiri – Foto di F. Anthea Schaap – via BerlinBiennale

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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.