Basquiat | Il Radiant Child Illumina Il MUDEC Di Milano

di Thais Montessori Brandao - Pubblicato il 13/12/2016

Ho questo ricordo indelebile: dita cariche di anelli in pietre grezze che tamburellano sulla cattedra, mentre una voce roca e severa urla – per raggiungere anche le orecchie più distratte e svogliate della classe – “si firmava SAMO!, ‘Same Old Shit’,” ovvero “la solita vecchia merda!”

Era la mia professoressa di storia dell’arte del liceo, e mentre le ultime risatine dei compagni si spegnevano ed accendevano intorno – perchè l’insegnante aveva appena urlato “MERDA!” con quella sua voce comica e prepotente – Jean Michel Basquiat, un ragazzo dalle origini haitiane e portoricane, un ibrido, proprio come me, entrava nella mia vita.

Fino al 26 febbraio 2017, il MUDEC – Museo delle Culture ospita una mostra sul Radiant Child, con 140 lavori accuratamente selezionati, realizzati tra il 1980 ed il 1987, tra opere di grandi dimensioni realizzate su pannelli grossolanamente assemblati, disegni, foto d’archivio, collaborazioni d’autore – come quella con Warhol – ed una toccante intervista video di Becky Johnson.

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Procession (1986), Jean-Michel Basquiat
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Job Analisis (1983), Jean-Michel Basquiat

Sono andata a vedere la mostra al MUDEC da sola, per non avere nessun tipo di influenza esterna…Non è vero, volevo fare un po’ la speciale, in realtà sono andata da sola perchè gli accrediti stampa non te li lanciano come freesby. Sono comunque dell’idea che si debba avere dei buoni accompagnatori per condividere “il momento della mostra,” insomma, meglio soli che mal accompagnati.

Come 10 anni fa con il The Jean Michel Basquiat show – la vastissima retrospettiva di Basquiat in Triennale – anche questo appuntamento al MUDEC con la sua arte, seppur più ridotto, si preannuncia un successo.

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The Field Next to the Other Road (1981) Jean-Michel Basquiat

La mostra è strutturata nel rispetto cronologico delle fasi della sua vita e del suo lavoro, e si apre conducendoci all’esposizione attraverso una linea del tempo che scandisce i momenti storici dell’America Reaganiana, l’America del 1968, quella dell’assassinio di Kennedy e di Martin Luther King; quella di Woodstock, della chitarra di Jimmy Hendrix, dello scandalo Watergate. Un’America ferita dal fenomeno dilagante dell’AIDS e dell’eroina, negli anni 80.

Insomma, l’America in cui Basquiat visse, creò, onorò e distrusse la sua vita; quasi a voler mantenere fedeltà a questo ciclo di vittoria e decadenza che ha contraddistinto la storia statunitense della seconda metà del 900.

All’età di otto anni, in seguito ad un incidente stradale che lo vide costretto ad una lunga convalescenza, il piccolo Jean Michel ricevette in dono dalla madre il celebre manuale di anatomia di Henry Gray – Gray’s Anatomy – che influenzò in modo indelebile la sua produzione.

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Untitled, Bracco di Ferro (1983) Jean-Michel Basquiat

I suoi soggetti, sventrati, sorretti da teschi e strutture scheletriche, sono sì un’eredità di Gray che assume però un valore dualistico: inquietante e al contempo antropologico ed esplicita, da un lato, la sua crescente tendenza autodistruttiva; dall’altro, la volontá di andare in profondità, dove ogni cosa è arcaica, scavare a mani nude fino a quelle sue radici malamente nascoste dentro all’appellativo “afroamericano”, camminare a ritroso e cercare l’Africa, come l’abbraccio di una madre illegittima, come abbandono inconscio verso una morte prematura.

Una tendenza che diverrà crescente – e lugubremente premonitrice – nei suoi ultimi lavori come in “Exu” [una delle mie opere preferite, non presente al Mudec.]

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Exu, (1988) Jean-Michel Basquiat

Exu è la più importante e rispettata tra le divinità nella religione Yoruba, così come nei culti sincretici ad esso correlati: la Santeria cubana, il Candomblé in Brasile… Exu è l’intermediario fra gli Dei, colui a cui vengono attribuiti i successi, le buone intuizioni e la fortuna, nonchè il dio della fertilità, fautore di pulsioni potenti e positive.

È molto significativo da questo punto di vista che i coloni bianchi abbiano associato ad esso la figura del demonio. Si tratta ovviamente di una grossolana ed erronea associazione che aveva una sola utilità: impedire agli schiavi la libertà di culto verso i loro dei. Questo la dice lunga su cosa significasse per Basquiat essere un uomo nero in America ed un uomo nero nel mercato dell’arte.

“Forse loro credono di essere il mondo dell’arte, in realtà sono solo amministratori e mercanti.” Amministratori e mercanti, così l’artista definiva i collezionisti che con il loro morboso interesse verso le sue opere irrompevano senza preavviso nel suo studio di Prince Street, ad ogni ora del giorno, agendo nella totale mancanza di rispetto verso il suo ritmo di produzione.

Jean Michel Basquiat è e rimarrà per sempre uno dei più iconici ed influenti artisti della sua generazione, nonché il primo artista afroamericano ad entrare nella complessa logica del mercato dell’arte a livello mondiale.

Il suo graffitismo, avvolto da quel forte abbraccio neo-espressionista, è uscito dalle strade ed è entrato nelle gallerie, probabilmente proprio grazie a quei mercanti bianchi tanto odiati.

Anche questa volta è arrivata la riconferma: vedere una mostra di Jean Michel Basquiat è sempre un percorso emotivo, forse proprio perchè la sua vita è così intellegibile nella sua arte che pare venga urlata a gran voce. Forse perchè il suo lavoro da un punto di vista prettamente personale ha sempre assunto un carattere identitario.

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Senza Titolo (1981) Jean-Michel Basquiat

Per me e per chi come me non si sente né carne né pesce, la ricerca delle origini è paradossalmente come tornare in un posto in cui non siamo mai stati.

Sono uscita dal Museo delle Culture guardandomi la punta delle scarpe con quella inevitabile malinconia nel petto. Il 12 agosto del 1988 Jean Michel Basquiat viene trovato morto nel suo appartamento di Great Jones street a New York, sottratto alla vita da un cocktail fatale di stupefacenti.

Sulla vetrata opaca del museo è stampata la poesia di Langston Hughes che Fab 5 Freddy – un amico dai tempi di “Samo” – gli dedicò al suo funerale.

Recita così:
Questa canzone è per il genio bambino.
Cantala piano, perchè è una canzone ribelle.
Cantala piano, più piano che puoi
– che non ti scappi di mano.

Nessuno ama un genio bambino.
Sapresti amare un’aquila,
docile o selvaggia?
Selvaggio o docile,
sapresti amare un mostro dal nome spaventoso?

Nessuno ama un genio bambino.
Liberalo e lascia che la sua anima corra selvaggia.

L’ultima frase, quella che chiude la poesia, è stata addolcita e spogliata di quella pesantezza amara nella traduzione dall’inglese all’italiano. La versione originale recita così:

uccidilo
e lascia che la sua anima corra selvaggia.”

Tutte le immagini | Per gentile concessione del MUDEC

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Mamma veneta, papà brasiliano, nome poco diffuso, cognome lungo e altisonante, il risultato è tutto abbastanza illogico, il che si adatta molto alla mia persona. Figlia d’arte, fashion stylist e art director. Sagittario naïf incurabile, original milanese votata a sfatare tutti i clichè che ruotano attorno alla mia amata città. Ho un “piccolo” problema: rido sempre. Quando non posso, sorrido. Non chiedetemi perché. Provate a farlo anche voi. A me piace tanto!