Audiovisivo E Teatro Nel Contemporaneo | Daphne Di Cinto E Haroun Fall In Conversazione

L'Italia è sempre stata un importante centro di produzione cinematografica e letteraria. Oggi, una scena fiorente, guidata da una nuova generazione di attorз, scrittorз, registз e produttorз emergenti sta salendo alla ribalta, diversificando il nuovo corso della produzione culturale italiana. Daphne Di Cinto e Haroun Fall, in una conversazione moderata da S. Himasha Weerappulige, si sono confrontatз su sceneggiatura, narrazioni, esperienze e progetti attuali, nel contesto del mercato audiovisivo e teatrale italiano.

di GRIOT - Pubblicato il 17/08/2022
Da sinistra: Haroun Fall, S. Himasha Weerpuggile, Daphne Di Cinto. 14 luglio 2022. Foto: Emmanuel Anyigor. Courtesy SPAZIO GRIOT

S. HIMASHA WEERAPPULIGE: Partiamo dalla vostra esperienza personale, la ragion d’essere delle scelte che avete fatto nei vostri ambiti professionali, arrivando alle scelte che avete fatto rispetto ai vostri percorsi.

DAPHNE DI CINTO: Sono nata in un paesino di campagna del Nord Italia, dove ci sono più galline che persone. In un setting del genere, negli anni ’80/’90, la ragazzina Nera si vedeva quando camminava per strada. Nella mia infanzia e adolescenza ho passato tanto tempo da sola e con gli animali, ma soprattutto da sola, con i libri. È da qui che è iniziato tutto il mio amore per la narrazione. Ho avuto la fortuna di frequentare una scuola superiore che aveva un teatro, e lì ho scoperto di stare bene sul palcoscenico. Era l’unico posto dove effettivamente mi sentivo a casa, perché nel momento in cui prendevo un pezzo e lo recitavo, la mia emozione andava al pubblico, e  lo sentivo, e nella stessa maniera mi tornava indietro. E questa sensazione è bellissima. E quando l’ho provata mi sono detta: voglio fare questo per il resto della mia vita. Così sono andata a Roma.

Il periodo romano, oltre ad essere stato bellissimo, è stato interessante perché in modo naive pensavo che avrei potuto fare quello che aspiravo a fare, rendendomi conto invece di non avere lo stesso tipo di possibilità rispetto alle mie colleghe attrici bianche, perché i ruoli in cui venivo vista erano due: immigrata e prostituta. Su quei due ruoli è difficile costruire una carriera come si deve. Questo è stato l’elemento che mi ha spinto fuori dall’Italia, ad iniziare un percorso bellissimo prima a Parigi, poi a New York e infine a Londra.

Poi un giorno ho iniziato a scrivere una sceneggiatura—mi è sempre piaciuto scrivere–l’ho fatta leggere a un amico, che mi ha detto: Daphne, devi farlo come mestiere. E così ho iniziato. La regia è un aspetto che è sempre stato nella mia testa, ma che non ho potuto realizzare, finché nell’ultimo anno e mezzo è successo. Nel 2021 ho realizzato il mio primo lavoro registico, il cortometraggio Il Moro, e al momento la regia è la cosa che mi piace fare di più.

SHW: Tu, Haroun?

HAROUN FALL: Intanto, per cominciare ringrazio SPAZIO GRIOT, per aver creato questo spazio, perché è molto difficile poter dare voce a chi non ha molta voce in un paese come questo. Ho iniziato a fare l’attore in seguito a un trauma. Sono stato adottato appena nato, sono cresciuto in una famiglia occidentale, italiana. Durante gli anni della mia crescita, mi sono reso conto che mi mancava un’identità, non sapevo da dove venissi. Sapevo che avevo un colore diverso rispetto a quello dei miei genitori, ma sentivo che mi mancava un riferimento culturale. Nel corso degli anni, i miei mi hanno iscritto a teatro-terapia e al terzo anno un docente dello Stabile di Torino è venuto a vedermi e mi disse che avevo un talento. Mi invitò ad andare allo Stabile. All’inizio non pensavo che la recitazione fosse realmente quello che volevo fare nella vita, pensavo fosse solo un buon modo per sfogare questo tipo di trauma. Una volta fatta l’audizione, entrai al Teatro Nuovo, studiando tutte le arti performative. In quegli anni iniziai a capire che il mio valore attoriale poteva essere qualcosa di molto più grande del semplice egocentrismo dello stare su un palco. Poteva avere un valore per tutte le persone che non avevano la possibilità di esprimersi con la propria voce, di essere rappresentate, di esprimere un concetto.

Credo molto nella formazione, non solo a livello attoriale, ma in generale, nella vita. La conoscenza dà alle persone la possibilità di essere libere, di scegliere. Sembra una cosa piccola, ma è fondamentale. Nel 2015 sono venuto a Roma e sono entrato subito al Centro Sperimentale di Cinematografia, che è l’accademia più importante in Italia.

Per me diventare attore significava cercare la mia identità attoriale e il mio posto all’interno della società. Nel corso degli anni ho avuto la fortuna di poter lavorare—perché non è scontato per un attore bianco, figuriamoci per un attore afrodiscendente. Il mio obiettivo era interpretare personaggi che fossero fuori da quegli stereotipi che Daphne ha raccontato. Il primo monologo che presentai in agenzia—quando feci l’audizione per entrare—non rappresentava lo stereotipo del Nero, perchè portai The Wolf of Wall Street, con Leonardo di Caprio; rappresenta il capitalismo, la ricchezza, i soldi. Scelsi questo testo perché era l’opposto di ciò che un italiano pensa quando ha in mente una persona Nera. E quando mi scelsero, ed entrai in agenzia, dissi al mio agente: sappiamo che viviamo in Italia e come funziona il mercato, abbiamo sei canali importanti in televisione, di cui tre privati e di destra. Rispetto al contesto in cui viviamo, alla mia esperienza, alla mia fisicità, dobbiamo far sì che io possa riuscire ad interpretare dei personaggi che non sono stati scritti per me; un fuori ruolo, quindi: un dottore, un avvocato, qualcosa che mi definisca diversamente, perché questo crea un cambiamento a livello psicologico all’interno delle persone che guardano un prodotto.

SHW: In entrambe le vostre parole, sento la necessità di autonarrarsi, perché esiste un meccanismo che elimina in maniera automatica certi corpi—utilizzando anche il pretesto poco obiettivo degli ascolti. Ho trovato interessante che abbiate tutti e due cominciato con il teatro. Come è stato il passaggio dal teatro al cinema? È stato un percorso naturale o preso per delle necessità? Se doveste mettere a confronto queste due pratiche, molto diverse e con elementi molto simili allo stesso tempo, quali sono le criticità dei due ambiti?

DDC: Ho iniziato con il teatro, è il mio primo amore, ma lo ho lasciato presto. Per esigenze di mercato non mi è stato possibile portarlo avanti. Nel mio periodo romano, i pochi provini che arrivavano erano per il cinema e la TV. Differenze tra le due espressività, a livello di scrittura, sappiamo che l’immagine oggigiorno è potentissima, parla alle persone, indipendentemente dal loro retaggio culturale e dal colore della pelle. Al giorno d’oggi siamo più abituati all’immagine televisiva e cinematografica, perché il teatro è sempre stato un metodo di ricreazione per pochi e più di élite. Ma nonostante ciò, il teatro ha la forza e la potenza di portare messaggi importanti, e ha una caratteristica che il cinema non ha, ovvero raggruppare delle persone nella stessa stanza e far sì che l’emozione non sia mediata da uno schermo o da un momento diverso.

Quello che si può fare è cercare di portare avanti il teatro, aprendo le porte a persone che non sono abituate ad andarci, creando nuovi testi, rivistando nuovi testi, utilizzando nuove forme comunicative, però d’altra parte con il cinema e la tv c’è un modo molto più veloce di arrivare alle persone e di ribaltare la narrazione che non  ci va bene, che non ci rappresenta.

SHW: Quindi stai dicendo anche che da una parte il teatro crea una comunità, perché è un’attività più diretta—con il pubblico, con le persone che vi partecipano—però meno accessibile perché per come è strutturato l’ambiente teatrale in Italia mancano fondi, manca accessibilità nei confronti di certe realtà sociali, e quindi diventa difficilmente raggiungibile?

DDC: Questo è un aspetto, purtroppo oggi siamo abituati ad un attention span molto più ridotto e superficiale. Per rivedere il teatro in maniera contemporanea forse bisognerebbe anche adottare nuove strategie, come l’immersive theatre, che è molto comune in altre parti di Europa e negli Stati Uniti. Le persone del pubblico non sono sedute, ma seguono l’attorǝ nel suo spostarsi nello spazio.

SHW: Quale è stata la tua esperienza teatrale Haroun?

HF: Volevo aggiungere, rispetto a quanto detto da Daphne, che è diventato anche un po’ più difficile e complesso accedere al teatro, perché ultimamente non esistono provini per il teatro. Il teatro è un posto dove tu vieni chiamato.

Ho iniziato a fare teatro a 15 anni, preso come ballerino di fila della Compagnia dell’Arancia. Dopo essere venuto qui a Roma, un regista mi invitò a fare un provino per un testo molto interessante che si chiamava La Classe, con cui abbiamo fatto 70 repliche per tre anni. Nel 2021 abbiamo girato il film, con la regia di Michele Placido. Penso che tutte e due le arti siano equivalenti e debbano avere lo stesso valore. Purtroppo nel nostro paese non viene data la giusta rivelanza al teatro, per la gestione dei fondi e per il fatto che principalmente sono le compagnie che lavorano con i teatri; quindi se io ho una mia compagnia, è molto difficile che vada a scegliere un attore/attrice al di fuori, a meno che non arrivi da un’accademia, e quindi posso aprire l’idea di fare un provino per gli/le studenti dello Stabile di Genova o del Piccolo di Milano; questo crea un po’ un circuito chiuso, rispetto al teatro. Io lo preferisco, perché penso che l’espressione teatrale sia la più alta espressione artistica che un performer possa avere, per il contatto diretto con il pubblico e una capacità di gestione attoriale diversa, sia a livello vocale, sia a livello fisico che psicologico. Nonostante questo, ho lavorato molto di più al cinema.

L’anno scorso è uscita Zero, una delle serie Netflix che ha cambiato la storia di questo paese, con un cast di attori/attrici Nerз—e ci è voluto Netflix, perché le reti nazionali non erano pronte a vedere tutta questa Blackness in televisione. È stato un esperimento ben riuscito secondo me, nonostante la complessità dell’operazione—c’è stato il Covid di mezzo— e siamo riuscitз a portare una realtà che non era mai stata raccontata prima, e questo ha dato la possibilità a molte persone, soprattutto piccole, anche di avere una rappresentanza. Credo che il cinema in Italia oggi possa avere la forza di creare identità, ma sta anche a noi riuscire ad entrare in conversazione per farlo. In questo momento le maggiori case di produzione sono governate da persone che vengono da un’immaginario anni ’90 con cui, per quanto riguarda la mia generazione, è complesso entrare in conversazione. Ma il mio obiettivo è arrivare ad un’indipendenza produttiva, perché crea e determina la scelta di raccontare le storie.

Per farvi un esempio, ogni anno guardo tutta la selezione dei festival—Cannes, Venezia, le uscite italiane—perché per il mio lavoro è necessario  sapere cosa fanno e non fanno i/le tuoз colleghз. Quest’anno è uscito Tre piani, di Nanni Moretti, un film che ritengo estremamente interessante e affascinante, bello, perché è un film che ha una trama banale: tre famiglie che vivono su tre piani diversi di un appartamento ed entrano in relazione per via di un evento. Vi faccio questo esempio perché è una storia italiana basata su tre famiglie italiane. Perché non possiamo pensare di riprodurre la stessa cosa con tre famiglie afroitaliane o con altro background? Io esisto, sono del 1995, mio padre è emigrato in Italia nel 1994 e da lì le persone come me, Daphne, e altre che vedo in platea, sono esistite anche prima. Quindi mi sembra surreale l’idea di non pensare di rappresentarle, perché possono essere ed entrare in conversazione con la realtà che è esistente, con cui già si convive.

In questo momento le case di produzione cinematografiche hanno paura di investire su quello che è diverso, sull’altro, su ciò che non si conosce così bene, ma è arrivato il momento di farlo, di avere una narrazione diversa. Si può creare tanto, e non dal punto di vista di un blocco contro un altro blocco, ma puntare sulla possibilità di coesistere nello stesso ambiente, che è ciò che ci caratterizza come esserз umanз, al di là della nostra etnia, classe sociale, che sono gli elementi che più ci definiscono all’intero della nostra società. Quindi il mio lavoro, nel cinema, e la mia rappresentazione nel cinema in questi anni, penso sia stata un po’ la possibilità di trasmettere questo messaggio, di essere un megafono, semplicemente essendoci. Questo è il messaggio più importante e grande nella mia carriera fino ad oggi, la possibilità di interpretare ruoli che non sono stati scritti e pensati per me, un italiano Nero, per un’accettazione di una melting pot e di una rappresentazione delle attuali e prossime generazioni.

SHW: Entriamo nel dettaglio delle vostre pratiche: entrambi vi cimentate nella scrittura per il cinema, forse anche per il teatro. Da cosa è caratterizzata la vostra pratica? Avete dei progetti ai quali state lavorando? In che modo cercate di scardinare tutte le cose che abbiamo trattato fino ad ora?

DDC: Essere un’artista, una sceneggiatrice, una regista, un’attrice è un privilegio e una responsabilità. Perché la cultura va a formare la nostra quotidianità quindi, come ha già menzionato Haroun, vedere una persona italiana Nera sullo schermo, che semplicemente vive la vita, in questo preciso momento storico sembra essere un concetto rivoluzionario. Perché? Perché nella mentalità italiana, diciamo da anni ’90, per facilità, la persona Nera ha un ruolo ben definito. Numero uno, è un ruolo marginale; numero due, il ruolo spesso è degradante. A partire da questo, quando scrivo le mie storie, mi assicuro che queste cose non esistano, perché non rappresentano la mia vita, né quella di Haroun, né di tantissime persone che sono qui. Purtroppo, a meno che questa narrazione non venga cambiata e resa “giusta”, che corrisponda a quello che vediamo quando giriamo per strada, continueremo ad avere una percentuale molto alta della popolazione che continuerà a pensare che la persona Nera è lo stereotipo alla quale si è abituatз.

Questa cosa va a influenzare la nostra quotidianità, perché se guardo un film o una serie e continuo a vedere solo ed esclusivamente persone Nere che ricoprono il ruolo del criminale, quando giro per strada e incontro una persona Nera ho un po’ paura. Se invece guardo un film o una serie e le persone Nere sono dipinte diversamente, quindi chi fa l’imbianchino, il postino, o la ragazza innamorata del suo vicino di casa, inizio a  cambiare il modo in cui la società vede la persona Nera.

C’è questa citazione che mi piace tantissimo: “Quando cambi il modo di guardare le cose, le cose che guardi cambiano.” Dunque, nelle mie storie, i/le protagonistз sono Nerз e la loro quotidianita è per lo piu “normale”; poi chiaramente succedono cose per il quale vogliamo vedere questo film.

Un’altra cosa che a me diverte è che quando ho iniziato il mio percorso attoriale volevo interpretare personaggi aristocratici. Volevo fare Molière, Shakespeare e mi si diceva che non avrei potuto. Spesso mi arrivavano provini con ruoli “street”, e io non sono un’attrice troppo brava a interpretare questi ruoli “street”, quindi questi provini non li prendevo, non li vincevo. E continuavo a dire a me stessa, ‘Io voglio interpretare una cacchio di regina.’ Il primo ruolo per cui ho fatto un provino che era legato a un personaggio artistocratico, una duchessa, l’ho preso a occhi chiusi. Questo per dire quanto la prima parte della mia carriera sia stata influenzata da quella che è la societa in cui siamo cresciuti.

Per tornare al soggetto scrittura, mi hai chiesto che cosa sto scrivendo. Il Moro è la storia di Alessandro de’ Medici, e tante persone non sanno che fosse afrodiscendene, figlio di Papa Clemente VII e di una donna che ai tempi veniva definita “mora”. Quando ho scoperto Alessandro de’ Medici, avevo già più di 30 anni. Perché durante gli anni scolastici non ho mai saputo quale fosse la faccia di Alessandro de’ Medici? In che maniera sarebbe cambiato il mio percorso e come sarebbe stata diversa la mia identità se lo avessi saputo? Questa è diventata la mia ossessione: ho iniziato scrivendo una serie, che è quello su cui sto lavorando adesso. Perché? Perché la vita di Alessandro de’ Medici è interessantissima, è breve, ma molto intensa, e piena di eventi molto conflittuali, che non necessariamente hanno a che fare con il suo essere figlio di una schiava, perché quello era lo stigma millecinquecentesco.

Daphne Di Cinto. 14 luglio 2022. Foto: Emmanuel Anyigor. Courtesy SPAZIO GRIOT

Ho scritto un primo episodio pilota, e poi mi sono ritrovata nel momento storico di Black Lives Matter. Ero a Londra—perché vivo a Londra—e in quel momento alcune mie amiche decisero di andare a una delle proteste e mi chiesero di venire. Io risposi di no perchè avevo paura, perché pensavo, ‘se mi succede qualcosa, chi glielo dice ai miei genitori?’. E poi ho passato qualche giorno a pensarci e a riflettere su come mi stavo sentendo quei giorni, a quello che stava succedendo, a come stavano i miei amici nel mondo—in Italia, in Inghilterra e in America. Così ho deciso di andarci. Quando ho messo il piede a Hyde Park, e ho visto questa montagna di persone che veniva da qualsiasi percorso di vita, essere lì per dire Black Lives Matter: qualcosa si è scoperchiato dentro di me. In quel preciso momento mi sono detta: sono stata zitta tutti questi anni, ho represso tante cose che ho sentito tutti questi anni. Adesso basta. Una settimana dopo sono tornata in Italia per venire a trovare i miei genitori dopo il lockdown, e sono rimasta bloccata, ma è stata una benedizione, perché ho potuto girare il cortometraggio Il Moro, perché in quel momento mi sono detta che volevo fare qualcosa “adesso”, mi sono detta ‘non voglio aspettare una produzione che ha troppa paura di raccontare questa storia. Questa storia la voglio raccontare io, perché’—come dice Amir—che è un regista molto talentuoso con voi nell’audience, ‘bisogna raccontarsi, non farsi raccontare.’

Ho scritto il cortometraggio, ho messo insieme un team incredibilmente talentuoso, ed è nato Il Moro. La cosa bellissima di questa esperienza è stata poter essere in uno spazio che è sempre appartenuto anche a noi. Alessandro de’ Medici è stato il primo duca di Firenze, diventa duca nel 1530. Abbiamo girato questo cortometraggio nei dintorni di Bologna, gli interni nella Rocca di Dozza e gli esterni nella Rocca di Imola. La rocca di Dozza fu effettivamente di proprietà di Papa Clemente VII—interpretato da Paolo Sassanelli—ed essere in un ambiente come quello, un vero palazzo medievale, e portare in vita questa storia con quel team è stato vedere un pezzetto del mondo che volevo e voglio vedere.

Noi siamo Alessandro de’ Medici, quello che ho cercato di fare è avere rappresentanza non soltanto davanti alla camera, ma anche dietro perché—e qui arriviamo al punto—è questo l’importante. Non possiamo mettere davanti alla camera due attori/attrici Nerз e dire “lo stiamo facendo”. No, non lo stiamo facendo [avere rappresentanza]. Perché finché in quelle stanze esecutive e direzionali non ci sarà la rappresentanza che vediamo qui stasera, il problema persisterà sempre. Che cosa possiamo fare noi? Che cosa possono fare loro? Io in quella stanza non ci sono, quelle persone quando entrano in ufficio al meeting del mattino, se si guardano intorno e vedono persone che vengono solo ed esclusivamente dal loro background, devono dire, ‘Aspetta un attimo, ma manca qualcosa qui? Ci può essere qualcuno che può mettere sul tavolo un aspetto a cui non abbiamo pensato, perché noi non l’abbiamo vissuto?’. Dunque, nella mia crew ho fatto sì che ci fossero persone afrodiscendenti e persone non afrodiscendenti, perché questa è l’Italia di oggi. Io scrivo quello che scrivo per la generazione futura, perché se tra qualche anno avrò un figlio, non voglio che cresca come sono cresciuta io, voglio che cresca in un ambiente diverso, in cui possa avere tutte le opportunità che avranno i/le suoз coetaneз.

SHW: Per tornare al discorso dell’autoproduzione, se dovessi raccontare autonomamente…

DDC: Per concludere, il cortometraggio è nella fase di sviluppo rispetto al diventare una serie, di ostacoli ce ne sono tanti e non ci sono tante persone che hanno il coraggio di intraprendere questo percorso, ma c’è dell’interesse e si andrà avanti finché non vedrete la serie su una piattaforma vicino a voi.

SHW: Continuiamo con te, Haroun.

HF: Io in questo periodo mi sto muovendo per la prima volta nel mondo della produzione. Per la prima volta, anzi in Italia funziona così purtroppo, per quanto riguarda le sceneggiature, molto spesso devono essere scritte da unǝ sceneggiatorǝ già conosciutǝ, che già lavora all’interno dell’industria dello spettacolo. Ho fatto scrivere una sceneggiatura su una storia italiana, di una persona Nera che noi tutti conosciamo, e spero che uscirà presto. Siamo in discussione con diverse case di produzione per farlo produrre e sarebbe il mio primo progetto come produttore esecutivo e direttore artistico. Ho deciso di farlo perché sono arrivato a un’età dove le esperienze che ho avuto e che ho visto mi hanno dato un background e la forza di poter raccontare qualcosa, e soprattutto perché sono diventato papà. Il fatto di diventare padre mi ha dato la forza e la responsabilità di poter trasmettere il mio vissuto, il mio passato o quello delle persone che mi sono vissute intorno, a quella che sarà poi la generazione futura, la generazione di mia figlia in questo caso.

Da sinistra: Haroun Fall, S. Himasha Weerpuggile, Daphne Di Cinto. 14 luglio 2022. Foto: Emmanuel Anyigor. Courtesy SPAZIO GRIOT

Ci tenevo a leggere queste due pagine del libro di Grada Kilomba, Memorie dalla Piantagione—e penso che sia un testo interessante—che parte dal percorso coloniale, dalla schiavitù fino ad arrivare ad oggi. Tratta del problema dell’incapacità o dell’impossibilità di usare la parola, di esprimersi, di dire veramente quello che si vuole dire o avere la libertà di esprimersi. In questo caso Daphne ha avuto la necessità di raccontare questa storia e ha fatto di tutto per poterlo fare, però si è scontrata con molte difficoltà, questa è la vita, lo sappiamo tutti.

Vi leggo questa piccola parte che parla di una maschera e la maschera è un simbolo del teatro, di trasmissione del messaggio, simbolo di chiusura, però ci tenevo a leggero perché mi ha fatto riflettere molto.

La maschera 

“[…] Voglio parlare della brutale maschera dell’impossibilità di parola.

Questa maschera era un oggetto concreto, un vero e proprio  strumento che divenne parte del progetto coloniale europeo  per più di trecento anni. Era composta da un pezzo posto dentro la bocca dellǝ soggettǝ Nerǝ, bloccato tra la lingua e la mascella e fissato dietro la testa con due lacci, uno a circondare il mento e l’altro il naso e la fronte.

Ufficialmente la maschera veniva utilizzata dai padroni  bianchi per impedire allǝ africanǝ schiavizzatǝ di mangiare la canna da zucchero o le fave di cacao mentre lavoravano nelle  piantagioni, ma la sua funzione primaria era indurre un senso di impossibilità di parola e paura, facendo della bocca sia un luogo muto che di tortura.

In questo senso, la maschera rappresenta il colonialismo nella sua interezza. Simbolizza la sadica politica di conquista e il suo crudele regime di silenziamento dellǝ cosiddettǝ Altrǝ: Chi può parlare? Cosa accade quando parliamo? E di cosa possiamo parlare?

La bocca 

La bocca è un organo molto speciale, simbolizza il discorso  e l’enunciazione. Attraverso il razzismo diventa l’organo di  oppressione per eccellenza, rappresenta l’organo che lǝ bianchə vogliono e hanno bisogno di controllare.

In questo contesto la bocca è anche una metafora di possesso. Ci si immagina che lǝ soggettǝ Nerǝ voglia possedere  qualcosa che appartiene al padrone bianco, i suoi frutti, ovvero  lo zucchero di canna e le fave di cacao. Lui o lei vuole mangiarli, divorarli, espropriare il padrone dei suoi beni. Sebbene  la piantagione e i suoi frutti appartengano “moralmente” al  colonizzato, il colonizzatore perverte la lettura del gesto, come  segno di furto. “Ci stiamo prendendo ciò che è Loro” diventa  “Si stanno prendendo ciò che è Nostro”.

Abbiamo a che fare qui con un processo di negazione, poiché  il padrone nega il suo progetto di colonizzazione e lo proietta sullǝ colonizzatǝ. Questo movimento di affermazione sull’Altrǝ di ciò che lǝ soggettǝ rifiuta di riconoscere in se stessǝ caratterizza il meccanismo di difesa dell’Io.

Nel razzismo, la negazione è utilizzata per mantenere e legittimare le strutture violente dell’esclusione razziale: “Vogliono  prendersi ciò che è Nostro, dunque devono essere controllati”.  La prima e originale informazione – “Ci stiamo prendendo  ciò che è Loro” – è negata e proiettata sull’Altrǝ – “Si stanno  prendendo ciò che è Nostro” – che diventa ciò che lǝ soggettǝ  biancə non vuole conoscere. Mentre lǝ soggettǝ Nerǝ si trasforma in nemico invadente da mettere sotto controllo, lǝ soggettǝ  biancə diviene la povera vittima costretta al comando. In altre  parole, l’oppressore diviene l’oppressǝ e l’oppressǝ il tiranno. […]”

Ho condiviso la lettura di queste due pagine, perché quando le ho lette mi hanno fatto riflettere molto. Noi nel nostro lavoro usiamo molto la parola, che significa come trasmettiamo un personaggio; la maschera in questo caso, lei la descrive come questo blocco tra la lingua e la mascella, qualcosa che non ti permette di esprimere un suono, un’opinione, e questo processo lo abbiamo vissuto sin da quando siamo natз, forse. Riflettendoci, ho sempre voluto dire delle cose, ma mi sono spesso trovato a pensare: forse non è il momento giusto, forse non sei la persona giusta per dirlo, forse lo dovresti dire in un altro momento. Ma ora è arrivato il momento, è questo il momento di dire le cose. La possibilità di raccontare delle storie che appartengono sia a noi che a voi, penso sia la cosa più importante in assoluto.

DDC: Posso aggiungere una cosa? Credo che il fine ultimo non sia dire noi e voi, ma arrivare a un noi.

Daphne Di Cinto è regista, sceneggiatrice e attrice. Haroun Fall è attore e produttore.

‘Audiovisivo e Teatro nel contemporaneo’ è stato parte della programmazione artistica estiva di SPAZIO GRIOT, ‘SEDIMENTS. After Memory’. La programmazione include una mostra (30 giugno – 4 settembre) con Victor Fotso Nyie, Muna Mussie, Las Nietas de Nonó, Christian Offman, a cura di Johanne Affricot ed Eric Otieno Sumba, e un programma pubblico, con un ultimo appuntamento il 1° settembre, l’azione performativa dell’artista Muna Mussie, che si terrà nel padiglione 9a del museo Mattatoio.

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