I Limiti Dell’empatia Bianca | A Tu Per Tu Con Anton Kannemeyer

La satira è l’uso dell’umorismo, dell’ironia o dell’esagerazione per esporre e criticare la stupidità o i vizi delle persone, in particolare nel contesto della politica contemporanea e di altre questioni di attualità. La satira è arte. La satira è una superpotenza. La satira è una strategia di sopravvivenza. La satira pensa costantemente fuori dagli schemi. La satira è un’arma. Un’arma davvero potente.
Ottobre. È una mite mattinata grigia a Londra. I bambini che visitano con le loro scuole la fiera d’arte contemporanea 1-54 urlano e si rincorrono tra gli alberi di Meditation Trees, l’installazione di Ibrahim El-Salahi, rompendo il mormorio silenzioso del cortile di Somerset House. Stiamo per incontrare Anton Kannemeyer, il fumettista sudafricano, noto anche come Joe Dog, le cui opere affascinano e sconvolgono le persone a tal punto da essere considerato un artista molto controverso.
La sua arte è tutt’altro che pindarica. Sinceramente radicato nella realtà della sua educazione sudafricana, la sua visione è chiara, e a tratti brutalmente onesta. Nel tentativo machiavellico di cambiare la società che ha intrinsecamente disprezzato fin da bambino, Kannemeyer usa gli strumenti più potenti a sua disposizione per trasmettere un messaggio che squarcia e inquieta. Un messaggio che non a tutti arriva, che non a tutti piace.
Nato a Cape Town (1967), cresce con un padre violento e alcolizzato, un professore universitario e critico letterario da cui la madre si separa nel 1970. Per Kennemeyer è un’esperienza dura. Dai 3 ai 18 anni vede la madre solo due volte. Ed è proprio a 18 anni che decide di lasciare il Sud Africa per trasferirsi in Germania e raggiungere quella figura femminile che tanto è mancata nella sua adolescenza, scontrandosi ben presto con una realtà grigia, sia per quell’identità sudafricana tanto odiata in un’Europa anti-apartheid, sia per le radici ritrovate, con cui fa fatica ad empatizzare. Ma è in Germania che per la prima volta scopre la figura di Nelson Mandela.


Nel 1987 rientra in Sud Africa e inizia il suo percorso di studi in disegno grafico e illustrazione all’Università di Stellenbosch. Ma è nel 1992 che inizia a prendere forma Kannemeyer. Insieme a Conrad Botes fonda Bitterkomix, un magazine socio-politico che in quegli anni turbolenti fa guadagnare ad entrambi accese antipatie per via del loro inequivocabile attacco alla cultura Afrikaner, che successivamente allargano alla società sudafricana nel suo complesso. Da attivista anti-apartheid Kannemeyer diventa mostro del privilegio, come si raffigura nel suo libro in edizione limitata the limitations of white empathy (2018). Difficile, delicato maneggiare certe questioni e diffondere il messaggio, soprattutto quello di un bianco sudafricano che usa il corpo nero stereotipato per denunciare l’ipocrisia della società sudafricana. Ma il fine giustifica sempre i mezzi? Si può usare il corpo nero, dipingendolo al limite dei peggiori stereotipi razziali, e il proprio privilegio bianco, sia per condannare che per evidenziare le oppressioni sistematiche e il razzismo e allo stesso tempo perpetuarli e beneficiarne?
Questa, tra le tante altre domande, ci affolla la mente mentre lo aspettiamo. Privilegio bianco, censura, gestione delle critiche, neri che si riappropriano della questione razziale attraverso le arti e ri-diventano protagonisti e non spettatori passivi della propria storia, gli stereotipi razziali che emergono in TinTin, le prospettive della sua arte, ora che il mondo dell’arte e la società stanno cambiando. Sono tante le cose che vogliamo discutere con lui, ma dopo aver visto i suoi lavori, e mentre sfogliamo le pagine del suo libro illustrato the limitations of white empathy (2018), sappiamo immediatamente che è da qui che vogliamo iniziare la nostra conversazione.
Celine Angbeletchy: Molte persone resteranno sicuramente scioccate nello scoprire che non avevi idea di chi fosse Nelson Mandela. Parli vividamente di questo e della tua vita in the limitations of white empathy. Puoi guidarci attraverso le idee alla base del libro?
Anton Kannemeyer: Beh, in questo fumetto cerco di spiegare come funzionava la censura in Sud Africa, il fatto di essere cresciuto lì e non sapere cosa stesse succedendo nel resto del mondo. Oggi ti basta andare online, salire su un aereo per andare in un altro paese. Mentre prima di Internet non era così. Al tempo non c’era modo di sapere qualcosa del genere se i tuoi genitori non te la dicevano. La scuola non ne parlava e i giornali non permettevano nemmeno che fosse menzionato il nome di Mandela. Funzionava così. La prima volta che l’ho visto ero in Germania, avevo 18 anni. Vidi la sua immagine su un poster. In pratica dovevo uscire dal Sud Africa per poter diventare politicamente consapevole.

Quando andai all’università, mi rifiutai di arruolarmi nell’esercito (perché in Sud Africa tutti i bianchi dovevano fare il servizio militare). Mi trasferii in Germania, dove viveva mia madre, ma trovai un paese così restrittivo, orribile, non riuscivo proprio a inserirmi. Quando tornai in Sud Africa, all’improvviso capii di avere una funzione lì, che potevo dare il mio contributo. Quindi cominciai ad aderire a diverse organizzazioni studentesche e a combattere l’apartheid, perché aveva senso per me. È così che ho iniziato.
Johanne Affricot: Hai esposto varie volte i tuoi lavori a 1:54, una fiera che celebra l’arte di artisti africani e delle diaspore africane. Come ti fa sentire essere in questo spazio?
In tutta onestà, non ci sono stato tanto a pensare. È da molto tempo ormai che espongo e ho partecipato a molte mostre collettive, personali e quant’altro. I miei fumetti mi hanno portato in tutto il mondo, quindi se mi chiedi specificamente di questa fiera d’arte, penso che sia un po’ inutile. Penso che dovrebbe far parte di tutto, sai, senza questa cosa di etichettare l’arte africana. È arte, perché dovrebbe essere separata?
Johanne: Perché era l’unico modo per darle il giusto spazio. Gli artisti africani qui in Europa non avevano luoghi che rappresentassero la loro arte come a 1-54. Per questo hanno creato questa fiera. Ma ora le cose stanno evolvendo. Ti ho posto questa domanda perché il tuo gallerista ha menzionato le diverse reazioni che ci sono state a New York rispetto a Londra. Lì i neri americani non erano così colpiti dall’uso che fai degli stereotipi.
Nel 2011 ho fatto una mostra con la galleria Jack Shainman, e al tempo usavo molto la golliwog face. C’erano quadri grandi, molto più grandi di quelli che espongo qui a 1:54 [Londra]. Quella sera, all’opening, vennero anche i Die Antwoord seguiti da uno stuolo di telecamere. Era pieno di gente. Quando l’atmosfera divenne più rilassata, molte persone mi vennero a stringere la mano, dicendomi: “Grazie per come parli della razza, qui negli Stati Uniti i bianchi hanno troppa paura ad affrontare il tema.” Ero veramente sopraffatto. Pensai, ‘È fantastico, è questo ciò che voglio raggiungere con il mio lavoro, non sto attaccando i neri, non è questa l’idea.’

Uno dei motivi per cui ho usato la golliwog face è perché rappresenta tra i modi più immediati per dire: sto parlando di razza. Nel momento in cui inizi a utilizzare una persona intera, diventa confuso. Ricordo quando ero un artista in visita all’Università della Carolina del Nord. C’era un professore nero che mi intervistò e mi chiese: “Perché non usi semplicemente una normale faccia nera, perché usi questa faccia?” Gli risposi che il problema è che il messaggio così diventa confuso, perché qualcuno potrebbe pensare che la persona che sto rappresentando non sia davvero nera, ma ispanica o qualcos’altro. Quando usi la satira, usi l’iperbole, a volte usi gli stereotipi, ma il problema è che ciò che stai criticando è anche qualcosa che perpetui, il che è ironico. Ma ne sono molto consapevole. So che questo è un problema e cerco davvero di trovare soluzioni diverse, ma sono dovuto scendere a compromessi per comunicare il significato. Ecco perché espongo quel lavoro con la coppia nera che si allontana da quella casa. Sono disegnati realisticamente, mentre i due bianchi sono disegnati comicamente, in uno stile semplificato. Cerco di dimostrare che si può invertire l’intero processo. Non vorrei mai far passare il messaggio che per me è semplice usare la golliwog face in qualsiasi momento. Può sembrare, ma non è così.

Sai, uno dei lavori più complessi da realizzare è stato quello dei ragazzi che reggono le biciclette. Penso di aver ridipinto la faccia del ragazzo una cosa come sei volte, proprio non funzionava. La cosa che mi spaventa molto è diventare condiscendente o paternalistico verso i neri. Ma il lavoro più difficile è stato In God We Trust, perché è molto controverso. Negli altri dipinti hai il contrasto del bianco e del nero, ma in questo hai solo le due mani bianche, che sono le mani di Dio, e conferiscono un aspetto completamente diverso all’opera. È un lavoro in cui critico. Critico il coinvolgimento della religione, in particolare della religione bianca, che è stata portata in Africa come una sorta di costrutto artificiale. Non è qualcosa che è nata lì, è stato introdotta dai cattolici, in primo luogo, e ora i neri credono in questo Dio fondamentalmente bianco.

Celine: Perché la macchina?
È un qualcosa per cui viviamo, il che è un contrasto. Innanzitutto hai questa macchina tedesca, e poi ovviamente – qui è dove diventa difficile – in Sud Africa sono stato molto critico nei confronti del partito comunista, perché lavorano con l’ANC, il partito al potere lì, e anche se il capo di questo partito comunista è un socialista e quant’altro va in giro con questa Mercedes Benz davvero costosa, e per me non è giusto! Come puoi guidare questa macchina da due milioni di rand quando dici di essere un socialista e un comunista? Da sudafricano giro per Londra e vedo tutte queste macchine parcheggiate vicino a dove alloggio, ma sai, non guiderei mai una macchina del genere in Sud Africa, perché penso che sia semplicemente vergognoso. Tuttavia, ci sono persone che guidano quelle macchine in Sud Africa e ne vanno molto fiere.
Celine: Quindi il tuo privilegio bianco in Sud Africa ti fa sentire in colpa? Penso anche al dipinto che hai menzionato prima, dove c’è il ragazzo bianco che dice al ragazzo nero, “Ci sentiamo in colpa tre giorni alla settimana, ma i venerdì ci vergogniamo.”
Sì, ed è anche il motivo per cui ho disegnato quella piccola foto White Guilt, Black Humor [nella parte posteriore di the timitations of white empathy.] Sento che è qualcosa da cui non puoi scappare, ti svegli la mattina ed è lì. E sapete, il privilegio bianco è un termine molto interessante per me, perché provo a pensare, a capire, e so di rientrare in quella categoria: ho il privilegio, sono bianco. Ma poi penso ‘Cosa significa esattamente?’ Perché se ripenso alla mia infanzia, sono cresciuto in una casa in cui mio padre era un fascista, di quelli peggiori. È stato sposato con quattro donne diverse e venivamo picchiati continuamente. Mio padre non comprava macchine costose, ma ricordo che quando salivo sulla sua macchina odiavo ogni minuto nello starci dentro. Allontanarsi da lui è stata una completa liberazione per me. È morto qualche anno fa senza un soldo in tasca, infatti quando mi iscrissi all’università mi disse che non avrebbe pagato nulla, quindi ho dovuto ottenere prestiti e restituire tutto quando ho iniziato a lavorare. Ho lavorato molto duramente nella mia vita e ho fatto un po’ di soldi attraverso la mia arte e il mio lavoro, ma ora il mio privilegio bianco sarebbe probabilmente la mia istruzione, il fatto che ho ottenuto un’istruzione che mi ha permesso di fare soldi.

Johanne: Ma è la stessa istruzione che probabilmente ti ha permesso di essere più esplicito rispetto a un nero sudafricano. Anche questo può essere considerato un privilegio, nonostante la tua difficile infanzia.
Sì, è vero. Quello che voglio dire è che penso costantemente a questi problemi e provo a trasmetterli nel mio lavoro, in Guilt and shame, un pezzo che ho realizzato l’anno scorso [2017], e anche nell’altro lavoro, Exhaustion, con lo psichiatra. Mentre lo realizzavo pensavo all’attuale dibattito e al fatto che tutti siamo stanchi. È un lavoro che sento molto. Sono esausto perché parlo di queste cose da quando sono nato, sono esausto di sentirmi in colpa, ma dov’è la soluzione? Quindi, in quel pezzo puoi vedere sullo sfondo dei paesaggi e allo stesso tempo [in Sudafrica] c’è questo dibattito sulla terra: a chi dovrebbe appartenere? Non sono un politico, mi considero un pedone, una persona che cammina. Vedo qualcosa? Posso fare arte su quella cosa? È qualcosa che trovo interessante? Mi pongo sempre molte domande ed è sempre molto complicato.
Johanne: Il fatto che tu ritragga queste cose spinge le persone a pensare che ponendo le domande hai anche le risposte?
Sai, Chekhov, lo scrittore russo, diceva: il ruolo dell’artista non è dare risposte ma formulare domande. E sono assolutamente d’accordo. Devi far pensare le persone, ma poi alcune entrano, urlando: come ti permetti? Qual è la risposta?
Guilt and Shame, Exhaustion, sono opere recenti che penso affrontino molto di più questi problemi, ma c’è questa sorta di polizia di Internet che va in giro e dice che non ti è permesso fare questo o quello. Sento che oggi c’è questa forma di fascismo che si è impossessata delle persone. E mi preoccupa, perché per me l’importante è che la gente faccia arte, che gli sia permesso di fare arte, e che si instauri una discussione democratica al riguardo. L’idea che non ti è permesso fare qualcosa e non vogliamo nemmeno parlarne perché “è così completamente sbagliato quello che hai fatto,” ecco, la trovo problematica. Sono così contrario alla censura. Sono stato censurato sotto molti aspetti, uno dei miei libri è stato censurato in Sud Africa dopo che il nuovo governo ha preso il controllo, anche se penso che siano state le vecchie strutture dello Stato che in realtà lo abbiano fermato. Da allora la comunità, i tipografi, le librerie mi censurano, non vogliono vendere i miei libri.

Celine: Sono i bianchi che ti criticano o i neri che non capiscono il modo in cui vedi le cose?
Entrambi, ma principalmente bianchi, e questa cosa mi fa infuriare molto. Questi liberali bianchi credono di poter parlare per conto dei neri. ‘Dobbiamo intervenire, perché dobbiamo salvarli…’ Mi fa davvero arrabbiare. Perché non chiedono a una persona nera come si sente, invece che agire per conto di qualcuno per cercare di rendere le cose belle? Un elemento che ritengo fondamentale per il mio lavoro è l’atteggiamento condiscendente e paternalistico dei bianchi verso i neri. Lo trovo al centro dell’attuale razzismo, trovo che sia la più offensiva delle cose. In Sud Africa, per farvi un altro esempio, c’è questo presupposto che i bianchi di lingua inglese siano molto più sofisticati e che gli afrikaner siano un po’ arretrati. Non posso dirti quante volte nella mia vita ho sentito i bianchi di lingua inglese dire, ‘Questi stupidi afrikaner…’ o qualcosa del genere, ed è così offensivo.
Johanne: Quello che dici è legato al pezzo Very Very Good, dove ci sei tu che dici, ‘Non te lo sto dicendo perché sei nero’?
L’ipocrisia risiede ovviamente nella persona bianca, è questa la linea di fondo, ecco come la vedrei. So che i pezzi sono impegnativi, ma sento—e questo è ciò che fa la satira—che sono un po’ uno specchio. Molte persone dicono: ho visto il tuo lavoro, ho riso e poi ho capito quanto fosse razzista, e voglio solo dirti che quello che hai fatto è inaccettabile. Se ridi, sei immediatamente complice di questa cosa, quindi devi chiederti: perché non dovrei ridere? Perché dovrei sentirmi a disagio per questo? Non è che ti aiuta se pensi e dici ‘C’è qualcosa che non va in questo artista, andiamo a ucciderlo!’ Voglio dire, potrebbe esserci qualcosa di sbagliato nell’artista, ma penso che questo non sia il caso.

Celine: E che mi dici del lavoro Greetings from South Africa?
Ho fatto quel lavoro originariamente nel 1993, addirittura prima ancora delle prime elezioni sudafricane. Stavo cercando di ritrarre la percezione dei bianchi legata al quel momento, il fatto che stessero pensando, ‘Oh mio Dio, questo è quello che succederà!’ Ho davvero cercato di prendere in giro la paura della gente bianca, anche quel n is for nightmare, è stato un lavoro… un modo per renderli più ansiosi! Ho pensato che sarebbe divertente oggi vederlo scappare mentre urla “Sono conscio, sono woke!” Ma la gente potrebbe non trovarlo divertente, sai…

Celine, Johanne: n is for nightmare ed e is for eating people vengono da Alphabet of Democracy?
Sì. Vedi, questo è il problema con una fiera d’arte come questa. Ho realizzato un’intera serie di “opere con testo”— è così che chiamo questi pezzi—e quello che cerco di illustrare è l’assurdità di vivere in Sud Africa e le cose strane che ti capitano. È tutto vero: tutte quelle date, le informazioni, non sto cercando di inventare nulla. Ma leggerlo da un punto di vista europeo, è scandaloso! Sebbene fosse un vero articolo, in realtà dietro c’è una storia orribile e bizzarra sul cannibalismo. Non puoi semplicemente guardare quell’unico pezzo, devi guardare l’intera serie. Ho realizzato il libro Alphabet of Democracy e sto ancora aggiungendo nuovi pezzi, voglio fare un nuovo libro, ma in questa fase gli editori sud africani dicono che non possono pubblicarlo perché sono troppo sensibili. Parlare del mio lavoro con voi è positivo, perché chiarisce anche alcune cose di cui non sono sicuro, perché molte volte non sono sicuro e con la satira a volte fai qualcosa e non funziona! E a volte mi chiedo, ‘Perché sono contrari a questa opera? Pensavo fosse molto più forte questa.’

Johanne: Nel 1992 hai fondato Bitter Comix e hai avviato questa conversazione. Come è cambiato il modo in cui il tuo lavoro viene percepito in questo periodo? Come viene percepito ora che la comunità nera si sta riappropriando della conversazione, considerano anche la scena artistica sud africana, che è tra le più attive? Se i bianchi parlavano a nome dei neri, oggi i neri stanno cambiando la narrazione.
Sai, sono passati vent’anni dalla mia prima mostra internazionale e la risposta alla tua domanda è: non c’è nessun “questo è come si sentono” universale. Dipende a che ora era, dove è successo. C’è stata sicuramente un’evoluzione. Ricordo che quando ho iniziato c’era un sacco di supporto per il mio lavoro e ho lavorato ed esposto con tanti artisti neri, miei amici, siamo tutti nella stessa galleria. Ma dal 2015 c’è stato un netto cambiamento: c’è stata un’intolleranza contro di me e il mio lavoro. E ne sono un po’ offeso.
Johanne: Perché non riesci a gestire questa intolleranza? Se il tuo lavoro è veritiero, perché non riesci a convincere i neri che è solo satira con uno scopo specifico?
Dubito sempre del mio lavoro e cerco di pensare a come costruire una strategia, ma il fatto è che l’ironia è qualcosa che ha un potere distruttivo, e raggiungi un punto in cui forse è finito e qualcosa di nuovo deve essere costruito, che prenda il posto di quell’ironia. Il mio lavoro è molto ironico, ma la satira stessa prende sempre in giro qualcosa e penso che le persone, specialmente nella comunità nera, si stanchino di ciò. Ma sono un artista che fa satira. Faccio anche altre cose, ma sento di essere al mio massimo potenziale e di fare le cose più forti quando faccio satira.

Johanne: TinTin è stato definito razzista a causa della narrazione, dello stile dei disegni, eccetera. Ma molte persone lo hanno difeso dicendo che faceva parte della loro infanzia—che è esattamente quello che è successo e succede nei Paesi Bassi con Black Pete. Sembra che certe persone non vogliano rendersi conto del razzismo intrinseco che c’è dietro e rimanere attaccate alla tradizione, all’infanzia e a certi residui di superiorità.
Qui sono completamente d’accordo con te. Inizialmente Tin Tin in Congo non doveva apparire in inglese, come infatti fu stipulato nel testamento di Hergé [Georges Prosper Remi]. Però la sua volontà in qualche modo è stata rovesciata, e nel 2005 è uscito in inglese con un piccolo disclaimer che recita, “Questo libro va letto nello spirito di quando è uscito, negli anni ’50,” e così [Bergé] è stato criticato per quel libro.
Ricordo di averlo letto a mia figlia e che non riuscivo a spiegarle che era pieno zeppo di stereotipi razziali, perché non l’avrebbe capito. Ma ad un certo punto mi ha chiesto, ‘Papà, cosa ci fanno le scimmie qui?’. Ho chiuso il libro e le ho detto che un giorno, più avanti, lo avremmo guardato insieme e le avrei spiegato di cosa si trattava. E poi sono iniziate a nascere tante idee, ho pensato di poter usare questo libro come una sorta di metafora per affrontare in maniera efficace questi problemi.

C’era un ragazzo nero in Belgio che diceva che il libro era razzista e avrebbe dovuto essere tolto dagli scaffali. Devo dirvi che non credo nella censura, quindi ho scritto la mia opinione nella sezione commenti di Amazon affermando che il libro era palesemente razzista, e che il problema con il libro stava nel fatto che fosse rivolto ai bambini, e i bambini avrebbero letto quegli stereotipi razziali e li avrebbero rafforzati. Il mio suggerimento fu di attaccarci sopra qualcosa, tipo un’etichetta come si fa per alcuni testi rap, una sorta di limite d’età da mettere sul libro, che in qualche modo si opponesse allo scopo del libro stesso, perché se dici che i bambini non sono autorizzati a comprarlo, allora nessuno lo comprerà, e gli adulti penseranno che è una schifezza. La Biblioteca di New York in realtà lo ha tolto dagli scaffali, dicendo che non lo stavano vietando, ma che lo avrebbero tenuto dietro il bancone, quindi se la gente voleva leggerlo avrebbe dovuto chiederlo. Penso che non fosse una cattiva idea, ma fui criticato su Amazon! La gente diceva esattamente la stessa cosa, “Siamo cresciuti con Tin Tin, è innocuo, non è un grosso problema.” Quel libro è dannoso, ha ispirato tutti i lavori che ho iniziato a fare, ma ora sento che sto raggiungendo un punto dove devo fermarmi. Ci ho lavorato abbastanza. In un qualche modo è finita.

Johanne: Quindi in un certo senso stai pensando di finire questo capitolo della tua vita, che è arrivato il momento?
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