Ana Paula Dos Santos Decostruisce Un Posto Al Sole Nella Sua Serie Eponima

“A place in the sun” – Un posto al sole (in tedesco: Ein Platz in der Sonne) è una frase pregna di desiderio. Viene accreditata al Ministro degli Affari Esteri dell’Impero tedesco, Bernhard von Bülow. Riferendosi al dibattito parlamentare sulle ambizioni coloniali dell’impero nel 1897, von Bülow disse: “non vogliamo mettere nessuno all’ombra, ma chiediamo anche noi il nostro posto al sole”. Le sue parole diedero inizio a un impero coloniale che durò trent’anni: dalla baia di Kiautschou, in Cina, all'”Africa sudoccidentale tedesca” e oltre, un impero sopravvissuto a un desiderio distinto.
Questa frase si poggiava sulle gioiose immagini che proiettava nella mente delle persone. Nonostante le sue connotazioni apparentemente innocue, divenne una metafora per una doppia fantasia controintuitiva, in cui il concetto di dominio si mischiava con l’urlaub – vacanza: in altre parole, offuscava in modo significativo i confini tra la nostalgia coloniale tedesca e il “diritto” di godersi in qualsiasi momento le vacanze in una parte più soleggiata del mondo.

La fotografa brasiliana Ana Paula dos Santos, che vive in Germania da oltre un decennio, non è estranea al frequente desiderio che lampeggia sui volti degli estranei quando rivela dove è nata. Fino a poco tempo fa, il paese era una scorciatoia per spiagge assolate e belle vibrazioni.
Le immagini della sua serie in corso, Deconstructing a Place in the Sun, recentemente sono state esposte nella collettiva Witnesses, alla galleria Sakhile & Me di Francoforte. Nella serie, dos Santos riesamina la frase come qualcuno che è cresciuto in un posto al sole, ma ribalta questa visione univoca, sostenendo che non era sempre sereno. Le immagini attenuano la tropicalità della sua città natale, la città portuale di Santos, per mostrare una malinconia carica di domande su casa, distanza, desiderio, memoria e realtà individuale. GRIOT ha parlato con Ana Paula dos Santons, mentre si appresta ad aprire la sua prossima personale.
GRIOT: Ricordi la tua prima fotocamera? Cosa fotografavi?
Ana Paula dos Santos: Ho iniziato a fotografare quasi dieci anni fa, ma non ho mai studiato fotografia formalmente. Mi interessavano solo le vecchie fotocamere analogiche, per la trama che producono, per quel mondo surreale e immaginario che creano. La mia prima fotocamera analogica è stata una Minolta e l’ho acquistata al mercatino delle pulci. Lavorare con quella macchina è stato molto interessante per me, ho imparato a cambiare le pellicole e a fare tanto altro. Poi ho iniziato a sperimentare con tutto ciò che vedevo intorno a me, meno con le persone però, ero un po’ titubante a tenere la macchina fotografica davanti ai loro volti. Ho iniziato con la fotografia di strada, ad esempio, le astrazioni sulla strada, l’asfalto e gli effetti specchio delle pozzanghere, ma anche con la natura, per lo più forme naturali come alberi e piante.

Hai detto che sei un autodidatta. Il tuo amore per la fotografia si è sviluppato durante questa fase o eri già un’appassionata ?
Sono sempre stata affascinata dalla fotografia, sin da quando ero bambina. Adoravo i vecchi album di famiglia. Li prendevo, guardavo le foto e facevo domande molto specifiche su quando erano state scattate le foto e chi erano le persone ritratte. C’erano foto degli anni ’60 e ’70, ed ero sempre interessata a sentire dove fossero esattamente mia madre o mio padre. Ma non avevo davvero accesso alla fotografia in quel modo. C’erano pochissimi ruoli modello per una donna brasiliana Nera come me. I fotografi Neri, in particolare le fotografe Nere, erano rare. Probabilmente è questo il motivo per cui mi ci è voluto un po’ di tempo prima di avere la mia prima fotocamera analogica.
Crescendo e mentre iniziavi ad esplorare la fotografia hai trovato ruoli modello?
In realtà, è difficile menzionare il nome di qualcuno che ho ammirato da adolescente. In seguito sono entrata nella fotografia, indipendentemente da quell’esperienza. Adesso amo fotografe come Zanele Muholi, Lorna Simpson (che è anche un’artista visiva), Sharon Farmer e molte altre. Anche le piattaforme che mettono al centro l’Africa e le sue diaspore mi ispirano molto. Ma molte delle persone che vedo con la macchina fotografica in mano sono uomini bianchi. Quando cerco tutorial su fotocamere più vecchie, come la mia Leica o Rollei, difficilmente si trova qualcun’altro che ne parli. Per me è importante che sempre più donne Nere esplorino e si esprimano attraverso la fotografia e le arti visive in generale.
Ci sono macchine fotografiche che tengo in mano che so che non sono mai state tenute in mano da mani Nere prima. Ho una Leicaflex SL o una Kodak Retina 1a—una fotocamera pieghevole che ho comprato al mercato delle pulci—o una Kodak Jiffy, degli anni ’30. Sono quasi certa di essere la prima donna Nera o forse anche la prima persona a usare questi modelli. Trovo molto intriganti la cerimonia giocosa o il rituale di lavorare con questi strumenti, così come anche il processo e la storia dietro le macchine fotografiche e la fotografia. Specialmente per gli aspetti tecnici della luce e dell’illuminazione. Le foto più vecchie di persone Nere hanno un’illuminazione davvero scarsa, perché nessuno sembra averci pensato seriamente.

La mostra collettiva a Francoforte è la tua prima mostra, come è nata?
È stato un processo. La prima idea per una mostra è stata all’università, nel 2015. Avevamo viaggiato a Città del Messico per un’escursione, e io avevo il compito di fotografare la città e organizzare una mostra all’università. Quella mostra alla fine saltò, ma quel processo mi aveva esposta all’idea che avrei potuto esporre il mio lavoro. Nello stesso anno, mi resi conto di avere molte immagini analogiche nel mio archivio, e ho continuato a crearne altre fino al 2018. È stato allora che ho sentito parlare di un portfolio review al Museo della Fotografia di Berlino, all’interno dell’EMOP (European Month of Photography Programme – Programma del Mese Europeo della Fotografia) che si tiene ogni due anni. Compilai il mio portfolio, feci domanda e fui accettata nella review. Era la prima volta che realizzavo un portfolio, ma nel 2013 avevo già avuto una recensione di una serie di fotografie al Frankfurt Photography Forum, con il fotografo spagnolo Alberto Garcia Alix. Le immagini della mia attuale serie Deconstructing a Place in the Sun erano nel portfolio perché nel 2015 avevo fotografato la mia città natale, Santos, e di nuovo nel 2018. Ho ricevuto un feedback molto positivo alla review di Berlino, ed è stato allora che ho pensato: ok, ora ho un portfolio, forse posso fare una mostra con questo materiale. E così ho iniziato ad avvicinarmi alle gallerie.
Alcuni fotografi lavorano su più serie contemporaneamente, altri lavorano liberamente e solo in seguito vedono che ci sono trame nel loro corpo di lavoro. Qual è il tuo approccio?
Varia. Ho realizzato una serie che aveva un concetto molto chiaro, sin dall’inizio, ma Deconstructing a Place in the Sun inizialmente era un progetto profondamente personale. Santos è molto importante per me, anche se vivo in Germania da molto tempo. E scattai delle foto alla spiaggia perché è lì che di solito andavo a pensare, a ballare e a rilassarmi. Era un posto in cui tutto l’anno trascorrevo molto tempo con gli amici, quando era completamente vuoto ci andavo da sola. Quindi, per la serie ho scattato le foto tenendo a mente questi aspetti, ma è stato solo più tardi, guardando i risultati, che ho capito cosa significasse questo posto per me, sullo sfondo del Brasile, delle regioni e della mia storia. Mi sono chiesta cosa significasse per me essere in queste scene, anche se non facevo autoritratti o selfie. In qualche modo facevo ancora parte di queste scene.

Ci parli del titolo della serie?
Deconstructing a Place in the Sun è molto sfaccettato come titolo, per via della sua natura metaforica. C’è molto da disfare dalla mia prospettiva di donna brasiliana Nera. Mentre analizzavo le immagini, ho pensato al fatto che Santos—e il Brasile in generale—viene sempre raffigurata come colorata e accompagnata da una gioia costruita, che si riflette nei colori della bandiera brasiliana: è una fabbricazione molto particolare della tropicalità. Tuttavia, le mie foto erano in bianco e nero, nebbiose e con forme umane lontane. Avevano una sorta di atemporalità e sembravano minare la narrativa di ‘un posto al sole’ dalla loro estetica: semplicemente, non soddisfacevano un’immagine da cartolina del Brasile che trasuda tropicalità, quindi l’ho presa come una metafora e ho giocato con quella narrativa.
“Un posto al sole” fa riferimento anche a un immaginario coloniale. La frase veniva usata nella lingua coloniale tedesca in un modo che serviva ad alimentare il desiderio tedesco per posti in America Latina, nel continente africano, eccetera. Quindi stavo interrogando cosa significasse volere “Un posto al sole”. Volevo decostruire questa nozione, non mostrando un luogo gioioso al sole, ma malinconico.

Non sono un funzionario coloniale, ma una donna Nera che è cresciuta in questo “posto al sole”, che storicamente non era sempre soleggiato. Ecco perché gioco con la decostruzione. Ma anche senza sovvertire quella nozione coloniale, per me l’aspetto estetico ancora spiccava. Ho realizzato altre immagini utilizzando la stessa tecnica, perché è ricca di struttura. Per questa serie ho trovato molto importante la trama granulosa, perché ha rafforzato il concetto alla base della serie.
A cosa stai lavorando ora?
Ho sempre voluto espandere la mia pratica nelle arti visive in generale, e forse anche nelle installazioni. La mia prossima mostra è prevista per gennaio, alla galleria 1882 di Francoforte. Sarà la mia prima mostra personale in cui ho intenzione di esplorare tutti questi aspetti.
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Sono uno ricercatore e studioso di decolonialismo. Lavoro sull'intersezione tra giustizia sociale, politica, economia, arte e cultura. Amo leggere, ballare, andare in bicicletta e il capuccino senza zucchero.