African Fabrics | L’ultimo Album Di Haaksman Fa Vibrare Anche La Mente

Chissà che questo album non sia arrivato alle orecchie di Paul Simon e ascoltandolo non gli abbia ricordato il suo caro e vecchio Graceland. Sicuramente qualcosa che lega il cantautore americano al dj, musicista, producer e giornalista Daniel Haaksman c’è, ed è la capacità di mettere insieme culture sonore completamente differenti per dar vita a dei capolavori che fanno vibrare anche la mente.
Atmosfere tropicali con vortici di bass uniscono e sfidano le leggi del tempo e dello spazio, riportandoci indietro anni luce, sino all’origine delle cose, dove semplicità e naturalezza ci liberano e avvolgono i nostri pensieri.
African Fabrics, è un aereo che vola in Angola, Sudafrica, Mozambico, Portogallo, per poi tornare a Berlino, capitale dell’arte aperta, dove Haaksman, trasfomandosi nel Don Chischiotte dei giorni nostri, con questo capolavoro di tracce è riuscito ad andare contro tutto quello che è il mainstream mondiale, regalandoci un ottimo mix di sonorità afro-berlinesi.
Fondatore della Man Recordings, abbiamo intervistato Daniel per avvicinarci e avvicinarvi a questo genere musicale – la Tropical Bass – e rivelarvi come nasce un album così eclettico.
GRIOT: Raccontami il processo creativo che c’è dietro questo tuo progetto, African Fabrics.
Daniel Haaksman: Guarda, è partito tutto dieci anni fa. Ero in Brasile e lavorando con dj ed mc del posto ho conosciuto il Baile Funk [genere dance che è un mix tra la Miami bass e la musica africana, anche se in Brasile lo associano più alle feste o discoteche dove viene messa musica.]
Quattro anni fa ho avuto la fortuna di andare in Angola per suonare a un festival. Era la prima volta. Ovviamente parlando la lingua [l’Angola è un ex colonia portoghese] non avevo problemi nel comunicare con le persone del posto, conoscere il loro mondo, e devo dirti che quello che mi ha sorpreso di più è stato scoprire tutto un network di musicisti che si scambiavano informazioni tramite internet, utilizzavano gli stessi strumenti che utilizziamo noi qui in Europa, ma con programmi e beats differenti. Il risultato? Un genere di elettronica molto simile alla nostra ma anche una versione angolana della techno.
È stato molto interessante scoprire queste differenze perchè è vero che qui a Berlino, che è una città molto grande, la techno è dapertutto, ma per me è molto noiosa, vecchia, ripetitiva, con questo suo stile così conservatore. I suoni angolani hanno portato una ventata di freschezza. In Angola ci sono tornato due volte e ho fatto una collaborazione con Dama Do Bling – Black Coffee. Poi mi sono spostato in Portogallo, e con il trio Throes + The Shine ho realizzato Xinguila. Queste sono le origni di African Fabrics.
Sei tra i dj che ha portato la Tropical Bass in Europa e questo album in parte ne è una celebrazione. Cos’è che caratterizza questo genere rispetto ad altri?
La Tropical Bass è come un ombrellone. Copre stili diversi l’uno dall’altro: dal Raggaeton al Kuduro, dal Baile Funk al Soca. Sono un dj e quando faccio i miei set propongo sempre un mix eclettico ed il Tropical Bass è perfetto perchè è un intreccio di generi, influenze.
Succede sempre qualcosa di nuovo in queste zone [nei paesi africani.] Le cose si muovono molto velocemente perchè c’è una nuova classe media che ha accesso alla tecnologia, ai computer e ad internet, che fino a quindici anni fa non c’era. E così oggi mi ritrovo a collaborare con artisti del Senegal, del Sudafrica, e altri paesi, senza dovermi spostare sempre.

Come mai questo genere è arrivato alle nostre orecchie solo di recente?
All’inizio era molto di nicchia. Oggi la scena è molto più grande, ci sono tanti artisti che lo trattano, persino quelli pop, commerciali, che lavorano con le grosse case discografiche e non a caso sono quelli che fanno più soldi di tutti. Poi ci sono gli artisti che lavorano nell’underground, tipo dj Marfox, di Lisbona, che fa cose molto innovative.
Poi ci sono alcuni fattori importanti da prendere in considerazione. In Germania, in Francia, ci sono moltissimi artisti africani che hanno i loro network ma fanno una musica diversa, più roots, e per me è importante che i nostri generi si contaminino. Non potrei mai fare vera musica africana, primo perchè non esiste, secondo perchè sono di Berlino, la città europea della techno, e qui i dj mandano pezzi non cantati, come invece accade con la musica africana, dove usano anche molto auto-tune. Per molti clubbers quindi è difficile ballarla. Non sono abituati. Comunque la diffusione di questi suoni è tutta legata alla possibilità di trasferire dati da una parte all’altra del mondo. Se anni fa il network era più ristretto, oggi gli artisti hanno creato una rete più ampia che fa in modo di farli arrivare ovunque essi vogliano.
Guardando le date del tuo tour non ne vedo una italiana. È una scelta personale?
Recentemente ho suonato a Milano [al Sonido Classics]. Sono innamorato dell’Italia, nessuna scelta personale. Questa musica è speciale e forse l’Italia non è ancora pronta. Da voi non c’è un grande network come in altre città.
E come fai nelle altre città? Come riesci ad ampliare questo network? Ti occupi anche dell’aspetto manageriale?
Sì, sono il manager di me stesso, ma ovviamente ho anche varie agenzie di booking e questo mi permette di suonare anche in altri parti del mondo.
Quanto sono importanti i social per la tua produzione artistica?
L’aspetto social ormai è diventato molto più importante di quello musicale, il che è alquanto grottesco e indicativo dei nostri tempi, dove l’espressione artistica passa in secondo piano ed è l’immagine che conta. La musica è solo una parte dell’ingranaggio.
Parlami dell’incontro con Spoek Mathambo. Lo scorso maggio è uscito il video di Akabongi, girato a Johannesburg, e cantanto da Spoek in lingua Zulu e in inglese. Ti confesso che il risultato è qualcosa di davvero potente. Come nasce la vostra collaborazione?
Conoscevo Spoek già da sette anni. È venuto a suonare a Berlino molte volte e siamo rimasti in contatto perchè ero interessato a fare un album con musica elettronica africana. È un artista molto interessante e ascoltando “Akabongi,” un pezzo poco conosciuto qui in Europa, del gruppo sudafricano degli annì ’80 Soul Brothers, mi è venuto in mente di realizzare una cover con lui. Ho creato il beat, aggiunto la chitarra del chitarrista colombiano Bulldozer, Spoek mi ha mandato la sua musica a cappella, e poi ho fatto la traccia qui a Berlino [è inutile che vi dica di guardare il video, vero?]
Qual è il tuo rapporto con l’Africa?
È un continente enorme. Io sono stato soprattutto in Angola e Mozambico. Poi ho passato due mesi a Capoverde. Da bambino ho vissuto due anni in Somalia, per via del lavoro di mio padre. L’Africa degli anni ’70 è molto diversa rispetto a quella di oggi e sono certo che nei prossimi anni riceveremo tante di quelle idee, tanta di quella linfa creativa dal continente. Si respira energia nuova. Gran parte della popolazione è composta da persone super giovani. Qui in Europa siamo vecchi. Pensa che in Germania l’età media della popolazione è di 45 anni mentre in Africa è di 18 anni. È il luogo dove nascono le novità. È un momento molto speciale e l’Africa sarà il futuro. È vero, in alcuni paesi la situazione è delicata per via delle guerre e tanti altri problemi, ma è pur sempre un continente formato da 54 paesi.
Cosa ci vuoi raccontare con quest’album?
Come ti dicevo prima, non esiste una musica autentica. Né in Europa, né in Africa. Ma qui, a differenza dell’Europa, c’è roba differente, fresca. Con African Fabrics volevo dare la mia interpretazione, aprire una finestra che mostrasse i miei viaggi, le cose che ho trovato per le strade di Maputo e Luanda, così come su internet.

Alcuni artisti in Sudafrica mi dicevano: “Ah sì, ma tu sei di Berlino.” Questo è un passaggio importante. Bisogna sempre tenere in considerazione la storia del colonialismo tedesco, la conferenza di Berlino e la spartizione dell’Africa tra Francia, Gran Bretagna, Belgio e Germania. Con la traccia e il video “Rename The Streets“, ho voluto fare una riflessione sulla storia del colonialismo tedesco, durato ventidue anni. Cerco di trasmettere agli artisti locali che non sono andato lì per rubare ma per instaurare unn dialogo, creare qualcosa insieme. Dare visiblità, far circolare le idee e la musica. Mi piaceva l’idea di connettere la mia Berlino alla mia Africa e vedere cosa ne usciva fuori.
Prossimi step?
Grazie a un programma del governo tedesco e al supporto del Goethe-Institut gli artisti tedeschi hanno la possibilità di incontrare artisti africani. Il prossimo anno sarò a Capo Verde per un festival molto importante, e ad ottobre andrò a Lagos per dei workshop su Web Marketing e Publishing. Una cosa che ho notato è che in molti paesi africani sanno fare produzione, video, ma conoscono poco e nulla sui diritti [d’autore] e se vuoi provare a guadagnare qualcosa, vivere di musica, non puoi pensare di fare soldi vendendo su piattaforme tipo i-tunes ma devi conoscere il mondo del licensing [musica usata in film, pubblicità.]
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Immagine in evidenza | Daniel Haaksman (c) Stefan Korte
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Nato al centro di Roma, italo-senegalese, quinto di sei figli, sono cresciuto tra le donne di casa, dalle quali ho imparato a vedere il mondo con un'altra sensibilità.
La musica mi ha preso per mano in tenera età e con questa mi esprimo tutti i giorni, scanditi da sessioni in studio e lavoro.
Abituato ad interagire con il popolo, prendo ispirazione da tutto quello che mi circonda. Amo vivere la vita in modo frizzante. Martha Medeiros con la sua “Lentamente muore” ha aperto il flusso di creatività che mi scorre nelle vene.