‘Abyss’ | Abbiamo Parlato Con Yendry Del Primo Disco Dei Materianera

Nella tarda mattinata di una piovosa domenica invernale raggiungo Yendry Fiorentino nel più frequentato dei locali della Torino hipster di questi ultimi tempi. La trovo seduta sul cuscino sformato di un divano in velluto, avvolta in un completo bianco vintage e nella nube aromatica del suo caffè americano.
Yendry ha 25 anni, un sorriso implacabile ed una personalità trascinante, di quelle che faticano a lasciare indifferenti. In mezzo al chiacchiericcio dei consumatori del brunch, e alle note di Al Green in sottofondo, Yendry mi racconta di sé, della sua musica, di viaggi e di ricordi, di presente, passato e futuro.

Il 16 Marzo è uscito Abyss (Tainted Music), primo album dei Materianera, trio di musicisti di cui Yendry è la voce—accompagnata da Alain Diamond (drum) e Davide “Enphy” Cuccu (synth)—reduce dal successo dell’EP di esordio Supernova, che nel 2015 ha procurato loro la nomination agli MTV Music Award.
Abyss è un disco di 11 tracce dalle sonorità suggestive, raffinate, ma allo stesso tempo efficaci—il singolo Hole in the Water entra in testa fin dal primo ascolto, e il video, girato nei quartieri Spagnoli di Napoli, traduce visivamente la bellezza del pezzo—in cui la fusione tra sonorità electro-pop, trip-hop, e la vocalità soul e soffice di Yendry strizzano l’occhio ad esempi illustri quanto attuali come FKA Twigs e Solange.
Ma Abyss è anche un racconto, l’approdo di un viaggio nelle profondità dell’animo umano, un percorso personale di scoperta identitaria di cui Yendry è la metafora vivente.
Con Abyss Yendry inaugura il racconto di una storia, la sua, e lo fa partendo dal principio: dalle sue radici dominicane, dal non ricordo di un padre assente, dalle memorie di una madre coraggiosa, per arrivare a disegnare un’identità complessa ed in continua evoluzione.
GRIOT: Tu sei nata nella Repubblica Dominicana, dove hai vissuto fino all’età di 3 anni, per poi trasferirsi con tua madre nella provincia di Torino. Che ricordi hai di quel periodo, del tuo inserimento in un contesto così nuovo e diverso che era l’Italia della metà degli anni Novanta? E quanto è diversa l’Italia di oggi alla luce delle crescenti ondate xenofobe?
Yendry: All’inizio non è stato facile; a scuola ero la sola bambina nera e sono passata attraverso la fase in cui avrei fatto di tutto per diventare bianca: mi strofinavo la pelle con il limone, volevo stirarmi i capelli a tutti i costi e, ovviamente, mi piacevano i ragazzini biondi.
Alle medie mi è addirittura capitato di subire qualche episodio di bullismo che mi ha costretta a cambiare scuola. Non credo di aver mai vissuto tutto questo come una vera e propria tragedia, ma non posso dire che non ci siano stati problemi o che non li abbia in qualche modo ‘registrati’.
Tra le persone che ho incontrato a quell’epoca, la maggior parte reagiva con ostilità nei mie confronti, in modo del tutto inconsapevole, senza neanche sapere cosa davvero significassero gli insulti che mi rivolgevano.
Oggi non mi sento più chiamare in certi modi, ma la tensione per strada o nei mezzi pubblici si sente e, evidentemente, è in crescita, tanto che spesso mi trovo a pensare che non so se vorrei che i miei figli nascessero qui. Ma poi mi rendo conto che la stessa situazione si ripete ovunque nel mondo, in Italia come negli Stati Uniti e, sì, anche in Repubblica Dominicana, dove non sopportano gli haitiani, e chi è di carnagione “troppo scura” viene guardato con sospetto.

Raccontaci del tuo viaggio a Santo Domingo. Cosa ti ha spinto ad intraprenderlo e come ha influenzato la tua produzione artistica, nello specifico la scrittura di Abyss?
Per quanto io pensi e parli in italiano e, prima dell’anno scorso, non fossi mai andata in repubblica Dominicana, in Italia non vengo mai considerata italiana e questo mi fa sentire in parte incompleta. Possiamo dire che io sia partita per cercare la mia identità, per trovare quel pezzo di me che sentivo mancante. La cosa buffa è stata che, una volta lì, non sono stata considerata nemmeno dominicana, vuoi per l’accento italiano, vuoi per il look visibilmente diverso da quello delle ragazze del posto.
Mi sono tuttavia sentita a casa quando ho ritrovato nella gente del posto alcune delle caratteristiche che, in Italia, spesso mi fanno sentire diversa. Così sono riuscita a riallacciare i rapporti con la me sudamericana, rapporti che vanno oltre gli stereotipi sulle donne latine, ma che hanno a che fare con modi di essere, di reagire, con l’energia vitale che mi contraddistingue nella vita di tutti i giorni.
Ovviamente mi sono confrontata anche con gli aspetti più duri, con il tessuto sociale problematico che si cela dietro l’apparente spensieratezza della popolazione. Uno su tutti è lo strano e precario equilibrio familiare dettato dalla totale assenza delle figure paterne, una assenza che ho vissuto in prima persona fino a quando nella mia vita non è entrato il mio padre adottivo.
Lì vige una sorta di poligamia ufficiosa, non istituzionalizzata ma tacitamente consentita e tollerata, che mi guardo bene dal giudicare. Si tratta di un retaggio culturale che non posso definire giusto o sbagliato ma che, innegabilmente, priva i figli di un padre e costringe le giovani madri a crescerli da sole.
Ho dedicato un brano del disco a questo tema: Father. < he will be there when I’ll reborn >

Sono tornata da questo viaggio con una consapevolezza nuova, arricchita da quel pezzo la cui assenza fino ad allora mi era pesata e, finalmente, pronta a parlare di me.
Vorrei essere capace di comunicare questa stessa consapevolezza ai giovani che oggi crescono a cavallo tra due culture, quella della loro famiglia e quella del Paese in cui sono nati e faticano a trovare un equilibrio. Mi piacerebbe aiutarli a combattere la tentazione di annullare le differenze, e incoraggiarli a valorizzarle come una ricchezza senza eguali.
Credo che la strada del vero progresso oggi non sia tanto quella della rivendicazione delle proprie radici, quanto quella della consapevolezza, della presa di coscienza del valore aggiunto che essere portatori di varietà culturali e linguistiche indubbiamente rappresenta.
Parlando di varietà linguistiche, le tue lingue sono l’italiano e lo spagnolo; perché hai scelto di cantare in inglese?
Ho sempre ascoltato musica americana e cantare in inglese è stato naturale fin da subito. Aggiungerei che, personalmente, non amo il suono della mia voce in italiano; quando ho partecipato ad X Factor 6 me lo hanno fatto fare, ma ho sentito che non mi rappresentava, e una volta uscita ho ripreso a cantare e scrivere in inglese.
Non escludo di poter interpretare dei brani in italiano, in un futuro, ma forse non mi sento ancora pronta. Credo che, in qualche modo, si tratti di raggiungere un livello di intimità ancora maggiore: parlare di sé stessi, con la propria musica, nella propria lingua, significherebbe spogliarsi del tutto e forse non sono ancora pronta a farlo.
Fino ad ora non avevo mai affrontato temi autobiografici nei miei testi, ma con Abyss ho scelto di aprirmi, di scavare in profondità e di sviluppare argomenti a me molto vicini.
La barriera linguistica è l’ultimo baluardo tra la mia intimità ed il mio pubblico; dovrà crollare, ma forse non sono ancora pronta a farlo.
Nel prossimo futuro ho in serbo un progetto in spagnolo, per cui questa lingua, oggi associata per lo più al reggaeton, si sposerà con delle sonorità prettamente elettroniche con risultati sicuramente interessanti.

Hai accennato alla tua esperienza ad X Factor 6: credi che questa abbia contribuito ad innalzare questa sorta di muro nei confronti del tuo pubblico?
Parzialmente sì. Quando ho partecipato ero giovane ed inconsapevole; mi sono ritrovata in mezzo a persone molto più determinate di me senza sapere esattamente cosa volessi da questa esperienza.
Il consiglio che do a tutte le ragazze che vogliono partecipare ad un talent è di farlo solo avendo le idee molto chiare ed essendo abbastanza forti per affrontare un contesto diverso e difficile.
Io non ho avuto la determinatezza di imporre la mia identità e sono stata travolta da un meccanismo che ha fatto di me la diva con il tacco dodici ed i capelli stirati che canta Nina Zilli e Call me maybe, quando mi sono presentata con i jeans dicendo che ascoltavo i Massive Attack, Frank Ocean e Lana del Rey.
Hanno costruito un personaggio molto lontano da quello che sono, e il pubblico che mi ha conosciuto allora si è affezionato a quel personaggio, non a me. Quindi sì, se ad X Factor devo il merito di avermi fatto realizzare che quello che volevo fare nella vita era cantare, dall’altra parte sono certa che abbia contribuito ad innalzare tra me e la gente un muro fortificato da un interrogativo costante: “ Questo è il mio pubblico, interessato a me, alla mia musica ed alla mia voce, o è il pubblico di X Factor? ”
La verità è che io devo ancora mostrarmi del tutto, e quando sarà il momento lo farò nel modo più autentico possibile, sarò me stessa al 100%, senza artifici.
Che peso ha avuto il tuo aspetto fisico nella tua carriera?
Fino a poco tempo fa ho sempre negato che essere carina fosse un vantaggio, ma purtroppo mi trovo ad ammettere che è così. Tanto nella vita di tutti i giorni quanto nella carriera musicale non posso negare che essere una bella ragazza aiuti.

In alcuni casi è stato quasi un ostacolo: sempre ad X Factor si è spesso polemizzato sul fatto che fossi entrata in trasmissione più per l’aspetto fisico che per le mie doti vocali, mentre nella quotidianità subisco costantemente gli stereotipi della ‘latina caliente’ o della ragazza esotica che la maggior parte degli uomini spogliano con gli occhi.
La verità è che davanti alla bellezza spesso anche il razzismo si fa da parte. Anche nei Materianera la mia immagine ha avuto un certo peso rispetto all’interesse dimostrato da determinati contesti—fashion system e magazine di moda.
La difficoltà sta nel trovare il giusto equilibrio, e non superare il limite che ti porta ad essere la solita ragazza che mostra il corpo, rispetto al quale tutto passa poi in secondo piano.
Sei senza dubbio una ragazza eclettica, fai molte cose diverse, oltre alla musica; non pensi mai di concentrarti esclusivamente su questa ?
Ci penso ogni giorno quando vado a fare un lavoro che, per quanto mi piaccia, non è quello che vorrei. Il mio obiettivo è, ovviamente, quello di poter vivere di sola musica, ma per ora non è ancora possibile. Quindi mi ritrovo a fare altri lavori per pagare le bollette. Tuttavia questo mi consente di essere straordinariamente camaleontica: con l’uscita di Supernova mi sono ritrovata ad avere il mio video in rotazione su MTV—con tutto quello che per noi nati nei primi anni ’90 significa,— e la sera a consegnare le pizze.
Questa duplicità mi permette di avere i piedi per terra e di essere sempre me stessa anche nei contesti più esclusivi, circondata da celebrità e da artisti stranieri perché so che la mattina successiva mi alzerò ed andrò a fare la cameriera e lo farò con il sorriso sulle labbra.
Ti dirò di più: nell’ultimo anno ho scelto di abbandonare un lavoro, quello di cantante nel programma “Il Paese delle Meraviglie”, di Crozza su La7, da molti ritenuto l’apice di una carriera e garanzia di sicurezza economica, in favore di un lavoro part time all’interno di un negozio di abbigliamento che mi permettesse di dedicare tempo ed energie alla mia musica.
Un giorno sarò in grado di dedicarmi solo alla musica ma per ora è così e, tutto sommato, mi piace.
Parlaci di come sono iniziate le cose con i Materianera, come definiresti la vostra musica ed i vostri programmi futuri.
Con i Materianera è iniziata in modo del tutto naturale: sono capitata in studio da Alain e Davide e loro mi hanno aiutato a concretizzare delle cose che avevo in testa da tempo, più precisamente nelle note vocali del mio cellulare.

Ora siamo in una fase di transizione; abbiamo messo tutta la nostra passione e dedizione in questo album e speriamo piaccia alla gente. Ciò che riscontriamo è che la nostra musica è difficilmente categorizzabile, e questo ci porta ad avere qualche difficoltà nel trovare i contesti giusti in cui suonare.
La nostra identità è ancora in costruzione, facciamo senza dubbio musica elettronica, ma i nostri riferimenti sono moltissimi: dai Moderat a Frank Ocean, passando per Kendrick Lamar. Questa varietà è amplificata dall’unione di tre personalità dai background così diversi: Davide ascolta i Pink Floyd e la musica italiana, Alain la Deep House e l’Afrobeat, mentre io amo l’RnB e la musica soul.
All’interno del disco credo si intraveda questa ampiezza di influenze e penso che ne rappresenti anche la nostra forza. Abbiamo fatto la musica che ci piaceva, senza una direzione predeterminata, tanto che i brani sono piuttosto diversi l’uno dall’altro: in una traccia io quasi rappo, #SongTwo; c’è Mr. Medicine, un pezzo da club con la cassa dritta, e Father, del tutto senza struttura, con una strofa lunga che si alterna con un synth. Non so se azzarderei a dire che facciamo cose sperimentali, per ora facciamo le cose che ci piacciono.
…e la vera fortuna è che i Materianera fanno cose che piacciono anche a noi. Trovate il disco su Itunes o Spotify. Buon ascolto!
– Jennifer Caodaglio
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Immagine di copertina | Davide D’Ambra
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Dove gli stimoli non sono mai troppi ed il tempo mai abbastanza, lì si inserisce la mia vita: sono laureata in Letterature Moderne, organizzatrice di eventi, ballerina ed insegnante di streetdance, caraibica di origini e torinese di nascita.